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Diretore: Pepe Coròngiu       Coord.Editoriale: Micheli Ladu
SEBEROS DE IMPRENTA

LA NUOVA SARDEGNA - Cultura e istruzione : 22.10.2007
"Cambiare i metodi scolastici per l’insegnamento del sardo" 

Maria Antonietta Mongiu, neo assessore regionale alla Cultura, parla di rivoluzione copernicana per impedirne l’estinzione

CAGLIARI. Quando si dice il genius loci, la suggestione del luogo. Maria Antonietta Mongiu, neo assessore regionale alla Cultura, la descrive così: «La cosa piu bella? Tutti i giorni ho davanti agli occhi il colle di Tuvixeddu: un paesaggio familiare, un luogo simbolico straordinario. L’assessorato è in viale Trieste, dove ho fatto la maggior parte dei miei scavi archeologici, dal 1978 in poi. Inoltre è prospiciente il liceo Siotto, dove ho insegnato a lungo. Tutto mi risulta quasi intimo». Impatto dolce, dunque. Aurea eccezione, in questo campo. Le servirà, eccome, perché Maria Antonietta Mongiu ha in mente una rivoluzione copernicana (parole sue) in materia di lingua sarda. Non in solitudine, ma d’accordo con lo Stato. Per riuscire nella “grande scommessa” conta innanzi tutto sulle persone che già lavorano con lei. «Molti dirigenti dell’assessorato sono stati miei colleghi all’Università — dice visibilmente compiaciuta —. Mi ritrovo con gente che faciliterà particolarmente il mio percorso al servizio della Sardegna. L’ho capito fin dai primi giorni del mio impegno». 

Al neo-assessore è arrivato anche un segnale esterno graditissimo: «Il professor Lilliu mi ha scritto una lettera emozionante, è stato molto generoso con me». Fresca degli applausi scroscianti ricevuti al convegno internazionale sulla lingua amministrativa — scorso fine settimana a Cagliari — l’assessore Mongiu risponde di buon grado alle domande. —In un recente convegno a Laconi, lei ha parlato di una politica sistematica sulla lingua. Che significa? «Far rientrare il sardo nella normalità, sottraendolo all’eccezionalità in cui viene ridotto. Finora l’approccio sconfinava nel folcloristico e nel bozzettistico. Chi viene, come me e molti altri, da un approccio sardofono logudorese vive tutto questo mondo in maniera diversa». — Ossia? «Nei luoghi da cui io provengo il rapporto con la madrelingua non è subalterno ma identitario, con precisi ricordi delle persone che emigravano e tornavano variando l’accento: costoro erano percepiti come persone senza appartenenza. La mia sibilante, invece, è un segno identitario e ne vado fiera ». — L’approccio di eccezionalità? «Era macchiettistico. Essendo io cresciuta in ambiente sardofono e avendo imparato l’italiano come forma letteraria e di scrittura, mi richiamerei a quello che scrive Canetti perché per molti il sardo è stata una lingua familiare salvata, non scritta, non oggettiva, ma appartenente alla sfera sentimentale profonda. 

Canetti, riassumo, dice che quando uno impara una lingua alloglotta questa diventa poi la lingua dell’oggettività». — Come far rientrare in concreto la lingua sarda nella normalità? «Una continuità si è spezzata, il recupero deve passare attraverso strutture formali come la scuola». — Vuole spiegare ancora? «Il fatto che in alcuni istituti scolastici si sia riattivato un processo di insegnamento del sardo, della costruzione di un ambiente in cui la parlata è il sardo perché possa ridiventare veicolare fuori da un contesto sardofono, come nella scuola “Randaccio” a Cagliari, è significativo. La vicenda è balzata alla ribalta nazionale perché la ripresa della sardofonia è avvenuta nell’unico sistema possibile in contesti urbani: l’insegnamento». — Che succederà, dunque? «Nel piano triennale per l’istruzione che la Giunta Soru si accinge a varare il sardo diventa — con l’inglese — parte dell’offerta aggiuntiva. Ci saranno dei corsi aperti a chiunque voglia iscriversi». — Una scuola diversa? «La scuola deve prolungare il suo tempo d’apertura ed essere un presidio reale nei territori, i corsi possono essere aperti a tutti. C’è un’intera generazione che non è cresciuta nella sardofonia ma in una strana lingua meticcia, un italiano inadatto, non complesso. La mia generazione cresceva in un sardo complesso che poteva interpretare il mondo ». — Una bella difesa, vuol dire questo? 

«Sì. E non è un caso che gli schemi, le metafore, i modi di percepire se stessi e la realtà sono stati trasfeririti all’italiano non solo da una generazione di intellettuali ma anche dai nostri emigrati che hanno istituito un approccio corretto con la lingua italiana perché avevano un controllo assoluto della grammatica e della sintassi del sardo. Quante volte abbiamo sentito dire che i pastori sardi parlano bene l’italiano? Lo parlano bene perché non fanno le confusioni tipiche di chi non possiede un codice linguistico. Occorre riprendere la normalità della trasmissione per arrivare a forme veicolari compiute». — Una bella scommessa. «Bella e grande. Fin qui in Sardegna non è stata fatta un- ’operazione di questo genere. Anche nella proposta didattica del sardo non c’era questa consapevolezza adulta rispetto al riconoscimento che abbiamo visto nella delibera del consiglio di istituto della scuola di cui dicevo. Pensiamo possa diventare un esempio proprio per la sua normalità, contrapposta all’eccezionalità del passato». — Cosa succederebbe di buono oggi se l’Università, anziché far finta di formare gli insegnanti, li formasse davvero? 

«È uno dei temi da approfondire. L’Università riceve fondi dalla Regione per dei corsi. Anziché girare intorno al problema, bisogna dire con chiarezza qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. I corsi dovranno formare persone in grado di fare l’operazione di cui parlavamo». — Può fare un esempio concreto? «Se nei nuovi approcci dell’apprendimento dell’inglese noi abbiamo ambientazioni in cui lo sfondo — meglio: il rumore di fondo — è l’inglese, deve avvenire così anche per il sardo. La formazione di queste persone è una responsabilità così assoluta che dovremo certamente rimetterci le mani ». — Iniziando da dove? «Non è pensabile che nel monte-ore dei corsi universitari l’insegnamento del sardo continui a essere marginale. C’è una sorta di confusione tra lingua e cultura, si fa qualsiasi cosa ma non la lingua: nessun approfondimento grammaticale, sintattico, glottologico. Prendiamo la fonetica: dove sono i laboratori linguistici, gli archivi che documentino l’articolazione dei suoni nella estrema ricchezza della lingua sarda? Oggi abbiamo un tipo di insegnamento convenzionale che trascura l’oggetto di studio». — Prevede resistenze? «No, mettere mani a tutto questo farà superare le discussioni fuorvianti. Se il sardo deve essere una assoluta normalità, occorrono metodologie e contenuti approfonditi, senza confusioni.

Poi potremo aprire altre finestre — costume, danza, rapporto con il corpo, geografia — ma già parliamo d’altro, non di lingua. Altrimenti il rischio è che quando alcune generazioni verranno a mancare ci ritroveremo a parlare di un qualcosa di estinto ». — Davvero c’è questo rischio? La situazione non è già migliorata di molto, rispetto a trent’anni fa, come sostiene il professor Lilliu? «La situazione è migliorata, l’investimento didattico-pedagogico e la perseveranza hanno fatto sì che in alcuni contesti si superasse l’ostacolo. Ricordo una scenetta all’oratorio di Pattada. In una letterina di Natale scrissi: caro Gesù Bambino, fammi passare le bullanche, ossia le dermatiti da contatto con alcune erbe. Mi vergognai di aver confuso i due registri linguistici, però da allora ho imparato un perfetto italiano, come “altra cosa”, senza più confondere». — Con quali esercizi? «Riscrivendo i libri presi in prestito all’asilo o in parrocchia e ricopiandoli per avere la possibilità di rileggerli più volte, anche a voce alta, e ripetendone interi pezzi, consultando i vocabolari. Esercizi duri ma fruttuosi, nell’idea che in sardo si recuperi un’identificazione di parole con le cose ». — In questo discorso il rapporto Regione-Stato non dotrà essere conflittuale. «Conflittuale? Al contrario, il rapporto va intensificato. 

La scelta che l’esecutivo di Renato Soru ha fatto è rivoluzionaria, cinque anni fa un ragionamento del genere era impensabile anche fra noi due. La nascita di una direzione regionale per l’istruzione significa che la Regione intensifica gli sforzi: coraggiosamente, anziché un funzionario suo, ha preso un dirigente scolastico, Anna Maria Sanna, persona di solida e complessissima preparazione. Siamo con lo Stato, coinvolti direttamente, decidendo e tematizzando un progetto. Una rivoluzione copernicana ».


Paolo Pillonca


  




 

 
 
 

 

 
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