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La Nuova Sardegna 27/10/2007
LA VERA LIMBA È QUELLA METICCIA DI ATZENI.  

27.10.2007 La Nuova 

Bianca Pitzorno: odio e bugie contro sa limba


Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un brano dal pezzo di Bianca Pitzorno contenuto nel volume «Cartas de logu» (Cuec, 218 pagine, 12,00 euro). 


Scrittrice sarda di lingua italiana», vengo definita da alcuni studiosi con una sfumatura di rimprovero. Quale definizione alternativa mi esimerebbe dal biasimo di costoro: «scrittrice sarda di lingua sarda»? Ma esistono gli «scrittori sardi di lingua sarda»? Non parlo di poeti, ma di narratori capaci di opere di largo respiro e di struttura complessa, creatori di indimenticabili personaggi; esistono autori di libri pubblicati, venduti, letti da qualcuno al di fuori delle loro conoscenze personali, recensiti, tradotti in altre lingue? Quegli studiosi mi dicono minacciosi che sì, che ne esistono moltissimi, antichi e moderni. Ma nessuno me ne ha mai fatto i nomi. Da parte mia correggerei volentieri questa mia ignoranza. Sarebbe fantastico scoprire di avere avuto anche in Sardegna qualcuno del valore di Goldoni o di Carlo Porta, che scrissero i loro capolavori in veneziano e in milanese. Per quanto ne so, la «scrittrice sarda» più grande e famosa, Grazia Deledda, scriveva come me in italiano, anche se dicono che finché visse in Sardegna parlasse solo in sardo, e che l'italiano lo avesse imparato a scuola, sui libri. Non mi meraviglio. Per uno scrittore la lingua madre è quella dei primi libri che legge. [...] 


Io sono nata a Sassari, qui ho frequentato il liceo Azuni e mi sono laureata in Lettere Antiche all'Università di Cagliari, dove ho frequentato tra gli altri i corsi di Linguistica Sarda di Antonio Sanna. Eppure non ho mai parlato il sardo. Capisco qualcosa delle sue diverse varianti, ma non sarei in grado, non dico di scriverlo, ma neppure di pronunciare una frase corretta è [...] Nella mia famiglia parlavamo esclusivamente in italiano, tranne mio padre che, per necessità di lavoro, doveva parlare e capire anche il sassarese, essendo il suo ambulatorio e i suoi pazienti profondamente radicati nei vicoli della città vecchia. Già, il sassarese... Somiglia poco al sardo dell'interno, e ancora meno alla resuscitata limba. Io non lo parlo fluentemente, ma lo capisco, e mi piace moltissimo, per quel suo spirito mordace, per la sua ironia, per l'espressività di certi aggettivi. E, se posso, non mi perdo una commedia in sassarese. Lungi dall'essere una lingua «artificiale e ricostruita», come sostiene qualche fautore della limba comuna, quella dei dialoghi teatrali riproduce il più fedelmente possibile la spontaneità e la freschezza della lingua parlata, e quindi viva e in continuo mutamento. Anni fa ho fatto arrabbiare qualcuno dei puristi isolani sostenendo che il vero sardo di oggi, quello vivo e cangiante, lo troviamo nell'ultima opera di Sergio Atzeni, «Bellas Mariposas», i cui protagonisti lo contaminano vivacemente e realisticamente con termini italiani e col gergo inglese dei gruppi musicali amati dai giovani. In confronto, il sardo dei Condaghes e della Carta de Logu ormai è una lingua morta. Non c'è un giudizio negativo in questa definizione. Le lingue, come tutti gli organismi viventi, nascono, vivono e muoiono, senza che ciò costituisca per nessuno una tragedia. Consideriamo crudeli assassini i poeti della Scuola Siciliana e Dante per aver favorito l'affermazione dell'italiano a spese del vecchio latino? Oggi il latino è una lingua morta, ma la ricchezza letteraria, giuridica, filosofica che ci ha lasciato non è andata persa. Non lo parliamo più, non lo usiamo per scrivere racconti, documenti o e-mail, eppure ci torniamo in continuazione, così come sul greco antico, fondamentali entrambi per la nostra lingua e per la nostra cultura. Le mie origini linguistiche sono debitrici di queste due lingue morte e della letteratura che ci hanno lasciato. [...] 



Ma le radici, le radici... obietta qualcuno. Gli uomini non sono alberi, sono animali, e hanno le gambe per andare lontano, per muoversi, per vivere in luoghi diversi, per cambiare. [...] Ho passato in continente, a Milano, la maggior parte della mia vita. Ho lavorato in un ente pubblico come la Rai, ed anche alla televisione della Svizzera italiana. Ma non mi è stato mai chiesto di parlare né scrivere il milanese né il ticinese, cosa di cui sono molto grata agli abitanti e alle autorità di quei luoghi. Dopo quarant'anni, capisco e amo il milanese: quello dei vecchi, quello letterario di Carlo Porta, quello delle canzoni della mala e di Jannacci. Però sono molto contenta di potermi intendere con la gente, e di essere letta, su tutto il territorio nazionale, nella mia lingua madre, che è l'italiano. Perché poi devo essere definita «scrittrice sarda», e chiusa in una categoria-recinto insieme agli altri scrittori nati nell'isola? Per aver ambientato in Sardegna cinque o sei dei miei romanzi? E gli altri quaranta ambientati nel resto del mondo, quelli non valgono? Cosa abbiamo realmente in comune, noi cosiddetti «scrittori sardi», al di là dei dati anagrafici? [...]

Avevo nove anni quando i miei genitori, di ritorno da un viaggio a Parigi, mi regalarono una copia de «II piccolo principe», rigorosamente in francese. E l'anno dopo mi mandarono da una deliziosa «madame» che aveva sposato un medico di Sassari a prendere lezioni di quella lingua, che poi continuai a studiare alle medie e al ginnasio. A dodici anni scoprii la poesia moderna leggendo in lingua originale il «Lamento per la morte di Ignacio» di Federico Garcia Lorca, e piano piano, per mio conto, imparai sui libri lo spagnolo che da anni parlo e scrivo correntemente, anche se da quando frequento Cuba, l'ho un po' «sporcato» con «el sudaca» che si parla in America Latina. A diciassette anni mi «ammagai», come si diceva a Sassari, per una breve estate con un biondino di Duesseldorf, e dovetti imparare i rudimenti del tedesco che però, come l'inglese, mi risulta un po' più difficile. I miei libri sono stati tradotti in tutte queste lingue e in molte altre, compreso il greco, il turco, il cinese e il coreano. L'ultima copia che mi è arrivata pochi giorni fa è in tailandese. Nessuno dei miei lettori di quei lontani paesi, grazie a Dio, mi conosce come «scrittrice sarda». E se dovessi dare una definizione di me stessa relativa alla mia scrittura (perché la prima scelta nel definirmi attingerebbe a elementi e parametri assai diversi) temo che deluderei moltissimo i cultori della «letteratura sarda», perché mi direi senza esitare «scrittrice europea di lingua italiana».


  




 

 
 
 

 

 
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