Provate a immaginare una Sardegna in cui la classe dirigente non consideri la sua terra periferia di Milano o Roma, ma centro del Mediterraneo occidentale.
Questa classe dirigente avrebbe rapporti culturali ed economici con Marsiglia, Barcellona, Algeri e Tunisi, oltre che con Milano e Roma.
Domanda retorica: quella Sardegna ipotetica sarebbe più ricca o più povera rispetto a quella attuale?
Ho investigato questa ipotesi in un articolo in sardo pubblicato su Diariulimba (http://www.sotziulimbasarda.net/ottobre2006/Sa%20limba%20de%20su%20famine.pdf) e ho ovviamente concluso, fornendo le dovute motivazioni, che quella Sardegna sarebbe molto più ricca.
Chi si considera periferia si rivolge automaticamente all’unico centro che riconosce e, nei suoi rapporti con questo, accetta le condizioni che il centro gli detta.
Chi si considera centro, invece, si guarda attorno e sceglie di interagire nel modo più conveniente con chi gli sta attorno.
Ma da dove proviene la differenza fra il considerarsi centro o periferia?
Geograficamente, noi siamo più vicini a Marsiglia che non a Genova, e a Barcellona che non a Milano; politicamente tutte queste città sono all’interno dell’Unione Europea e la Sardegna è al centro di quest’area di libero traffico di merci e di persone; linguisticamente le uniche barriere che esistono sono quelle prodotte dal monolinguismo isterico che affligge gli italiani: basterebbe imparare francese e catalano (o almeno spagnolo: per noi sarebbe uno scherzo! E oltretutto, gli algheresi dove li lasciamo?).
Ma allora, perché siamo ancora soltanto periferia dell’Italia?
Provo a fare un esempio quasi concreto.
Un’industria catalana che volesse piazzare i suoi prodotti in Sardegna —e i Catalani sanno bene dove’è la Sardegna con il suo mercato di oltre 1.600.000 consumatori—dovrebbe necessariamente passare per Milano: lì hanno sede le grandi imprese di distribuzione che operano nel territorio dello stato italiano. Oggi come oggi, chi vuole arrivare in Sardegna deve passare per Milano.
Questo danneggerebbe un po’ l’industria catalana, che diventerebbe meno competitiva nei nostri confronti, ma soprattutto noi consumatori sardi, che pagheremmo il trasporto delle merci su una distanza quasi tripla rispetto a quella tra Barcellona e Porto Torres (solo 514 km di trasporto via mare!): Barcellona-Milano (740 km: via terra! ) + Milano-Porto Torres (530 via terra e via mare) = 1270 km. Ma il trasporto di merci via terra è ovviamente molto più caro. A questo andrebbe aggiunto il fatto che i profitti della distribuzione dei prodotti catalani in Sardegna verrebbero reinvestiti a Milano e non in Sardegna.
Le uniche a guadagnare da questa situazione sarebbero dunque le imprese di distribuzione con sede a Milano. Queste però trovano probabilmente più redditizio distribuire prodotti provenienti da aree più vicine alle loro sedi, ma più lontane dalla Sardegna.
Non a caso, allora, non ho mai visto in Sardegna quei prodotti catalani e/o spagnoli che in Olanda—dove vivo—si vendono a prezzi molto competitivi. In ogni caso, quindi, a parità di prodotto, noi sardi paghiamo più del dovuto i prodotti importati dall’Italia (o che passano per l’Italia).
Perché allora i Sardi, che hanno tutto da guadagnare da una razionalizzazione del mercato, non vanno a comprarsi quei prodotti direttamente in Catalogna? O a Marsiglia? O perfino a Londra, visto che in termini di costi dei voli, l’Inghilterra è molto più vicina dell’Italia?
I Sardi che potrebbero fare questo salto—la nostra classe dirigente—continuano a comportarsi come se, qualunque cosa succeda, si debba passare per forza per Milano o per Roma. I nostri eroi pensano che per arrivare a Barcellona—uno dei centri economici europei—si debba passare da Milano: il loro punto di riferimento.
Essere periferia vuol dire allora questo: non pensare in modo autonomo; pensare che sia naturale pagare più del dovuto, pur di non mettere in discussione il rapporto di dipendenza con quello che si considera il proprio punto di riferimento. La palla al piede dei Sardi è proprio la dipendenza psicologica—cioè politica, culturale ed economica— che questa gente ha nei confronti dei centri di potere dell’Italia. Questo è il fattore che riproduce in eterno il sottosviluppo e la dipendenza della Sardegna.
La mentalità dipendente di questi Sardi fa molto comodo agli imprenditori milanesi, che cosí non vedono i loro profitti in Sardegna minacciati dalla concorrenza—per esempio—catalana, ma al resto dei Sardi questa costa solo un sacco di quattrini. Anni fa la Sardegna importava almeno l’80% dei prodotti di consumo. E oggi?
Lo stesso ragionamento vale per i (pochi) prodotti che la Sardegna offre sui mercati esterni.
So che esistono eccezioni a questa regola, ma sono, appunto, eccezioni.
Con questo, però, non voglio suggerire che il comportamento della classe dirigente sarda sia irrazionale: finora tutto questo, per la classe dirigente sarda, ha pagato e loro sono rimasti in sella. Al contrario, irrazionale è il comportamento del resto dei Sardi, i quali pagano il prezzo delle scelte culturali ed economiche effettuate dall’attuale élite, senza averne una controparte. Irrazionale—si legga: “stupido”—è chi si tiene sulla groppa un ceto parassitario che ancora si autolegittima come intermediario tra i Sardi e i centri di potere italiani, mentre ormai gli attori sulla scena economica e culturale sono, come minimo, il resto dei paesi europei e, ormai, tutti i protagonisti della globalizzazione in atto: in via Sardegna, a Cagliari, oggi ci sono i Cinesi al posto dei Napoletani. Un buon intermediario oggi non parla italiano: parla soprattutto inglese (e possibilmente cinese!) e ... sardo.
Perché il sardo?
La storia ci ha dimostrato che una classe dirigente incapace di comprendere la propria terra, la porta alla rovina. E per capire la Sardegna bisogna pensare in sardo.
La Sardegna che pensava in sardo ha prodotto Deledda, Lussu e Gramsci. La Sardegna che pensa in italiano ha prodotto Segni, Cossiga e—ma c’entra?—Berlinguer. Chi è stato meglio? Meglio per noi? Meglio per il resto del mondo?A noi posteri la non ardua sentenza .
La ragione d’essere di una classe dirigente in una società civile e democratica proviene dalla capacità di conciliare i propri interessi—ci mancherebbe altro!—con quelli della collettività. Chi non ha questa capacità, prima o poi viene spazzato via—pardon! sostituito.
La classe dirigente sarda—definita da Michelangelo Pira “borghesia compradora”—si è formata e ha stabilizzato il proprio ruolo intorno alla fine dell’800.
Il compito dei “printzipales” cooptati al potere metropolitano era quello di rendere governabile la Sardegna (soprattutto il Nuorese: la “zona delinquente!” ) da parte del potere metropolitano.
Il loro compenso consisteva nel rendere stabili i privilegi che fino ad allora ciascuna generazione di printzipales doveva conquistarsi per conto suo in ciascuna delle “libere repubbliche montanare” costituite dai villaggi sardi (sempre secondo Pira).
Il banditismo—cioè il modo tradizionale di redistribuire la ricchezza—impediva la cristallizzazione dei privilegi dei neo-borghesi/ex-balentes e metteva in discussione il monopolio statale della violenza. Ex abigeatari di successo e potere metropolitano—il garante dello status quo—si trovarono quindi alleati nella volontà di fermare i nuovi arrampicatori sociali.
L’opera di Grazia Deledda, all’incirca contemporanea a quegli avvenimenti, si può leggere come il resoconto letterario della nascita della “borghesia compradora”. Per capire il collegamento tra i romanzi deleddiani e la realtà della Sardegna di fine ‘800, basta leggerli parallelamente a “La rivolta dell’oggetto” di Pira e a “Banditi a Orgosolo” di Franco Cagnetta.
Anche per la “borghesia compradora” nel suo insieme vale allora quello che Alberto Cirese in “Intellettuali, folkore, istinto di classe” ha scritto di Grazia Deledda: “Ed eccola presa necessariamente nella tensione tra “civiltà” e “barbarie”: non può rifiutare la prima se non compremettendo l’opera di mediazione e di integrazione che intende svolgere; non può rinunciare alla seconda se non rinunciando al suo stesso ruolo.” E l’opera di Grazia Deledda non si può comprendere appieno se si ignora che il fratello maggiore (definito “il suo idolo maggiore” in “Cosima”, l’ultimo romanzo largamente autobiografico) era finito in galera per abigeato.
Come Grazia Deledda ne aveva bisogno per avere qualcosa di cui scrivere per il pubblico “continentale” a cui si rivolgeva, la classe dirigente sarda aveva bisogno del “banditosardo” per poterlo tradire e vendere al potere metropolitano, e quindi legittimare di fronte allo stato la propria posizione localmente egemone. I printzipales dovevano però tradire non solo i banditi loro contemporanei, ma anche la memoria dei propri padri e nonni: la cultura che li aveva espressi come primi inter pares (si veda di nuovo Pira).
A legittimarli di fronte al resto dei Sardi c’era poi la cultura superiore (“la civiltà”) dei “continentali” che loro ormai rappresentavano indirettamente attraverso i loro figli “studiati” (sempre Pira).
I frutti dell’abigeato (recente o antico) venivano perciò investiti nell’acculturamento, in modo da porre i propri figli al di fuori delle dinamiche della cultura tradizionale, secondo le quali i privilegi di un printzipale duravano quanto durava la sua capacità di saperseli garantire. Altrimenti la ricchezza accumulata veniva inesorabilmente redistribuita.
Da quel momento in poi sarebbe stata la scuola, soprattutto attraverso il filtro spietato della lingua, a selezionare la futura classe dirigente. Solo i più diligenti nell’appropriarsi della lingua e dei valori “nazionali” potevano sperare di accedere ai posti di comando.
Storie di ordinaria follia coloniale, raccontate in modo tragicomicamente adeguato da Cicitu Masala...
Questa ricetta di suddivisione dei ruoli tra potere centrale e locale ha funzionato per molto tempo, anche nel periodo postcoloniale. Neanche il primo sardismo (neanche Lussu!) ha mai messo in discussione la superiorità della cultura e della lingua del potere centrale. Per tutti, la lingua e la cultura che erano alla base de “l’iniqua disparità di partecipazione al processo della costruzione capitalistica” (Cirese, op. cit.) erano considerati da tutti “Lingua e Cultura tout court”.
Ci sono voluti il ’68—figlio anche della decolonizzazione e del terzomondismo—e soprattutto il risveglio dalla sbronza petrolchimica, perché i Sardi cominciassero a mettere in discussione la cultura italiana. Il delirante modello di sviluppo imposto dalla classe dirigente sarda—praticamente tutta la classe dirigente sarda!—ha fatto comprendere che la loro subalternità culturale aveva danneggiato i Sardi in modo gravissimo e proprio economicamente.
Accecati dal proprio complesso di inferiorità, i Sardi si erano messi a fare i Milanesi e i Milanesi—ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale—li avevano fregati! A parti quelli rubati, quanti quattrini sono stati buttati a mare, quanti soldi non sono stati investiti in uno sviluppo possibile e gestibile...
E ancora oggi: inquinano in Sardegna, ma pagano le tasse a Milano. O forse sta cambiando qualcosa?
Il monumento alla cultura sarda pubblicato nel 1978 da Michelangelo Pira con il titolo eloquentissimo di “La rivolta dell’oggetto” segna il momento più alto della presa di coscienza da parte di una nuova élite di intellettuali sardi. Il lavoro di Pira, largamente ispirato dal profeta della globalizzazione McLuhan, ha anche anticipato moltissimi degli sviluppi successivi del dibattito culturale in Sardegna e ha a sua volta ispirato una nuova generazione di intellettuali non più—o non solo—“sardisti”, ma, come Pira, soprattutto sardofoni e sardografi. Il neosardismo deve molto di più a Gramsci che non a Lussu—uomo d’azione, quest’ultimo, e non di riflessione.
Le nuove avanguardie culturali dei Sardi hanno cominciato cosí a scrivere la propria antropologia, la propria linguistica e la propria letteratura senza la mediazione soffocante e inquinante della cultura e dell’università italiane e guardando direttamente alla cultura internazionale. Il resto è cronaca...
Dopo il riconoscimento del sardo da parte della legge regionale 26/97 e, da parte dello stato italiano, con la legge 248/99 gli eventi hanno subito un’accelerazione. Oggi la maggioranza dei Sardi afferma di sentirsi maggiormente legato al sardo che non all’italiano e vuole che il sardo entri nella scuola e acquisisca uno status ufficiale nell’amministrazione pubblica.
Le domanda e l’offerta di sardo sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni. La crescita dello status del sardo ha comportato una crescita immediata del corpus (l’insieme del materiale linguistico prodotto): negli ultimi trenta anni sono stati pubblicati circa 150 romanzi in sardo e perfino Giulio Angioni ha ammesso che esistono delle buone opere letterarie in sardo; esistono da quasi dieci anni siti Internet in cui si scrive in sardo degli argomenti più disparati; i Sardi che leggono e scrivono in sardo non sono più una pattuglia sparuta e una nuova élite intellettuale ormai usa il sardo anche in situazioni altamente formali (conferenze, libri e articoli più o meno tecnici), rompendo con gli schemi tradizionali (la diglossia) che volevano il sardo relegato alle situazioni informali e amicali/famigliari o alla poesia, riservando all’italiano le occasioni “serie” .
Ma dove deve portarci “la riscoperta” della lingua sarda?
L’obiettivo che dobbiamo proporci è in fondo di una semplicità disarmante: dobbiamo riportare il sardo alla sua primitiva condizione di lingua “normale”, una lingua in cui si può fare tutto quello che si fa in qualunque altra lingua e cultura, cioè vivere.
Per la maggior parte dei sardi, la diglossia, cioè il fatto di vivere parte della propria vita in una lingua e parte in un’altra, con differenze gerarchiche (di adeguatezza) nell’uso di una lingua o dell’altra, a seconda della situazione, è un fenomeno non più vecchio di una cinquantina di anni. Lo studio di Ines Loi Corvetto, pubblicato nel 1983 (“L’italiano regionale di Sardegna”), mostra che ancora negli anni Settanta in gran parte della Sardegna non esistevano differenze gerarchiche nell’uso dell’italiano e del sardo. L’uso di una lingua o dell’altra non implicava un giudizio sulla posizione sociale dell’interlocutore.
Interpretando senza forzature le affermazioni della studiosa, si può dire che l’uso di una lingua o dell’altra era dettato dalla disponibilità di un lessico adeguato alla situazione: la disponibilità di parole per parlare di un certo argomento dettava la scelta della lingua e quindi si parlava di lavoro e faccende quotidiane in sardo, e di argomenti “allenus” come i documenti del catasto o il Festival di Sanremo (in parte) in italiano. La situazione sociolinguistica in gran parte della Sardegna già allora confinava con la diglossia—ma esistono diverse definizioni di diglossia —ma poteva definirsi ancora come una situazione di bilinguismo “imperfetto”.
A un certo punto, il sardo—come ha scritto Nanni Falconi—è diventato “sa limba de su famine”. Parlare in sardo è diventato segno di inferiorità sociale.
Oggi, diversamente che in passato, “vivere in sardo” non è del tutto possibile, ma per un motivo semplicissimo: gli intellettuali sardi finora non hanno usato la nostra lingua per esercitare la loro attività. Nella vita attuale esistono attività e situazioni per le quali il sardo ancora non possiede parole adeguate. Ed esprimersi in modo inadeguato comporta sempre una forte stigmatizzazione sociale.
La colpa—se di colpa si tratta—è tutta degli intellettuali, perché, nei decenni tumultuosi seguiti all’ingresso della Sardegna nell’era industriale, non hanno provveduto ad aggiornare il lessico del sardo. I registri alti e quelli tecnici di una lingua vengono sviluppati dalle élite intellettuali che usano la lingua nelle loro attività, e lamentarsi, per esempio, che in sardo non si possa parlare di chimica è solo un altro modo di dire che ai chimici sardi non è mai stata data la possibilità, o il diritto, di parlare di chimica in sardo. Oppure che loro si sono vergognati di sviluppare in sardo il registro tecnico della chimica.
Perfino gli intellettuali devono mangiare e fino ad oggi a dar da mangiare agli intellettuali sardi sono stati—cerco di rimanere neutrale—gli altri...
Dopo il franchismo, i chimici catalani hanno sviluppato in poco tempo il proprio registro tecnico in catalano. Sarà che l’industria chimica era catalana e non . milanese?
E a questo punto arriva la domanda cruciale: si deve dire che non si può parlare di chimica in sardo, perché non esiste la Chimica Sarda, oppure è il caso di porsi la domanda opposta e dire che non esiste la Chimica Sarda perché non si parla di chimica in sardo?
La Catalogna parla catalano perché è ricca? O è ricca perché parla, scrive e pensa in catalano?
In altri termini: è vero che “la cultura è sovrastruttura”? Oppure il rapporto tra cultura e economia è più complesso e fondamentalmene paritario?
Non è mia intenzione ribaltare completamente il dogma marxiano: è difficile trovare delle società avanzate culturalmentee, ma materialmente povere. Contemporaneamente, però, non conoscono una singola situazione in cui la ricchezza materiale non sia accompagnata da una cultura elevata.
E abbiamo tutti sotto gli occhi gli esempi di culture millenarie—Cina e India—che si riaffacciano prepotentemente sulla scena economica dopo una—in tempi storici—breve parentesi di grande poverta materiale.
E allora: “Siamo poveri perché siamo sardi”, come dissero a Gramsci quei soldati/minatori di Iglesias che presidiavano gli impianti della FIAT . O siamo invece poveri perché non siamo sardi abbastanza?
La (non)risposta l’ha data Gramsci stesso: “un popolo che si pone il problema della lingua, in realtà pone il problema della sua identità sociale ed economica”.
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Forse si tratta di un’altra illusione, ma il messaggio che arriva dalla ricerca sociolinguistica curata dalla Prof.ssa Oppo per me è chiaro: la stragrande maggioranza dei sardi “si pone il problema della lingua”, cioè il problema della propria identità.
Allora a cosa serve il sardo ufficiale, diffuso, normale, tornato a riempire la vita dei sardi in tutti i suoi aspetti: dalla scuola all’ufficio pubblico, dal lavoro al rapporto tra un uomo e una donna?
Dico una cosa banale: il sardo serve prima a scoprire e poi a ribadire la normalità dell’essere sardi. Qualcosa, quindi, di cui forse non è molto sensato essere fieri, ma certamente niente di cui vergognarsi. L’essere sardo è la condizione normale di chi in Sardegna è nato e/o cresciuto e normale è la sua specificità e diversità rispetto ai non sardi.
Non ci sono grandi discorsi da fare, ma nessuno deve neanche permettersi di negare la nostra specificità.
Eppure questo nostro diritto viene ancora negato, almeno dalla parte “non eletta” della nostra classe dirigente: dalla scuola, dalla chiesa, dai giornalisti, dagli intellettuali da esportazione, soprattutto quei giallisti che continuano a scrivere di sardi pelosi e violenti—il banditosardo vende ancora, perché innovarsi?—e ci ricordano ad ogni loro uscita quanto sono diversi da Sciascia, che usava i gialli per costruire coscienza civile.
Sono loro i più assatanati nel condannare la possibilità di avere anche per il sardo degli operatori che lavorano a tempo pieno, dei professionisti della lingua e della cultura.
Smesso ormai il tono saccente e la superiorità ostentata, accusano rabbiosamente i “partigiani della limba” di volere quello che loro hanno già: un ruolo definito all’interno della società sarda e la possibilità di occuparsi di sardo in modo professionale.
Le lingue minoritarie devono fare meglio delle lingue dominanti, se non vogliono sparire. Loro propongono che noi si continui con il volontariato: “Per fortuna però ciò che è fattibile da noi nel nostro piccolo si fa, a partire almeno da Vincenzo Porru e da Giovanni Spano (o dall'Arquer e dal Fara già nel Cinquecento), anche senza iniezioni di orgoglio etnico sotto forma di finanziamenti pubblici.” (Giulio Angioni, in L’Unione Sarda del 16.12.04).
Nel loro furore di conservatori (dei propri privilegi) ricorrono a tutto il repertorio classico degli insulti usati da sempre contro i “sovversivi”: mancano ancora le Madonne Lacrimanti e l’accusa di mangiare i bambini. Diamogli tempo...
Figuriamoci cosa riuscirebbero a fare i “partigiani” se potessero dedicarsi a tempo pieno alla lingua sarda. Con il volontariato e con i pochi mezzi messi a disposizione da università estere sono già riusciti a colmare gran parte del vuoto culturale e scientifico in cui il sardo era immerso.
Il monopolio wagneriano sulla linguistica sarda è stato spezzato. Wagner si è dimostrato grande soltanto in confronto a chi l’ha seguito. L’intera idea del sardo come lingua arcaica—idea funzionale alla dipendenza dei Sardi: la nostra lingua è la lingua del banditosardo e della “barbarie” deleddiana—è crollata. L’unica cosa di arcaico in questa storia è risultata la linguistica praticata nelle università sarde, che non hanno mai messo in discussione le cantonate prese dal linguista tedesco. Ma in certi casi si può anche parlare di “idealizzazioni radicali”...
Oggi del sardo esistono descrizioni sincroniche adeguate ai tempi—quasi tutte finanziate da università estere—e non solo rimasticazioni di un manuale di linguistica storica che già al momento della sua pubblicazione, nel 1941, rifletteva un approccio alla lingua superato da decenni.
Occorre adesso estendere le descrizioni esistenti delle strutture della lingua sarda, per poter realizzare quel materiale didattico senza il quale non si può introdurre il sardo nelle scuole. E per realizzare un corpus (ripeto: l’insieme del materiale linguistico) adeguato al nuovo status del sardo. Sto dicendo, appunto, che occorre praticare ancora di più quella linguistica moderna che permette di tradurre in azioni concrete le conoscenze scientifiche, e quindi che occorre finanziare in modo organico la ricerca scientifica sul sardo.
Sto dicendo anche che, accanto ai professionisti della ricerca, occorrono dei professionisti dell’applicazione dei risultati di queste ricerche: traduttori, funzionari pubblici, giornalisti, scrittori, formatori. E sto dicendo che occorre un esercito di insegnanti, adeguatamente preparati, che insegnino il sardo nelle scuole.
Come si può vedere chi ci attacca ha perfettamente ragione: siamo effettivamente pericolosissimi (per loro!). Vogliamo per il sardo niente di meno di quello che si fa per l’italiano. Vogliamo che la “pari dignità tra sardo e italiano” non rimanga sulla carta.
E quando l’avremo ottenuto, sarà molto difficile per loro continuare a vivere di rendita: i privilegi dovranno guadagnarseli in un mercato della cultura finalmente liberato dal monopolio italiano.
Adesso abbiamo bisogno del sardo perché abbiamo bisogno di una classe dirigente che ci fornisca i mezzi per acquisire un’identità sociale ed economica di cui non ci si debba vergognare. Duecento anni di colonizzazione linguistica, culturale ed economica non ce l’hanno data: è ora di cambiare.
Se parliamo in sardo, siamo sardi di serie A, cittadini di uno dei centri possibili—futuri?—del Mediterraneo, ma quando parliamo italiano (di Sardegna) siamo italiani di serie C, abitanti della periferia remota di uno dei paesi più corrotti e politicamente inaffidabili del mondo, un paese in cui la criminalità organizzata gestisce almeno un terzo del territorio e dove a dettare effettivamente legge è uno sciamano più preoccupato di negare i diritti civili agli omosessuali che di punire i suoi dipendenti pedofili: lasciatevelo dire da uno che da oltre 20 anni vive molto volentieri in uno dei paesi più civili del mondo. Come forse avete capito, non ho una grande ammirazione per l’Italia.
La differenza di prezzo tra i voli per Barcellona e quelli per Roma e Milano è allora, oltre che concreta, anche la metafora di quanto ci costa il “privilegio” di essere periferia del Bel Paese: il prezzo politico pagato per i biglietti aerei “con la continuità territoriale” è più alto di quello che dovrebbe essere il prezzo di mercato. Il mercato, nel caso dei voli tra Sardegna e Italia, è drogato dall’eccesso di domanda, cioè dalla dipendenza politica, culturale ed economica dei Sardi.
E sí, ci costa meno rivolgerci altrove. Io l’ho fatto e ne sono rimasto molto soddisfatto.
Roberto Bolognesi
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