(Torino, 1 dicembre 2006) Convegno di presentazione della mostra "Atlantikà"
Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo. O meglio, è condannato a ripetere le sue perversioni. Lo hanno detto in molti e sicuramente qualcuno lo deve aver saputo anche in Sardegna: ma se ne è dimenticato! O, ancor più colpevolmente, ha fatto finta di dimenticarsene mentre sapeva benissimo che in quel momento stava scegliendo di cancellare, insieme al ricordo del passato, la possibilità di un presente e di un futuro.
Sarà bene ricordare anche questo - di rifletterci e riderci su (mai prendersi troppo sul serio, come fanno invece i difensori dello status quo politico-intellettuale!) - mentre cerchiamo di “fare memoria”, nuovamente, ancora una volta.
“Sto provando a fare memoria” si può dire e si dice in italiano. Una bella frase comune che indica esattamente il nodo del problema: il ricordo del passato come attività, come sforzo, che è portato a produrre non solo la rammemorazione in sé ma la forma dei suoi stessi contenuti. La memoria dunque come “prodotto” piuttosto che come “dato”, come frutto di una ricerca e di una narrazione creativa e dinamica, piuttosto che come residuo e deposito statico, accettato per pigrizia o per reverenza a una qualche autorità.
Carre e no petza, ovvero, traducendo liberamente dal sardo, carne viva e non corpo morto. S’ammentu comente carre.
Dunque, se siamo qui, anche grazie all’importante lavoro di Sergio Frau, è per compiere questo sforzo, per accettare questa sfida. Non si tratta infatti di girarsi indietro per rimanere inebetiti a guardare il passato, incantati dai suoi fantasmi, impietriti di fronte ai suoi enigmi mentre il tempo e il mondo continuano a mutare trascinandoci vorticosamente altrove, senza lasciarci modo di intervenire sul senso e la direzione di questo movimento.
Si tratta invece di conoscere davvero il passato, vale a dire conoscere il futuro del passato, il passato in quanto presente che andava facendosi, che è sempre stato in divenire: spazio-tempo in cui altri uomini e altre donne hanno agito e patito, spazio-tempo in cui visioni e forme del mondo si sono incrociate e scontrate, fino a produrre cambiamenti epocali. Come quegli slittamenti di confini, nomi, simboli e storie che la prima parte del libro di Sergio mostra magistralmente.
Quella in cui vediamo il Mediterraneo e le terre circostanti solcate da divinità migranti, spinte a muoversi da progetti di potere, da ingiustizie, guerre. Divinità (interi Pantheon!) in cerca di nuovi luoghi in cui risiedere e in cui riprendere ad emanare la loro aura, anche a costo di mutare profondamente identità e smarrire per lungo tempo le tracce della loro provenienza. Ieri come oggi: divinità ma soprattutto donne, uomini, storie migranti, che si traducono da uno spazio all’altro.
Solo comprendendo tutti questi movimenti, solo comprendendo il movimento del passato, possiamo riuscire a vivere meglio il nostro presente, a situarci positivamente dentro esso, attraverso i suoi sommovimenti – lievi o tellurici - non sempre avvertiti o compresi.
Abbiamo bisogno di capire la storicità del mondo, per riprendere coscienza del puro e semplice fatto che le cose succedono, che si possono far succedere; che il mondo cambia, anche grazie all’azione degli uomini: che il futuro è aperto.
Giocare col tempo – col tempo del mondo…la storia… - per prenderci confidenza: per evitare che il suo incessante mutare ci colga di sorpresa, che ci “cada addosso” come grandine in una giornata serena. Se ai nostri avi è capitato di dire con rassegnazione su tempu nos rughet aspra, a noi tocca giocare d’anticipo, con lo studio, l’ingegno e l’immaginazione. Per trasformare un apparente avversario in un potenziale alleato.
Insomma, il nostro pensiero del passato – quello che credo stiamo cercando di sviluppare attraverso questa mostra e questo dibattito - oltre che a servirci per raccontare la storia meno falsa possibile su ciò che è stato, deve farsi carico del suo essere sempre, volente e nolente, un pensiero fatto a partire dal presente verso un qualche futuro: stando così le cose esso non può che essere, dall’inizio alla fine, un pensiero del futuro.
Se un tale sforzo va fatto è anche perché una grande parte dei sardi non ha ancora un buon rapporto con la memoria: diciamo pure che come collettività non abbiamo saputo accumulare bene il tempo e non abbiamo saputo diventare forti attraverso questa accumulazione.
Ora, si dirà che anche questo è già stato detto, che anche questa constatazione è già stata constatata: ma ciò che ci si è scordati e che ci si scorda tuttora di dire è che non c’è nulla di naturale, essenziale o fatalmente irreversibile in questa amnesia collettiva. Ci si scorda di dire che non è sempre stato così – che ci son stati momenti in cui abbiamo saputo vedere e ricordare - e che la cancellazione della memoria, subita o autoimposta, è funzione della storia, dei suoi eventi, delle sue lotte.
Se è vero che “sapere è potere” è altrettanto vero che “potere è sapere”, vale a dire che ogni potere si regge sull’obbligo di sapere certe cose e di rimuoverne delle altre. E che più ci viene chiesto di cancellare o spingere verso l’insensatezza ciò che appare evidente e fondamentale – sono abbastanza 10000 nuraghi? – più il potere che ci domina dimostra e tradisce la sua ingiustizia e la sua estraneità al nostro bene, psicofisico, morale e persino economico.
E allora verrebbe da pensare immediatamente a come lo Stato italiano per anni, e sostanzialmente ancor oggi, ci priva della proprietà dei nostri beni culturali, del nostro patrimonio. Eppure non è questo “potere” che mi ferisce o preoccupa. È la cattiveria masochista e autolesionista di molti sardi di ieri e di oggi. È l’ignoranza e l’incoscienza di chi si ostina a non riconoscere la vera qualità, profonda, intima, della nostra storia ma nel mentre si riempie la bocca di una sardità buona per tutte le stagioni. È l’ipocrisia di chi a ogni piè sospinto si erge a difensore del popolo sardo mentre lucidamente, con il sorriso sul volto, lo condanna a morire attraverso l’oblio del meglio di sé e della sua miglior storia.
È questo potere della meschinità, del complesso d’inferiorità, dell’autorazzismo che ci sfida ad essere non solo sardi migliori ma uomini migliori. Ad essere diversi, rispetto al presente, davanti al mondo.
Non c’è altra responsabilità se non la nostra. È una questione tutta nostra. È una questione interna.
Come non ricordare la sorte dei Giganti di Monti Prama? 40 statue che raggiungono i due metri e sessanta di altezza ritrovate nel Sinis nel 1974, statue che risalgono ad un’epoca anteriore a quella della statuaria greca, statue che rivoluzionano la storia antica e la nostra percezione di noi stessi, tenute “recluse” negli scantinati del museo di Cagliari per 32 anni. Perché? E perché dopo che lo scorso anno il sovrintendente Francesco Nicosia le aveva ritirate fuori e definite “la scoperta relativa al Mediterraneo più importante del Novecento”, paragonabile a quella dei bronzi di Riace - di cui Nicosia diresse il restauro – si è scatenata la corsa di vari personaggi, compreso il sovrintendente Vincenzo Santoni, a parlare di un “entusiasmo non motivato”? La stessa accusa mossa contro il libro di Frau e una serie di altri studi fuori dagli schemi, colpevoli non solo di ridare alla Sardegna il suo volto di Madre Mediterranea ma anche di favorire, cito testualmente da un documento collettivo contro le ipotesi sviluppate ne Le Colonne d’Ercole, la “svalutazione del grandioso fenomeno storico della colonizzazione fenicia e punica”, con il correlato rischio di alimentare pericolosi entusiasmi fra i sardi.
Ebbene è vero: il sentimento della verità, dell’infinito tentativo di approssimarsi ad essa, di pagare finalmente il debito con il passato che ci ha segnati è entusiasmante, tanto quanto è deprimente e meschina la malafede di chi dopo aver parlato di entusiasmo non motivato è costretto a ritrattare e ad ammettere un errore che era peraltro palese fin dall’inizio.
È entusiasmante perché davanti a chi ci vorrebbe far sentire “bassi”, “nani”, noi ci slanciamo interiormente come “giganti”, perché davanti a chi vorrebbe farci credere che siamo stati barbari animali noi rispondiamo esaltando la nostra umanità e l’umanità dell’uomo, capace dovunque e in ogni tempo di produrre cultura e civiltà. È entusiasmante perché ricorda a tutti che il valore dell’uomo non si misura a prammos: non sta nell’essere alti o bassi, ma sta nell’essere all’altezza, sempre. Essere all’altezza delle situazioni della vita, soprattutto quelle più difficili, quelle che sfidano il nostro coraggio e la nostra intelligenza.
Forse è questo che fa paura a chi vorrebbe rimuovere la nostra storia: che noi riprendiamo coraggio e lo utilizziamo con intelligenza.
È per questo che è così necessario ricordare: per mettere in questione il non senso di questa rimozione, di questa spoliazione e castrazione di noi stessi.
È per questo che è così difficile ricordare: perché non è in gioco solo la conoscenza del passato ma il rapporto intimo con noi stessi, la nostra storia, i nostri processi di identificazione. È questo il punto: chiunque abbia prodotto la rimozione del passato la responsabilità odierna è nostra, che vediamo ma non riusciamo a credere, che vediamo e dobbiamo trovare il coraggio di sapere, fino in fondo. Con tutto ciò che ne consegue.
Il passato che ci sta davanti e che per così lungo tempo non siamo riusciti a far nostro è come un lutto di cui non riusciamo ad elaborare il ricordo: la sua contemporanea presenza/assenza è una ferita aperta, bruciante, sanguinante. La sofferenza che questo rapporto ci causa può bloccarci nel rimpianto e nella nostalgia, fino a farsi ossessiva paranoia, oppure può essere il prezzo da pagare per una nuova epifania. Quella che porta a una Sardegna diversa, una Sardegna che entra finalmente nel mondo.
Non ci sarebbe stato bisogno di tutto ciò, e nemmeno di questo discorso, se la Sardegna, la sua conformazione politico-identitaria, non fosse stata fino ad oggi sconvolta da numerosi tsunami: non mi riferisco qui all’onda d’acqua ipotizzata da Sergio Frau e che tanto ha scandalizzato i paladini del sapere paludato, i controllori della palude, quelli per cui è meglio che nulla si muova, quelli che sanno bene che, come diceva il poeta, l’acqua stagnante produce veleno. Su quell'onda tanto controversa spero avremo presto nuove ricerche e maggiori certezze, in modo da poter dire con più serenità se e quando qualcuna tempo fa si è abbattuta anche sulla Sardegna.
No, la nostra geologia intima è stata sconvolta da secoli di "tsunami culturali", da onde apparentemente innocue ma interiormente devastanti. Onde capaci di umiliare, di deprimere, di togliere ogni fiducia in sé, di bloccare ogni spinta all'azione e al cambiamento, di levare il terreno sotto i piedi alla possibilità di un auto-riconoscimento collettivo del popolo sardo.
È di questi tsunami dell'anima che si prendeva gioco il povero Sergio Atzeni, probabilmente il miglior scrittore che la Sardegna abbia mai avuto, travolto e inghiottito da un'onda vera mentre cercava di resistere alle onde della meschinità intellettuale. Forse qualcuno lo ricorda mentre passando leggero sulla sua terra irrideva gli storici sardi – in particolare quelli fattisi “savoiardi”, non me ne voglia chi ci ospita - che scrivevano la storia per convincere i sardi stessi che tutto erano, proprio tutto, fuorché sardi. E Atzeni non inventava o mitizzava: basta leggersi quello che secondo alcuni è ancora oggi il padre della storiografia sarda, il “barone” Giuseppe Manno, e seguirlo nelle sue contorsioni retoriche e mentali, nelle sue goffe piroette da scrivano ufficiale, quelle che lo fecero arrivare a dire che in fondo se qualcosa di buono c'era nei "rozzi" nuraghi era perché in Sardegna ce li avevano portati i fenici.
Sarà per questa servile genialità che la via più centrale di Cagliari è ancora intitolata a Manno? Quanto dovremo aspettare prima di poterla dedicare ad Atzeni?
È questa strana storica perversione che continuamente ritorna e continuamente stona: è questo spirito “reazionario” che deve inquietarci, quello che vuole fermare le vie della conoscenza e quelle della presa di coscienza.
Non a caso parlo di “reazione”, perché il Barone Manno parla dopo e contro la “sarda rivoluzione” del 1793-1796. E per capire fino in fondo la portata del suo discorso bisogna affiancargliene un altro coevo, o meglio leggermente precedente. Bisogna affiancare alle opinioni del Manno, fin da allora ampiamente pubblicate, lette e studiate, quelle mai pubblicate e rimosse collettivamente – ancora oggi – di intellettuali illuministi e di simpatie democratiche e rivoluzionarie, quali Matteo Luigi Simon, costretto all’esilio e alla morte fuori dalla sua terra.
Ecco cosa scriveva agli inizi del 1800, fra il 1802 e il 1804 più esattamente, a proposito dei nuraghi:
«Cosa sono i norachi in Sardegna e quale la loro origine e uso? I norachi così detti volgarmente in Sardegna sono certe straordinarie e stupende moli a guisa di pigna, la cui figura conica imitano, che ben possono reggere a qualunque Diluvio. Sono più di settecento quelle che sussistono per la maggior parte intatte, inimitabili, e senza pari nel mondo, di modoché possano annoverarsi tra le sue più importanti meraviglie»
Patrimonio dei sardi, patrimonio dell’umanità. Questo ci dice Simon. Perché Simon né rinnega né rinchiude. Si riappropria e si apre. Afferma senza vergogna ciò che è suo e lo offre contemporaneamente, senza paura, agli altri, al confronto con il resto delle meraviglie del mondo.
Patrimonio di noi sardi. Patrimonio di tutta l’umanità.
Questo ci dice Simon, in profondità. Questo ci potrebbe dire se dopo più di duecento anni questo testo non fosse chiuso nelle biblioteche, impossibilitato a farsi memoria collettiva.
E ancora una volta ci sarebbe da chiedersi “perché?”. E la risposta in fondo è semplice e ormai la si sarà intuita: questo passo, basato sulla formula domanda/risposta, è parte di un opuscolo rivolto ai giovani della “nazione sarda” che, dice Simon, “dai prim’anni dovrebbero istruirsi nella storia della patria”. Che ovviamente è la Sardegna, nel mondo. È infatti per la sua terra e per i suoi giovani che Simon scrive il Catechismo patriottico sardo.
Ecco perché stonano, inquietano, pesino annoiano, i tentativi di bloccare questo processo irreversibile di crescita della coscienza e della conoscenza, di riscoperta della storia e di noi stessi: un processo ineluttabile per la nazione sarda – se vuol esser parte attiva del mondo e dell’umanità - la cui responsabilità, positiva o negativa, non può certo essere addebitata né al buon Sergio Frau né a chiunque altro singolarmente preso, ovviamente.
Stona perché è una ripetizione di una ripetizione di una ripetizione.
Un canto mortifero che non riecheggia soltanto Manno e tanti altri intellettuali sardi impegnati a deprimerci e castrarci ma anche dei più sottili e perfidi aguzzini, i fin troppo venerati padri dell'autonomismo sardo: quei padri che nei primi decenni del ‘900, incapaci di essere altro, di essere veramente “padri”, di dar vita a una terra libera, chiedevano ai sardi di prendere atto della barbaricità e pochezza dei Giudicati e di festeggiare i domini successivi, dai catalani in poi, come “una necessità” e "un vero trionfo dell'intelligenza". Quei padri che non a caso dicevano che non c’era stata “storia” in Sardegna fino al ‘900, come se in Sardegna non ci fossero stati uomini e donne capaci di lottare e sognare per cinquemila anni. Come se non ci fosse mai stato il popolo sardo.
Tutto ciò stona, come stona il tentativo di ridurre la ricerca di Frau a una delle tante ricerche di un’Atlantide utopica e fantascientifica. Stona perché, è evidente (basta leggerlo!), non si disputa ne Le Colonne d’Ercole se la Sardegna sia stata Atlantide-Atlantide. Inutile dunque buttarla sulla denigrazione e lo sbeffeggiamento di chi porta avanti seriamente, e peraltro con l’appoggio crescente di studiosi di altissima fama ed indipendenza critica, le proprie ricerche.
Inutile e fuori bersaglio, perché Sergio Frau è stato anche su questo molto chiaro e proprio sulla differenza fra l’isola di Atlantide e l’isola di Atlante ha centrato, a mio modo di vedere, un altro punto importante.
La sua ricerca, lo spostamento delle Colonne d’Ercole da Gibilterra al tratto di mare fra Sicilia e Tunisia, punta infatti a restituirci la “verità” dell’isola di Atlante, quell’isola opposta alla roccia di Prometeo nel Caucaso. Quell’isola che, posto il centro a Delfi, simmetricamente chiudeva il viaggio del sole “greco”, che si innalzava nel Caucaso, ad “oriente”, per andare a tramontare nell’isola di Atlante appunto, ad “occidente”. Basterebbe questo.
Basterebbe, perché se è vero che ogni mito ha in sé un nocciolo di verità, così facendo noi avremmo trovato il nostro nocciolo, o meglio, il nostro seme di verità. Quello che attraverso l’isola di Atlante collega senza confonderle la Sardegna e Atlantide: la storia dei sardi e il mito collettivo. È un seme di verità perché non ci rende Atlantide ma ci offre la possibilità di scoprire davvero la Sardegna, e attraverso essa la storia (non il semplice mito) del mondo antico.
Basterebbe questo piccolo seme, davvero, non per ridarci Atlantide, ma per farci capire ed apprezzare finalmente che la Sardegna è stata davvero e fino in fondo "un'Atlantide", vale a dire un posto di cultura e innovazione, un punto di riferimento per altri popoli, una collettività che partecipava al mondo in modo attivo, dando e prendendo, mischiandosi, cambiando e sempre rimanendo se stessa.
Nella disputa odierna intorno alla nostra storia si discute dunque se il passato della Sardegna sia stato diverso dall'immagine triste e rozza che per secoli gli tsunami culturali auto-imposti ci hanno regalato. Si disputa in definitiva se ci sia stata e ci possa essere in futuro una Sardegna diversa da quella che c'è oggi, da quella che una parte dei sardi hanno tristemente interiorizzato.
"Atlantide" qui è come la "Rivoluzione" per Kant: il simbolo grandioso e spettacolare, diceva il filosofo, di "una partecipazione di aspirazioni, un focolaio di entusiasmo". Un sentire comune. Oggi non si disputa di Atlantide e del passato, si disputa della Sardegna e di noi stessi. Si disputa nient’altro che della libertà. Di ricerca e non solo.
Franciscu Sedda
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