I l dibattito sollevato in questi giorni dalla legge per la tutela della lingua friulana presentata dall’assessore regionale all’Istruzione, Roberto Antonaz (di Rifondazione comunista) mi ha riportato alla mente una vicenda ormai lontana. Che, però, vale la pena raccontare per comprendere l’importanza della questione. Nel 1971 due deputati, Mario Lizzero, «Andrea» come partigiano, udinese e pugnace comunista, e Francesco Compagna, vecchio amico per me, repubblicano, piombarono a casa mia chiedendomi se accettavo di dirigere una indagine conoscitiva del Servizio Studi della Camera sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Ero sorpreso. Mi spiegarono che, anche se non me ne rendevo conto, un mio libro di anni prima era l'unico in cui si parlasse della questione.
E che, comunque, bisognava finalmente attuare l’art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche. Accettai. Cominciò una storia già essa travagliata, dovette intervenire Sandro Pertini, presidente della Camera, a difendere, contro il governo dell’epoca, il diritto del Parlamento a promuovere indagini conoscitive su questa e ogni altra materia. L’indagine si concluse nel 1974, ma per vario tempo restò a dormire. Da varie parti, le dirigenze centrali dei partiti erano ostili anche alla sola idea di conoscere lo stato delle cose. C’era una situazione paradossale. Localmente, dai comuni albanesi o neogreci alle aree slovene o friulane, politici del luogo e, debbo aggiungere subito, la Chiesa, erano schierate per destare o ridestare le tradizioni minoritarie. Le dirigenze nazionali erano timorose, anzi apertamente ostili, da Aldo Moro al gruppo dirigente del Pci. Anche localmente le cose erano turbolente. L’autorevole gruppo dei parlamentari comunisti sardi si ribellava all’idea di promuovere la tutela del sardo: questo, dicevano, avrebbe «ghettizzato» l’Isola. Anche in Friuli non tutto era rose e fiori. La buona borghesia non condivideva l’impegno dei deputati e della Chiesa. Lizzero, nel 1974, mi trascinò a cercare di spiegare che le minoranze non erano il diavolo. Nella sala successe un pandemonio.
Poi, col terremoto, le cose cambiarono e i friulani riscoprirono l’orgoglio, anche linguistico, per la loro cultura. Anche in Sardegna lentamente le cose maturavano. Perfino nel Pci.
Nel 1977 o 1978 Giovanni Berlinguer mi propose di aprire un convegno a Sassari sul sardo e le lingue di minoranza. Sopravvissi. I dubbi però restavano. Intanto, finalmente, l’indagine conoscitiva venne pubblicata, con una sintesi affidata a me e a Gianbattista Pellegrini. Che esistessero in Italia minoranze linguistiche era difficile da negare. Ma sul piano legislativo si segnava il passo. Lizzero e Chiarante ottennero che la segreteria del Partito comunista mi ascoltasse. Entrai con molta emozione nella sala della riunione. Non ero comunista, ma avevo un rispetto profondo — e lo conservo — per quel che il Partito comunista sapeva essere, ma questo è altro discorso. Fui interrogato a lungo, con curiosità, forse con interesse. Estraneo al Partito, non ho mai saputo che esito ebbe la riunione. Certo è che poco tempo dopo senatori e deputati comunisti furono autorizzati a predisporre un disegno di legge in materia, su cui si impegnarono in fasi successive Lizzero, sempre, Beppe Chiarante, Marino Raicich, poi indipendenti e socialisti come Silvana Schiavi Facchin e Loris Fortuna.
Ma l’ostilità diffusa permaneva.
Un buon testo di legge approvato dalla Camera nel 1989 venne insabbiato nel passaggio al Senato. Dopo l’approvazione si scatenò una violenta campagna di stampa guidata da un gruppo di storici torinesi e napoletani e riecheggiata largamente: la tutela delle minoranze fu presentata come una imposizione dei «dialetti». Ovviamente non era così, oltre tutto la legge non imponeva niente, ma solo apriva la possibilità, a chi lo richiedesse, di introdurre nel suo curricolo scolastico lo studio di un’ora di una delle lingue che Consigli regionali e Comuni avessero dichiarate degne di essere «lingua minoritaria», sulla base di pareri degli specialisti. Sabino Cassese calcolò all’epoca che sarebbero stati necessari parecchi anni, sei o sette, stante quella legge, tra la richiesta di una congrua maggioranza di genitori perché nella scuola dei figli si aprisse quella possibilità e la sua realizzazione. Mentre a Roma si discuteva, la Comunità, poi Unione Europea mandava severi richiami perché anche l’Italia, come i restanti Stati, si adeguasse ai principi di tutela del diritto umano di parlare e studiare la propria lingua, anche se minoritaria. Di legislatura in legislatura si andò avanti tergiversando, finché nel 1999, cinquant’anni dopo la Costituzione, una legge dal testo non brillante fece un primo passo in questa direzione. Quella verso cui, dopo un altro decennio, accenna a muoversi la Regione Friuli.
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