Considerazioni di un mamuthone a proposito della letteratura in Sardegna
Antoni Arca
In questi giorni, incidentalmente, ma non per caso, mi è capitato di leggere due brevi e interessanti saggi sulla letteratura sarda o (e?) in Sardegna. Il primo è a firma di Costantino Cossu, Vivere e scrivere come in un giudizio (Lo straniero, n. 74/75, 2006), il secondo a firma di Giuseppe Corongiu, Per una maggiore riconoscibilità della letteratura “limbuda” (rivista digitale Diariulimba, 2006: www. sotziulimbasarda.net).
Fin dal titolo è evidente che i due autori affrontano uno stesso tema ma da ottiche non uguali. Cossu si perita di omologare la letteratura sarda all’interno di quella italiana e quindi di quella internazionale, mentre Corongiu afferma l’esigenza-necessità di dare corpo a una letteratura sarda non omologabile, unica, immediatamente riconoscibile e non confondibile con nessun’altra, indipendentemente dalle sue intrinseche qualità “letterarie”.
Leggendoli mi sono immediatamente riconosciuto nell’una e nell’altra tesi, novello Arlecchino servitore di due padroni. E andrebbe bene, se il tema della letteratura sarda fosse un canovaccio da commedia dell’arte. Ma così non è e smetto subito i panni carnevaleschi. Se proprio debbo indossarne uno, da sardo, mi toccano quelli del mamuthone, come poeticamente fa Vinicio Capossella nel suo ultimo lavoro audio e poi musicale Ovunque proteggi e Il niente sotto il sole (entrambi 2006). Oppure quelli del balente, come per decenni ha, fortunatamente (nel senso del pubblico e anche della critica), sostenuto Grazia Deledda.
Ma sono nato in una città di mare, prima genovese, poi catalana, poi savoiarda e adesso turisticamente internazionale, quindi non ho maschere sardesche proponibili e, malgrado non voglia, mi tocca di nuovo essere Arlecchino, perché servitore (dei turisti) e perché vestito (in senso urbanistico) in maniera lacunosa e rattoppata.
Non mi rimane che riflettere, sedermi sulla riva del mare, pensare e attendere. Quindi penso, e mi dico che Costantino Cossu ha fatto bene a scegliere quegli autori che ha proposto come più rappresentativi della letteratura prodotta da sardi. Salvatore Mannuzzu, ottimo romanziere, Giulio Angioni, ottimo narratore, Alberto Capitta, quasi un poeta, Giorgio Todde, giallista atipico, Marcello Fois, eccellente sceneggiatore, poi altri emergenti, Flavio Soriga, Francesco Abate, Giulia Clarkson, Salvatore Niffoi e, su tutti, l’ombra di Salvatore Satta. Oggettivamente un catalogo di tutto rispetto, e se gli autori accettassero di appuntarsi sul petto il marchio “Terra sarda”, noi tutti, in ogni consesso nazionale e internazionale, faremmo, come si dice, la nostra «porca figura». E allora, seguendolo sulla stessa strada, mi viene da rimproverare a Costantino che ha dimenticato almeno tre grandissimi autori sardi. Bianca Pitzorno, per esempio; certamente fra le più grandi scrittrici italiane di tutti i tempi. Gianfranco Liori, autore di grande talento e apprezzato da pubblico e critica e, sopra tutti, Alberto Melis, l’autore sardo più edito, più venduto e più tradotto nel mondo dopo Grazia Deledda, con la differenza che Alberto non ha ancora cinquant’anni e Grazia Deledda non c’è più da almeno 14 lustri. E dove mettiamo Igort, nome d’arte di Igor Tuveri, autore di un piccolo capolavoro narrativo, 5 è il numero perfetto (Coconino, 2002).
Perché Costantino Cossu li ha tralasciati? Non per incuria, è ovvio, ma perché nella sua idea di letteratura, non entrano né la narrativa per ragazzi né il fumetto. È una colpa? Dal mio punto di vista sicuramente, e non perché la letteratura popolare sia il mio personale campo di studio, ma perché senza una visione d’insieme, viene a mancare un’immagine più precisa dell’arte letteraria in Sardegna. Si obbietterà che la questione si risolve facilmente: basta scrivere un saggio letterario alternativo in cui gli autori non inseriti vengano posti in primo piano! Certo, così si fa, si è fatto e si continuerà a fare, finché si pensi che la sola letteratura possibile, l’unica che valga la pena studiare, sia quella scritta in italiano. Vale a dire nella lingua di chi comanda.
Un tempo gli autori sardi scrivevano molto bene in latino, più tardi scrissero splendidamente in catalano, tempo dopo furono eccellenti in spagnolo, qualcuno riuscì ad emergere perfino in francese e adesso in italiano. E il resto, come diceva don Chisciotte, «mancia»!
Un’elemosina oppure una regione immensa e arida; questa è la lingua sarda per molti intellettuali, (in)volontariamente, organici alla lingua dello Stato non ancora completamente Nazione: l’Italia.
Costantino, e me ne dispiace, non ha solo omesso fumettisti e autori per ragazzi, ha implicitamente dichiarato nulla la letteratura espressa in lingua sarda, malgrado la grandezza di alcuni suoi autori contemporanei, con Nanni Falconi e i suoi romanzi Su cuadorzu (Condaghes 2003) e Sa gianna tancada (Condaghes, 2005), a svettare sugli altri.
Peccato che Nanni non ci sia nemmeno nel saggio di Giuseppe Corongiu. Che è di tutt’altro tono, come già detto. Per Corongiu, la letteratura sarda ha due ipotesi di studio: una storica, e si registra l’esistente, l’altra propositiva, di politica letteraria, si potrebbe dire: e allora c’è una sola strada percorribile: la letteratura sarda è soltanto quella scritta in sardo. E questa ha una storia recente, se la si vuole ricostruire attraverso i testi a stampa, ma molto antica, se si riuscisse a ripensarla attraverso la letteratura orale.
Quindi Corongiu lega la letteratura sarda all’identità sarda e s’inoltra (se non fossimo amici direi: si perde) per impervi sentieri in cui si è più europeisti o più provinciali se si parla e scrive in sardo oppure no… Poveri amici miei culturalmente sardisti. Cossu ha vita facile a dire ciò che pensa, il suo ragionamento si inscrive in una linea di pensiero e ricerca consolidati: la letteratura serve a fare Patria, e la patria è una sola, l’Italia… con diverse sfumature, ma sempre una sola.
Mentre il pensiero letterario sardista è figlio di una ricerca ancora in fieri, che cozza contro la pochezza della qualità letteraria dei molti e cerca di salvarli attraverso il dovere della militanza politica. E in questo quadro, dire a tutti che Nanni Falconi è un grande della letteratura mondiale anche se pensa e scrive solo in logudorese può fare male alla causa, perché, a parte Bustianu Murgia (S’arte de sos laribiancos, Condaghes 2003), tutti gli altri hanno il fiato corto, anzi, cortissimo. E allora la lingua sarda diviene l’ombrello sotto cui si riparano i molti mediocri che, in lingua italiana, sono rimasti ai margini dell’infernale mercato letterario: vittime di premi di poesia e prosa pseudo internazionali e di editori-tipografi capaci di scucire loro tutta intera la tredicesima e una o due mensilità in cambio di una stampa senza nemmeno la distribuzione.
Che fare? Disse Lenin subito dopo la rivoluzione d’ottobre. Che fare?, dirà Arlecchino: continuare a servire i due padroni finché insieme non lo bastoneranno, o stare a guardare il mare nell’attesa che approdi a riva il cadavere della letteratura, in modo da poterlo sezionare e dire, finalmente, di che cosa era fatta dentro, oltre a fare ipotesi sulla causa della sua morte?
Perché è chiaro che il saggio di Cossu non definisce “La letteratura sarda” ma quella letteratura prodotta da autori sardi, con o senza comunanze di rilievo sul piano poetico, che è accettabile all’interno di un canone dato; nel caso specifico, quello di Goffredo Fofi. Quindi, contribuisce a ucciderla, perché una volta all’interno del canone è omologata, eguagliata, omogeneizzata, intercambiabile, invisibile; se non attraverso un ordine di gerarchie che sarà lo stesso Fofi a stabilire. E lui ha già scelto, il migliore è Capitta, premiato a parte in un altro settore della rivista Lo straniero num. 74/75, 2006, pp. 147-148..
E il progetto di Corongiu è spinto soprattutto da esigenze sociali, non da urgenze poetiche, e, in questo modo, anziché partorire una sana letteratura, si rischia di procurarne l’aborto.
L’identità dei poeti, l’identità dei narratori, è esclusivamente nella loro lingua. Nella lingua nazionale che scelgono per trasformarla in strumento di lavoro. E questa può essere la lingua materna, anche se non parlata in nessuno stato, come è il caso di Isaac B. Singer, oppure la lingua della patria di adozione, come è stato per Elias Canetti, oppure due lingue contemporaneamente, come per Samuel Beckett, il quale non scriveva perché si leggesse sulla carta ma perché si guardasse sulla scena. E tutti e tre gli esempi meritarono il Nobel per la letteratura.
Casi eccezionali? Per niente, semmai eccellenti. È semplicemente nella normalità della scrittura, l’ovvietà del fatto che lo scrittore scriva e che il suo strumento sia la lingua, e che diventi più o meno bravo, più o meno riconosciuto e riconoscibile quando, utilizzando la lingua che ha scelto, riesce a parlare ai singoli e alle masse facendosi ascoltare con più o meno piacevolezza, più o meno consapevolezza, più o meno nutrimento per l’anima.
Perché il punto è solo questo: la letteratura è insieme svago e nutrimento dell’anima. E solo quando riesce a raggiungere alte vette nei due suoi poli, diviene letteratura ed entra nella storia.
In conclusione, non più servitore, ma ancora Arlecchino, anche se amico di due padroni, chiedo se sia giusto provare a costruire una letteratura regionale sarda senza il beneplacito degli autori che vi sono implicati. Davvero possiamo credere che Mannuzzu, se invece di Sassari avesse scelto Perugia come location dei suoi romanzi, avrebbe avuto meno successo? O Angioni sarebbe rimasto nel dimenticatoio se invece della storia del cagliaritano Arquer avesse narrato quella del padano Sivio Pellico?
Almeno due degli autori indicati da Cossu, avrebbero avuto successo comunque, perché la loro lingua di lavoro, anche se di marca italiana, ha dato origine a uno stile. Per gli altri, forse, la sardità è un determinante valore aggiunto, ma solo sul piano commerciale. Perché se davvero aspirassero a primeggiare all’interno di un’ipotesi di letteratura sarda in lingua italiana di cui si occupano solo gli intellettuali sardi, ben misero primato sarebbe.
Per la letteratura sarda auspicata da Corongiu, invece, è solo questione di tempo e di saggezza politica. Perché nascano veri romanzieri in lingua sarda è indispensabile che la lingua sarda stessa prima si irrobustisca, che trasformi la propria oralità in testo scritto e che questo entri nella pratica quotidiana di tutti. Esattamente come è stato ed è per tutte le lingue statali. Per rimanere alla letteratura italiana, per esempio, i primi grandi romanzi capaci di superare la loro contemporaneità, sono tutti successivi all’introduzione della scuola dell’obbligo nel regno di Sardegna, 1859. Senza scuola dell’obbligo e senza lingua italiana obbligatoria per scolari e docenti, nemmeno ci sarebbero i romanzi che oggi fanno grande la letteratura italiana.
Senza una scuola dell’obbligo sarda interamente, o almeno paritariamente, in lingua sarda per docenti e alunni, la via della letteratura sarda scritta sarà costantemente ripida, arida, difficile, invendibile, parziale, minoritaria.
L’unica letteratura sarda possibile, però, è quella che si identifica con la lingua sarda, che la trasforma in strumento di lavoro e la rende stile, idioletto poetico. Un cammino che è stato intrapreso da molti; tantissimi in buona fede, pochi con risultati eccelsi, ma tutti utili e indispensabili perché senza quantità non può esserci nemmeno qualità.
Si tratta di fare scelte di campo e di cercare alleanze. Per esempio, perché non decidere di dare fiato a una critica limbuda. A una rassegna intelligente di tutte le opere, a qualunque titolo letterarie, scritte in lingua sarda? E non necessariamente per elogiarle, anzi, per dire ciò che, a parere del critico, sono: stupidari poetici, quando è il caso, banalità narrative, quando così si evidenzia, o buoni tentativi e, quando, raramente accade, opere di valore.
Il giornale di Costantino potrebbe ospitare le recensioni in italiano e quello di Giuseppe in lingua sarda. Oppure dobbiamo puntare a una terzo periodico tutto nuovo?
Antoni Arca
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