Franciscu Sedda (1976) è ricercatore de la “La
Sapienza” di Roma dove collabora con la cattedra di Semiotica. La
sua tesi, "Tradurre la tradizione", ha ottenuto nel 2002
il “Premio Sandra Cavicchioli”, presieduto da Umberto Eco. Oltre
a saggi dedicati alla semiotica della cultura pubblicati in libri e
riviste è autore del libro Tradurre la tradizione. Sardegna: su
ballu, i corpi, la cultura (Roma, Meltemi, 2003), e curatore del
volume Glocal. Sul presente a venire (Roma, Sossella, 2004) che
ospita saggi di autori di livello internazionale sulle dinamiche che
spingono il mondo al di là della globalizzazione. Per Condaghes ha
pubblicato “Tracce di memoria” e “La vera storia della
bandiera dei sardi”, libro del quale qui si parla. Qual è la
bandiera dei sardi? E soprattutto, “i sardi”, chi sono? Chi sono
stati? Chi vogliono essere? Non si tratta di domande ovvie, non si
tratta di risposte scontate. Questo libro cerca di fare chiarezza
sulle vicende e le vicissitudini della bandiera dei sardi ma
soprattutto offre una visione globale su mille anni di storia sarda
e mediterranea. Seguire
questa narrazione, che è ricerca rigorosa e racconto denso di
ritmo, significa lanciarsi in una galoppata intellettuale ed
emotiva. Significa avventurarsi alla scoperta delle pieghe della
coscienza collettiva dei sardi, scandagliarne lacerazioni e
conflitti, contraddizioni e paradossi, ibridazioni e singolarità,
potenzialità latenti e traduzioni possibili.
L’amus
fatu cun Franciscu matessi chi istimamus, a tempus de oe, comente
unu de sos intelletuales sardos prus de bundu.
http://www.condaghes.com/scheda.asp?id=978-88-7356-115-6
Franciscu, cumentzamus, sena denghes, dae sa
pregonta prus tosta e prus "banale". Nde balet sa pena a fàghere
una batalla pro mudare sa bandera de sos sardos
cando chi su tricolore est in totue in
Sardigna e unu sinnu nessi minore de sardidade sunt sos Bator Moros?
Caro
Direttore, intanto un saluto alle lettrici e ai lettori di
SotziuLimba e grazie per questa opportunità di dialogo con te e
loro, e grazie al lavoro che SotziuLimba fa per la cultura e la
lingua sarda.
Credo
che una parte importante dei motivi della mia risposta stia già
nella tua domanda, che fotografa bene la situazione attuale. Ovvero,
oggigiorno in Sardegna siamo abituati alla pacifica convivenza del
Tricolore italiano come segno dell’appartenenza nazionale dei
sardi e ai Quattro Mori come segno di sardità, di “generica”
sardità sarebbe meglio dire. Credo che questo dato di fatto riveli
molto di più di qualunque analisi, soprattutto perché ci dice che
cosa “significano” oggi i simboli che ci portiamo appresso, e
quali rapporti identitari, culturali e di potere abbiamo
interiorizzato.
Il
problema è proprio qui dunque, in questa convivenza totalmente
scontata e pacifica fra due simboli apparentemente distinti e
distintivi. Se per la maggior parte dei sardi questa convivenza è,
forse persino inconsciamente, normale, allora questa normalità va
presa sul serio. Dobbiamo rispettare questa normalità perché
questa normalità ci dice come veramente è, e non come ci piace
pensare che sia, la coscienza dominante della società sarda.
E allora, con l’innocenza di un bambino che
sperimenta la realtà per la prima volta, io direi che è tempo di
mettere il dito nell’occhio e dire a voce alta ciò che pensiamo
ma abbiamo vergogna a pronunciare: i Quattro mori e il Tricolore
sono le due facce, inscindibili, della stessa moneta. Ancor meglio:
i Quattro mori sono la faccia che nasconde e svela
contemporaneamente l’altra faccia, quella su cui sta impresso il
volto del sovrano, della sovranità esterna a cui, sebbene
credendosi “speciali”, ci si vota ed immola di continuo.
Orgoglio e integrazione: orgoglio regionale e integrazione
nazionale, sono le due facce di questa medaglia.
Ed è
così da quando i Quattro Mori sono arrivati in Sardegna. È
cambiato il sovrano sull’altra faccia ma immutata è la funzione
che essi hanno incorporato e rivestito: quello di salvare
l’apparenza, di darci un contentino di identità sentimentale
mentre la nostra identificazione civica e politica andava ad una
entità sovrana non sarda. I Quattro mori, da quando ci sono caduti
addosso, servono per aiutarci ad immolarci per qualcun altro.
C’è
una moneta databile al 1620 circa, di cui parlo nel libro, che
dimostra perfettamente questo meccanismo: il Regno di Sardegna da un
lato, il sovrano spagnolo che l’ha emessa dall’altro.
Siamo sicuri dunque che questa storia da “orgogliosi e
integrati”, da “resistenti ma sudditi”, sia la nostra vera e
unica storia, la sola che possiamo raccontarci? Buttandola sui
simboli, dobbiamo necessariamente farci un vanto del fatto che la
bandiera dei Quattro Mori è sventolata da tutti, quando “tutti”
significa che è sventolata contemporaneamente dai rappresentanti
sardi del PD a al congresso fondativo del loro partito italiano a
Roma, dalle lobby centriste quando cercano di far dimenticare il
loro affarismo definendosi “nazionalitari“, dai manifestanti di
estrema destra che assaltano Soru, da Soru orgoglioso presidente
della Regione Autonoma, dalla sempre fedele Brigata Sassari, dagli
autonomisti affetti dalla sindrome del “sacrificio in trincea”
pronti ad assaltare il parlamento italiano per dimostrare di essere
più italiani di tutti gli altri, dai bevitori di birra Ichnusa, dai
rivoluzionari internazionalisti, dai turisti italiani in cerca di
esotismo estivo, dai tifosi del Cagliari, per finire coi sedicenti
indipendentisti a cui prende un colpo al cuore ogni volta che
pensano che un domani la nazionale italiana di calcio non sarà più
la loro nazionale? Questo guazzabuglio non è esattamente la morte
di ogni significato politico dei Quattro Mori? Non è il segno che ci
uniscono proprio perché ci tengono tutti disuniti, perché non
indicano un passato di unità, una identificazione comune, una lotta
da fare insieme per conquistare la stessa meta? Non è forse il
segno che non incorporano il senso di nazione ma solo quello di
una comunità lacerata che brancolando nel buio della sua
smemoratezza non può affermare sovranità ma solo rivendicare
assistenza? O ancor peggio governare se stessa per conto degli
interessi di qualcun altro?
Noi non possiamo confondere il nostro affetto con
ciò che è giusto. Caro Direttore, credi che io non fossi
“affezionato” ai Quattro mori? Quando ero più giovane (più
giovane di quanto non lo sia ora, ovviamente) ero come quegli
indipendentisti sinceri che sventolano i Quattro mori per dire
“indipendenza!” mentre il significato
sfugge loro di mano. Ho profondo rispetto per loro, perché
anche io ci sono passato: con Frantziscu Sanna e Franciscu Pala, gli
amici con cui abbiamo realizzato Su Cuncordu e poi ideato iRS,
abbiamo impiastrato la piazza del Primo Maggio a Roma di bandiere
dei Quattro mori. Ma la verità è che sapevamo troppo poco della
nostra storia di nazione e ingenuamente credevamo di poter far dire
a quel simbolo quello che quel simbolo non poteva dire, e infatti
non diceva. Il punto dunque non è rinnegare il passato ma evolvere,
guardando non al bene della tradizione o al proprio orgoglio
individuale, ma al bene della Sardegna. Si tratta, se lo vogliamo,
di indirizzare in modo diverso e migliore la nostra affettività e
il nostro impegno. Dall’amore per la Sardegna (ormai sulla bocca
di troppe persone “sospette“, se mi si passa la battuta) a
quello per la nazione sarda, dalla difesa di questa autonomia
anti-sarda all’affermazione dell’indipendenza, dai Quattro Mori
all’Albero deradicato. Abbiamo bisogno di uscire dagli orgogli
infantili per diventare maturi - come individui e come popolo - e
capire che per non fare del nostro affetto un boomerang dobbiamo
aiutarlo a evolversi e trasformarsi in una più piena e chiara
coscienza indipendentista. Altrimenti resteremo affezionati a cose
che a uno sguardo onesto e autocritico non hanno niente, se non
l’abitudine e la rassegnazione, a tenerle in piedi.
Una volta che si acquisisce la nuova coscienza
indipendentista, né triste né rabbiosa, ma positiva e propositiva,
nutrita di intelligenza e nonviolenza, allora appare chiaro che
quello fra i sardi e i Quattro mori è stato un matrimonio coatto,
ed è diventato un matrimonio stanco: si può uscire più spesso a
cena, fare più viaggi, drogare in ogni modo il sentimento, ma sono
solo segni di una compensazione impossibile, perché fondata su un
vuoto, fondata su una violenza originaria che per affermarsi ha
avuto bisogno e continua ad aver bisogno di rimuovere e sacrificare
la felicità che ci sarebbe potuta e ci potrebbe ancora essere. La
verità è che è semplicemente finita. È ora di ricordarsi che ci
si è sposati per forza e che delle camicie di forza prima o poi ci
si deve liberare.
Lo
ripeto: a poco serve dire “ma ormai la gente è convinta che la
bandiera sarda è questa, ormai la gente conosce questo”. Anzi, a
metterla così la cosa si fa ancor più deprimente. Chi pronuncia
queste frasi fa finta di non capire che il problema è la differenza
fra una bandiera “sarda” e una bandiera della “nazione
sarda”, che non è assolutamente la stessa cosa; ma soprattutto
evoca un modo di ragionare fra i più pericolosi e dannosi che
l’umanità abbia conosciuto. Per spiegarmi con un esempio celebre,
quando Galileo Galilei iniziò a dire che era la terra che girava
intorno al sole tutti erano convinti del contrario: dove saremmo
oggi se valesse sempre la regola dell’“ormai siamo convinti così”,
“ormai è così”? Non si è mai sentito un pensiero più
degradante per la libertà, la dignità e l’intelligenza
dell’uomo.
Il
punto è invece che una verità difficile e sostenuta in modo
solitario è sempre meglio di un errore o di una menzogna condivisa.
Quello che conta, piuttosto, è arrivare a proporre una nuova
visione delle cose mettendosi alla prova della ricerca, del
confronto, della verificabilità delle proprie tesi. Bisogna
continuamente varcare la linea dell’ignoranza, del
conservatorismo, della paura del cambiamento rivestito da elogio del
buon senso. Ma per farlo seriamente si deve essere imbottiti, quanto
più possibile, di umiltà, competenza, onestà. Ovviamente a
nessuno è dato accedere alla perfezione morale o a un sapere
definitivo, ma a qualcosa si deve pur tendere. Dal mio punto di
vista, come intellettuale, provo a far mie costantemente le parole
di Edward Said, il grande studioso palestinese: bisogna “dire la
verità”, la verità che viene fuori dai propri studi, sempre
mettendo chi legge in condizione di valutare criticamente e al
meglio come ci si è arrivati. Dire la verità - quella che con le
mie capacità posso arrivare a elaborare - sia che questa piaccia o
non piaccia al potere, piaccia o non piaccia all’opinione della
maggioranza, piaccia o non piaccia a me stesso, alle opinioni che io
stesso coltivavo all’inizio del percorso, all’inizio della
ricerca.
Ovviamente
davanti ad una certa verità intellettuale si impone di tirarne le
conseguenze. Se vedo una persona razzista sull’autobus che offende
una persona di colore, se mi rendo conto di quello che sta
succedendo, non ho ancora fatto nulla: il punto è, resterò zitto e
in imbarazzo? Volterò gli occhi e dirò “vabbé non è così
grave”? tratterrò lo sdegno pensando che per il “quieto
vivere” è meglio starsene zitti? Oppure finalmente deciderò di
intervenire e prendere le difese del più debole, di chi in quel
momento, in mezzo al silenzio di tutti - la famosa “maggioranza
silenziosa” - viene vessato dalla stupidità di qualcuno che crede
di sapere come le cose stanno e devono restare per sempre?
Il
problema credo sia tirare le conseguenze del proprio sapere, magari
per scoprire che dopo un primo momento di sbandamento la maggior
parte delle persone in silenzio non aspettava altro: non aspettava
altro che zittire e isolare il razzista, non aspettava altro che
avere una bandiera che dicesse chiaramente “noi siamo la nazione
sarda, e vogliamo vivere liberi e in pace nel mondo”…fare la
cosa giusta, anche quando è apparentemente rischiosa, è un grande
sollievo, fa stare bene…come nazione abbiamo bisogno di fare cose
giuste, abbiamo bisogno di una grande catarsi, di una specie di
terapia collettiva, che ci riconcili con la nostra storia e con noi
stessi.
Comente naschet sa bandera de sos Bator Moros?
Come
per tutte le bandiere nate nel medioevo le leggende si sprecano. E
così pure si sprecano le ricostruzioni fantasiose, prive di fonti,
o costruite sopra fonti precarie e non correlate. Nel passato si può
trovare ogni cosa e tutto può essere messo in relazione con tutto
generando quella “deriva interpretativa”, per dirla con Umberto
Eco, per cui saltando di palo in frasca si arriva dai Quattro mori
alla madonna, agli ufo, alle lampadine e, ovviamente, anche alla
Regione Autonoma della Sardegna, che avendo come sua bandiera i
Quattro mori, essendo venerata come la madonna, meno utile delle
lampadine e più aliena alla cultura e agli interessi della nazione
sarda di qualunque visitatore extraterrestre dimostra quanto sia
forte e sensata la relazione fra gli elementi della catena citata.
Se
dobbiamo parlare sulla base dei dati che abbiamo e su ipotesi che
possono essere ragionevolmente dimostrate allora al momento non ci
resta che dire che i Quattro mori emergono – dico “emergono”
perché non significa che non esistessero già prima -, dicevo,
emergono a livello pubblico come simbolo della Corona d’Aragona
sul finire del 1200. Probabilmente significano, in quel momento, la
riunificazione di quattro regni (Catalogna, Aragona, Valenza e
Maiorca), un tempo sotto i “mori”, i mussulmani, da parte di un
re cristiano.
Diciamolo
subito. L’ipotesi dell’autoctonia sarda, che ogni tanto ritorna
in auge, è attualmente totalmente contro-evidente, per non dire
insensata. In primo luogo non ci sono prove materiali che in giudici
sardi abbiano usato i Quattro mori agli inizi del mille, anzi,
abbiamo dei sigilli, ad esempio quello del giudice Zerchis, in cui i
giudici usano ancora la simbologia bizantina con le scritte in
greco. In secondo luogo quando i Quattro mori arrivano con le navi,
gli eserciti e le carte bollate aragonesi nessuno se ne stupisce, e
non a caso per centinaia di anni ancora quel simbolo a livello
pubblico rimane a tutti gli effetti straniero. In terzo luogo, e
questa mi sembra la cartina di tornasole, la storia dei Quattro mori
che rappresentano i quattro giudicati e una vittoria sarda sul
saraceno Museto emerge guarda caso nel 1600 dopo che in Aragona si
sono inventati la storia della battaglia di Alcoraz del 1096 in cui
San Giorgio ha lasciato sul terreno quattro teste more mozzate. Gli
intellettuali sardi copiano spudoratamente quella storiella e la
adattano alla Sardegna nel tentativo di trovare o creare un pedigree
“sardo” a una bandiera che non l’aveva.
Per
contro a tutto ciò i Quattro mori, dalla fine del 1200 e fin dopo
la conquista della Sardegna, sono e restano il simbolo ufficiale
della Corona d’Aragona riportato su tutti i sigilli di corte.
Tanto che a Cagliari si conservano esemplari appesi alle pergamene
dei catalani appena sbarcati alla conquista della nostra terra.
Quello che succede è che quel simbolo, per motivi complicati che
cerco di indagare nel libro, non diventa bandiera nazionale
sostituito invece dai Pali catalani a strisce gialle e rosse. Ciò
però non gli ha impedito, con tutta probabilità, di arrivare e
sventolare in Sardegna come simbolo di guerra e di venire associato,
per una sorta di “slittamento”, proprio durante la lotta contro
Mariano, Ugone ed Eleonora al nascituro “Regno di Sardegna”.
Attenzione, non facciamoci (come spesso ci capita) confondere e
intenerire dai nomi: il “Regno di Sardegna”
è sardo solo nel nome, di fatto è l’istituzione
rappresentativa dei feudatari catalano-aragonesi in Sardegna.
C’è
un importante stemmario, datato alle seconda metà del 1300, in cui
compaiono per la prima volta i Quattro mori: sono nella pagina della
Corona d’Aragona e rappresentano il “Regno di Sardegna”, uno
dei regni che gli aragonesi ritenevano loro per infeudazione papale.
Peccato che in quel momento i catalano-aragonesi fossero rinchiusi
dentro il castello di Cagliari e ad Alghero, circondati dalle truppe
di Mariano IV che avevano liberato tutta la Sardegna. E che avevano,
evidentemente, un’altra bandiera, e ben poca simpatia per le
bandiere degli invasori.
Ma tando sos Bator Moros sunt una bandera istràngia
sìmbulu de sa pèrdida de libertade de sos sardos?
Per
quello che ne sappiamo, e che ne possiamo dedurre, sì. Anche se
probabilmente la bandiera più vista e più identificativa
dell’invasore fossero i Pali gialli e rossi. Tuttavia non è
improbabile ad esempio che i Quattro mori abbiano sventolato sui
campi di battaglia della Sardegna fra il 1300 e ilo 1400 in mezzo
alle truppe catalano-aragonesi. Del resto in guerra si esponevano più
bandiere e le fonti dell’epoca ci confermano che oltre al vessillo
della “nazione sarda” sventolavano molti altri vessilli di
“nazioni straniere”. Da quella statale, per così dire, a quella
dei vari signori e delle varie casate. Il punto che a posteriori mi
sembra più interessante sottolineare è che quando nel 1388 si
firma la pace i contraenti sono gli Arborea in rappresentanza della
nazione sarda, come dirà Brancaleone marito di Eleonora, e
dall’altro non la nazione catalana, ma il Regno di Sardegna. È
come se ci immaginassimo uno di quei tavoli dove i capi di Stato
firmano i trattati: alle loro spalle stanno in bella evidenza le
bandiere, e del resto uno Stato che firma una pace difficilmente può
evitare di averne una. Ora, in quel momento, alle spalle dei
rappresentanti della nazione sarda c’è di sicuro l’Albero verde
in campo bianco, ma quale bandiera sta alle spalle dei
rappresentanti del Regno di Sardegna, ovvero i feudatari catalani,
aragonesi, valenzani e quei (pochi) sardi che preferirono allearsi
con gli invasori? Lo stemmario di Gelre, che è databile proprio a
quegli anni una risposta chiara ce la dà: i Quattro mori. E le
coincidenze “documentali” di questo tipo sono da prendere in
grande considerazione.
Questa
ipotesi verosimile, operata ricordiamolo sulla base dell’incrocio
dei dati a disposizione, ci aiuterebbe anche a capire perché i
Quattro mori continuino a essere usati per rappresentare il Regno di
Sardegna ma ci mettano quasi due secoli per essere fatti propri da
dei “sardi”. Perché erano chiaramente percepiti come un simbolo
straniero. Del resto c’è un particolare non piccolo da
sottolineare: questi sardi che faranno propria la bandiera dei
Quattro mori nel 1590 sono i figli dei feudatari catalano-aragonesi,
divenuti l’elite politico-militare della Sardegna, che governano
sempre in nome della sovranità esterna. E questo è il punto
interessante, perché dal momento in cui vengono ritirati fuori sul
finire del 1500 fino a oggi, passando per i Savoia e il sardismo, i
Quattro mori hanno sempre rappresentato qualcuno che comandava in
Sardegna in nome e per conto di una sovranità superiore e
esteriore. Hanno rappresentato i sardi che in quanto “speciali”
si sacrificano di più e meglio per il Re o la nazione lontana.
L’Autonomia, nata dall’idea del “sangue versato in guerra per
l’Italia” e del necessario fallimento della Sardegna in quanto
nazione indipendente, è l’ultimo esito, l’ultimo aggiornamento,
di questa dinamica.
Questa
è la costante dei Quattro mori, è la memoria di cui il
simbolo è saturo, la relazione di sudditanza che esso incorpora e
costantemente riproduce. Perché i simboli collettivi, come la
lingua, hanno una loro memoria e finiscono per prendersi gioco di
noi mentre noi crediamo di manipolarli. Io posso anche dire
“gatto” intendendo “leone” per tutta la vita. Ma per la
gente “gatto” continuerà a voler dire “gatto” e non
“leone”. E quando dirò che “sono forte come un gatto, e come
un gatto sono il Re della foresta” la gente o si metterà a ridere
o penserà che probabilmente non sono né forte né Re della
foresta. Si potrebbe dire lo stesso coi simboli. Per questo si
illude chi pensa che i propri desideri individuali possano far dire
a simboli che in una certa cultura hanno pubblicamente un
determinato significato da centinaia di anni quello che quella
persona, nella sua testa, pensa. Se si vogliono dire cose nuove è
meglio inventarsi simboli nuovi, oppure riprendere e tradurre
simboli vecchi che nella loro esistenza passata hanno detto quello
che oggi si ha in testa. O qualcosa di molto simile.
E s'arbore
irraighinadu ite rapresentaiat?
L’Albero
deradicato innanzitutto rappresenta un processo durato diversi
secoli, un processo di presa di coscienza nazionale e sociale
destinato a cambiare irreversibilmente la Sardegna e i sardi.
“Noi vi libereremo dall’asservimento ai
catalani”, così tuonava Mariano IV, aggiornando lo spirito di
alcuni dei suoi predecessori alla guida del giudicato, come Barisone,
che proclamava già nel 1164, “La forza dei sardi è nella
sovranità del popolo”. Seguire le sorti dell’Albero deradicato
significa vederlo emergere dalle brume della storia fino a farsi
simbolo di sovranità e di difesa di un modello di società
certamente non perfetto ma comunque infinitamente più nostro e più
giusto del feudalesimo che arrivava con le navi e con l’esercito
catalano-aragonese.
La
cosa importante è che questa consapevolezza, questa incorporazione
di significati, si crea negli eventi, nella lotta. Avviene un doppio
processo. La classe dirigente, gli Arborea, con il susseguirsi degli
eventi si identifica totalmente con lo Stato. Lo testimonia la
rimozione dei Pali catalani da ogni simbolo della casata dei
Bas-Serra, o come viene esaltata la figura dell’albero nel
bellissimo “pantheon” della nazione sarda contenuto nella chiesa
di San Gavino Monreale. Al contempo lo Stato cambia pelle:
dall’Arborea diviene la Sardegna intera. La Carta de Logu,
ci dice il sottotitolo, è il libro delle leggi e delle costituzioni
“sarde” e non “arborensi” e viene promulgata, ci dice il
proemio, “assu beni de sa repubrica sardisca”. Ovvero per il
bene di quella “naciò sardesca” che troviamo continuamente
nominata nei testi in catalano e di cui - questa è una delle
ipotesi “forti” che avanzo nel libro - il termine “republica
sardisca” non può non essere altro che la splendida traduzione in
sardo.
Per
capire il processo che quel simbolo rappresenta e gli esiti a cui
arriva si può provare a pensare a “sa Batalla” di Sanluri. Nel
1409 i catalano-aragonesi si trovano davanti ventimila sardi. Il che
significa, in una Sardegna stremata dalla guerra e dalla peste,
praticamente la totalità dei maschi sardi. Ventimila sardi che non
sono soldati di professione, ma sono pastori e contadini, andati
volontariamente a difendere la Sardegna, consci di dover difendere
la loro libertà.
Quando
si leggono le lettere del re aragonese Martino “il Vecchio” dopo
la vittoria, quando lo si legge felice, parole sue, “per lo
sterminio e l’esecuzione della nazione sarda” la prima reazione
è un impeto di rabbia per quel sacrificio, per tutte quelle vite
brutalmente spezzate, per l’ennesimo popolo del pianeta che
ingiustamente perde la sua libertà a causa della prepotenza e
dell’avidità di un altro popolo. Poi però si pensa a cosa
significhi in positivo questo evento, a quale testimonianza di unità,
di consapevolezza, di coraggio, di sacrificio quell’evento ci
rimanda. Quel testo, se lo sappiamo e vogliamo leggere, ci ricorda
che dietro a quella sconfitta ci sono state vittorie esaltanti, c’è
stata la forza di arrivare a liberare quasi tutta la Sardegna, c’è
stata l’abilità di esprimere leggi scritte proprie, c’è stato
il sentimento di riconoscersi come nazione. C’è stata la volontà
di dare volto e corpo a sa Repubrica sardisca.
Dopo di ciò, non ancora soddisfatti, si apre la
lettera successiva di Martino “il Vecchio”, quella scritta
qualche giorno dopo, e vi si legge che egli si compiace che i suoi
uomini nella battaglia siano riusciti a impossessarsi della
“bandera dels sards”, della bandiera dei sardi. A quel punto
quell’Albero verde in campo bianco riprende a sventolare vigoroso,
sotto i colpi del maestrale: è chiaro, non è più l’Albero
“degli Arborea”, come ci siamo abituati a dire, è l’Albero
dei sardi – come ha scritto giustamente Micheli Ludu nel suo
romanzo - la sintesi visiva di quel popolo, del suo coraggio, della
sua sete di libertà. Provo a mettermi al posto dei sardi accorsi a
Sanluri per sa Batalla e guardare quella bandiera coi loro
occhi: la vedono sventolare, è sa Repubrica sardisca, sono
loro stessi.
E oe in die ite diat pòdere rapresentare?
Intanto
un modo per prendere coscienza della nostra storia in generale e
della nostra storia di nazione in particolare.
In
secondo luogo una maniera per suturare una ferita ancora aperta e
che ancora ci fa male, quella della perdita violenta della libertà
della nostra terra e sulla nostra terra, come dice Atzeni alla fine
di Passavamo sulla terra leggeri. Ancora oggi subiamo quel
trauma, lo viviamo come una assurda insensatezza. Abbiamo il sentore
e ci rendiamo conto che c’è stato qualcosa di politicamente
importante fatto dal popolo sardo in passato ma ogni volta - ed è
lo stesso per il periodo nuragico - sembra che questo ci sfugga, che
qualcosa o qualcuno ci abbia espropriato della possibilità di
ricordarlo. E ci rendiamo conto che questa impossibilità di
ricordare chiaramente ci ostacola doppiamente: in primo luogo perché
non possiamo farci forti di quel ricordo, della sua condivisione e
della sua esemplarità, in secondo luogo perché l’impossibilità
di ricordare, di suturare la ferita, ci costringe a restare girati
verso il passato, rimuginarlo continuamente, ossessivamente, in modo
frustrante e deprimente proprio perché senza un risultato coerente
e positivo. Suturare le ferite significa liberarsi dal dolore
trattenendone la traccia, andare avanti sapendo di portare con sé
quella esperienza. Una cicatrice segna la nostra pelle, facciamo
tesoro del trauma, a volte uno specchio o qualcuno che ci guarda ci
chiede di ricordare, ma intanto noi andiamo avanti, possiamo andare
avanti sereni.
In terzo luogo può essere un segno per liberarci
dall’idea di “essere sempre stati dominati”, un segno che ci
chiede di mettere fine al vittimismo e al pessimismo, di smetterla
con la ripetizione costante e ormai nauseante del “pocos, locos e
male unidos”.
Infine potrebbe essere un segno di unità
nazionale, un segno dei sardi che vogliono affermare la loro volontà
di esistere come nazione indipendente, il segno di una Sardegna che
ha il coraggio di fare i conti con il proprio passato e tradurlo
creativamente al futuro. Potrebbe essere il segno che ogni giorno ci
sfida a reinventarci senza dimenticare la nostra storia, il segno
che ci costringe dolcemente ad essere all’altezza del mondo, a
elaborare una forma di indipendenza nonviolenta e non-nazionalista
che non sia solo dei sardi ma che esprima qualcosa di universale, di
profondamente umano.
E qui
come si intuisce già si entra nel lavoro collettivo e imprevedibile
della narrazione politica, popolare, artistica, che lasciandosi
ispirare dal nostro simbolo lo tradurrà in infiniti modi.
Non so quante ne diremo ma so che mi piace giocare
e lasciarmi giocare…
Le nostre radici future poggiano sulla terra ma si
nutrono dell’aria. L’umiltà e la creatività dei sardi di
domani: i piedi poggiati per terra, e la testa protesa in ogni dove.
Non ci scordiamo che i nostri corpi sono sempre da qualche parte ma
non mettiamo confini alla nostra immaginazione. Questo potrebbe dire
la bandiera della nazione sarda.
Ma potrebbe dire anche altro. Ad esempio che le
nostre radici future si nutrono del sapere che la nostra terra, i
nostri padri e le nostre madri, hanno accumulato e
contemporaneamente dell’intelligenza che il mondo e gli uomini in
ogni angolo della terra ogni giorno producono. Poggiamo sul nostro
passato, ma ci protendiamo verso il futuro.
La nostra bandiera futura potrebbe voler dire che
noi sardi di domani saremo mobili come le nostre radici deradicate,
come Eleonora, che scriveva nel 1392 che bisognava aggiornare la Carta
de Logu perché troppo erano cambiati i tempi e le persone da
quando suo padre l’aveva promulgata. Erano passati solo sedici
anni.
La nostra bandiera futura potrebbe voler dire che
all’ombra delle nostre foglie ogni essere umano può trovare
ristoro e ospitalità.
La nostra bandiera può dire tante cose. È un
distillato di filosofia e di sensibilità.
Su libru tuo est, forsis cherrende e forsis no,
unu libru subra sas elites de poderiu sardas e s'istòria
issoro. Comente nde essint?
Come tutte le classi dirigenti, con momenti alti e
momenti bassissimi. Potremmo dire scherzosamente che le nostre
classi sono sempre state “dirigenti” ma che ci hanno diretto in
direzioni opposte, o contrastanti: alcune ci dirigevano verso il
mondo passando per la Sardegna, altre ci dirigevano dappertutto
(generalmente verso il dominatore di turno) purché fosse lontano
dalla Sardegna, altre non ci dirigevano da nessuna parte e pensavano
solo ai loro interessi. Per esemplificare la seconda opzione
potremmo usare questa frase di Bellieni, teorico del sardismo, che a
fascismo ormai galoppante dichiarò:
“Quando si potrà fare con maggiore serenità la
storia politica di questi anni si vedrà che il movimento
autonomista e liberista sardo, che fu accusato di separatismo, d’antitalianità
ecc. fu tutto pervaso dal bisogno di confondersi con correnti
politiche affini del continente, di uscire dalla prigione
dell’isola, di negare il suo carattere locale. Volle,
appassionatamente, attraverso la regione, attingere
l’Italia” (Bellieni, 25 luglio 1924, i corsivi sono i miei).
Detto questo, vale la pena ribadire che dal mio
punto di vista, non è esistita e probabilmente non esisterà mai
una classe dirigente perfetta. Credo tuttavia che per avere una
classe dirigente dignitosa bisogna coltivare un buon popolo. Una
buona classe dirigente nasce da un popolo consapevole, maturo, che
vuole sapere sempre di più e non ha paura a fare il giusto. “No
timo ca so morinde, timo ca no so ischida”, pare abbia detto
splendidamente una anonima donna sarda. C’è bisogno di un popolo
che sappia continuamente mettersi in discussione e migliorarsi,
anche grazie agli altri.
Magari un giorno, almeno per qualche anno, ci sarà
da qualche parte al mondo un popolo così, un popolo che produrrà
una società in cui non ci sarà bisogno delle classi dirigenti come
oggi le pensiamo. Chissà, forse un giorno qualcuno riuscirà a
distribuire il potere nelle maglie della società, e darà
l’esempio di una comunità in cui ciascuno sa essere responsabile
di se stesso e di tutti.
Intanto mi accontenterei di un popolo
discretamente cosciente, un popolo che davanti a chi di volta in
volta detiene il potere sappia far valere i suo diritti, che ricordi
a chi si trova in questa posizione di dirigenza e rappresentanza che
è lì per fare il bene collettivo, per comporre al meglio i
differenti interessi, per dare uguali opportunità di crescita a
tutti, per ottenere giustizia per gli svantaggiati, i più deboli, i
poveri, coloro che a causa del caso o delle storture della società
si trovano in posizione di subalternità.
In realtà, ci tengo a dirlo, se nel libro sembra
che parlo delle classi
dirigenti è perché di quelle ci rimangono più tracce facilmente
accessibili. In realtà parlando di loro sto sempre sondando il modo
in cui la collettività, attraverso loro, si costituisce e si
autorappresenta; sto sempre parlando del popolo che in esse in
qualche modo si riflette per esistere. È di quel popolo che mi
interessa, quel popolo che le legittima, le sopporta, le mitizza, ne
viene tradito, a volte, purtroppo poco spesso, trova in esse i suoi
rappresentanti migliori.
E oe
sa classe dirigente sarda est lìbera o nono?
Per
quanto il concetto di libertà sia malleabile credo che l’attuale
classe dirigente sarda difficilmente si possa definire “libera”.
Per non essere cattivi si potrebbe dire che sceglie liberamente a
quale progetto di società e redenzione dell’Italia aderire fra
quelli proposti dai vari partiti italiani. E se in questi piani la
Sardegna non rientra, o addirittura viene sacrificata, la classe
dirigente sarda liberamente si adegua, magari mugugnando un po’,
magari tirando fuori il petto orgoglioso per un giorno, magari
rivendicando qualcosa in cambio. Ma questo discorso potrebbe
sembrare troppo “politico”.
Forse
l’esempio migliore, più chiaro e neutrale, è stata la risposta
della classe dirigente sarda davanti alla bocciatura della Consulta
per la riscrittura dello Statuto da parte della Corte costituzionale
italiana. La Corte costituzionale ha detto che non è ammissibile
parlare di “sovranità del popolo sardo”. La classe dirigente
sarda è rimasta zitta ed è andata avanti.
Ho
l’impressione che la “sovranità” sia un pour parler e
che farsene carico davvero faccia paura a tutti. Non a caso, a
turno, c’è sempre qualcuno che blocca l’apertura di una fase
costituente. Come a dire, si può lanciare l’idea, intanto si sta
sicuri che l’unità per passare all’azione non si trova mai. E
la cosa è ben comprensibile: di una fase costituente, anche se
blandamente costituente, si sa da dove comincia e non si sa dove (e
come) va a finire. E questo agli autonomisti sardi suscita un sano,
vigoroso, giustificato terrore.
Integratzione
e soberania podent andare a sa braztete o sunt duos tèrmines chi si
nche bogant s'unu cun s'àteru?
Si può
trovare giustificazione a tutto, anzi, direi che il
“giustificazionismo estremo”, l’arrampicata libera sugli
specchi, è uno degli sport nazionali preferiti dai sardi. Forse
sarebbe meglio dire che è uno degli sport nazional-fallimentari
preferiti dei sardi, visto che buona parte delle nostre energie
intellettuali e morali sono costantemente utilizzate per ricordarci
che siamo “falliti”, che non siamo mai stati liberi, che non
abbiamo mai prodotto nulla di culturalmente elevato, che da soli non
ce la possiamo fare e così via.
Siamo
pieni di tentativi di conciliare l’inconciliabile, come l’idea
che a parlare il sardo si tolga qualcosa a se stessi: da che mondo
è mondo sapere due lingue è meglio che una, invece in Sardegna ci
siamo inventati che due fa meno di uno! Qualcun altro si è
inventato la storia che col “Regno di Sardegna”, di cui
parlavamo prima, abbiamo fondato l’Italia anche se dire una cosa
del genere significa affermare che allora l’Italia l’hanno
fondata i catalano-aragonesi massacrando migliaia di sardi che
lottavano per la libertà della Sardegna. E dovremmo dirlo essendone
felici! Oppure c’è la storiella dei Giganti di Monti Prama che più
o meno, vista nella sua evoluzione storica, fa così: “Ma
figurati: non li hanno fatti i sardi!”, “Sì sono di epoca
nuragica ma li ha fatti qualcuno venuto da fuori”, “Sì, è
vero, li abbiamo fatti noi ma non sono granché”, “Vabbé, è
vero, non sono male, ma all’epoca in giro per il mondo si faceva
di meglio”, “Va bene, forse erano il meglio dell’epoca, ma
vuoi mettere con quello che si è fatto dopo, le statue greche, la
Divina commedia, Picasso, i Beatles…”, “Oh, forse hanno valore
universale, ma guarda caso è stato proprio lì che la civiltà
nuragica è crollata: non siamo fatti per fare cose importanti”,
“E vabbé, comunque sia, guai a voi se vi esaltate!”.
Al di
là della verità storica di ciò di cui quotidianamente dibattiamo
rimane la verità sociale, ovvero il fatto che siamo stupefacenti
nell’auto-castrarci e nell’aggiornare continuamente le
auto-castrazioni. Parlando con i sardi, e leggendo libri, se ne
sentono continuamente di nuove. Generalmente io rido e piango al
contempo.
Figuriamoci
dunque se integrazione e sovranità non possono andare a braccetto.
Sono anni che lo si teorizza. Come Mario Melis che diceva che
dovevamo essere indipendenti per federarci da pari con l’Italia o
come quelli che dicono che ci vuole l’autodeterminazione ma che
oggigiorno autodeterminazione non significa indipendenza ma
partecipare più profondamente allo Stato italiano.
Insomma,
se non specifichiamo “quale sovranità” e “integrazione in che
cosa” possiamo continuare il gioco all’infinito. Dal mio punto
di vista, sovranità come indipendenza nazionale e integrazione
dentro lo spazio politico mediterraneo, europeo e mondiale vanno di
pari passo. Sovranità come indipendenza, e dunque capacità di
proporre la propria creatività, le proprie soluzioni ai problemi, e
integrazione nei flussi economici, culturali e comunicativi della
globalità vanno anch’esse di pari passo. Anzi si richiedono e
rafforzano reciprocamente. Questi sono i modi in cui, per me,
integrazione e sovranità possono andare a braccetto.
A
parre tuo, si podet galu faeddare in Itàlia e in Sardigna de
federalismu?
Credo
che parlando della Sardegna futura, della Repubblica sarda
indipendente, la questione del federalismo si ponga nei termini del
modello costituzionale interno che vorremo scegliere per il nostro
Stato e, per un altro verso, nei termini della partecipazione a
comunità sovranazionali, come ad esempio l’Europa. E ciò
peraltro sarebbe solo un pezzo di un ragionamento ben più ampio che
riguarderà quella gestione dell’interdipendenza a cui si
accede una volta che si diviene indipendenti. Decidere quali
interdipendenze stabilire una volta che si è indipendenti va ben
oltre infatti il problema di federarsi con qualcuno, perché in un mondo
glocale come il nostro le interdipendenze sono di tanti tipi e
di tanti livelli. Al di là delle facili utopie la verità è che in
una rete i nodi non sono tutti uguali, non hanno tutti la stessa
forma e lo stesso valore.
Ciò
che invece è inconsistente e brutalmente utopico quando si parla di
Sardegna e federalismo è perdere tempo a parlarne nei termini di
“federalismo italiano”. Si può anche augurare o non augurare
all’Italia di divenire uno Stato federale ma se si ragiona nei
termini di emersione e realizzazione di una nazione sarda pienamente
compiuta il federalismo italiano non sposta la questione di una
virgola, anzi, rischia solo di continuare a gettare fumo negli occhi
dei sardi.
Federalismo
italiano e esistenza della nazione sarda cozzano infatti uno contro
l’altro, si mettono di traverso e si escludono vicendevolmente. E
questo, principalmente, per due ordini di motivi: uno che definirei
di tipo “costituzionale” e un altro di tipo “costitutivo”.
Quello
costitutivo era già noto al sardo Federico Fenu quando vedeva
davanti a sé profilarsi la “perfetta fusione”. Il povero Fenu
scriveva in tempi difficili. Pensando alla Sardegna del 1848 si
potrebbe dire che i suoi piedi poggiavano sul sangue e sulle macerie
della Rivoluzione sarda di fine Settecento, della sua repressione
prima e del suo oblio dopo. E nonostante ciò le sue parole erano
lucide: «Il popolo sardo ha costumi, indole, lingua,
storia, posizione geografica, tutte proprie, tutte d’un popolo in
disparte. Perché si pretende così giustamente che l’Italia formi
una nazione separata e distintissima dalla Francia, dall’Austria,
ecc.? Perché ha costumi, genio, idioma, storia e terreni propri, i
quattro primi bastantemente distinti da quelli degli altri popoli.
Ebbene in piccolo, quasi in miniatura la Sardegna ha tutti questi
distintivi, anzi la sua naturale separazione e quasi direi la sua
personalità è più risentita (…). Così quando si è voluto
incorporare l’Irlanda all’Inghilterra si è fatto un pasticcio,
il quale ha prodotto, e produrrà se non si rimedia, immensi danni.
Occorrono tra i popoli tali differenze di stirpe, di costumi, di
genio, d’indole, che volerli fondere è il medesimo che
distruggerli ambedue se uguali, opprimere la parte più debole se
disuguali».
In
parole sue Fenu ha anticipato quanto alcuni dei maggiori studiosi
delle relazioni politiche ribadiscono oggigiorno. Vale a dire che il
confederalismo fra nazioni è possibile solo quando c’è un
rapporto di forze paritario: altrimenti la nazione più grande
schiaccia e si mangia la più piccola. O ancora che la maggioranza,
la nazione maggioritaria, davanti alla possibilità di far
coincidere il corpo dello Stato con il corpo della Nazione sempre
coltiverà (con mezzi più o meno violenti o suadenti) il progetto
di regionalizzare, ovvero “denazionalizzare”, le nazioni più
piccole che covano al suo interno. E questa è la condizione in cui
ci troviamo oggi anche grazie al portentoso strumento
dell’Autonomia: lo Stato italiano è “una nazione” e i sardi
sono una regione d’Italia.
Questa
impossibilità “costitutiva” – numericamente costitutiva -
diviene di conseguenza impossibilità “costituzionale”. C’è
veramente qualcuno disposto a credere, a lume di buon senso, che
l’Italia in quanto nazione e lo Stato italiano in quanto
istituzione, siano pronti a negare le loro stesse fondamenta per far
spazio, al loro interno, all’esistenza della nazione sarda? La
verità è che il federalismo sardo-italiano è una utopia: una
utopia infantile se proposta in buona fede, una utopia degenerata e
pericolosa se proposta scientemente. La verità infatti è che la
nazione italiana esiste e continuerà a mangiarsi la nazione sarda
se questa non deciderà a sua volta di esistere. Il punto per i
sardi dunque non è cambiare, o “distruggere” come qualcuno
assurdamente dice, lo Stato italiano ma riconoscere che la nazione
italiana ha la sua storia e la sua legittimità, solo che la nazione
sarda ha altrettanta legittimità – e ancor di più ha la necessità
– a non farne parte. Noi dobbiamo essere indipendenti per poter
esistere come nazione. La maggioranza mangerà la nostra diversità
finché glielo lasceremo fare, finché ci converrà giocare il ruolo
della minoranza, o addirittura dei “minorati”, del piccolo
popolo che piagnucola che qualcuno lo aiuti e salvi, del piccolo
popolo in cui la gente preferisce essere comodamente suddita
piuttosto che correre il rischio della libertà. La verità, la
realistica verità, è dunque un’altra: se noi lo vogliamo noi
siamo già maggioranza a casa nostra.
Qui
l’indipendentismo moderno può mostrare il suo realismo, umile ma
deciso e decisivo, mettendo a nudo l’utopia costituzionale del
pensiero federalista. Bisogna dirlo e ribadirlo: è più facile che
un milione e mezzo di persone si autoconvincano a essere
indipendenti - e alla fine, lavorando duramente e ottenendo il
consenso della comunità internazionale, realizzino la loro volontà
- piuttosto che avvenga che lo stesso milione e mezzo di persone
convincano sessanta milioni di italiani a cambiare la loro
costituzione e a trasformare il primo articolo in qualcosa del tipo:
“La Repubblica italiana è uno stato bi-nazionale formato dalla
nazione italiana e dalla nazione sarda” che è una patetica
illusione e fa venir da ridere solo a pensarci.
Ricordiamocelo dunque, quando si parla di
federalismo in Sardegna si sta implicitamente parlando di un assetto
costituzionale che non riconoscerà mai davvero e fino in fondo la
nazione sarda e la sovranità dei sardi. E questo per un rapporto
disparitario e disuguale costitutivo, di fondo, di cui c’è ben
poco da dar la colpa agli italiani. Il problema è solo nostro,
della nostra volontà, della nostra scelta di identificazione.
Del
resto è la stessa dinamica storica a dimostrare che o si rompe
questo utopismo degenerato o ci si affoga dentro. Le nazioni che in
alcuni momenti decisivi non sono riuscite a divenire indipendenti e
si sono lasciate integrare finiscono infatti per entrare in un
circolo vizioso, quello per cui alla richiesta di autogoverno allo
Stato fanno corrispondere un aumento di fedeltà e lealtà alla
Nazione. Noi sardi lo sappiamo molto bene: non abbiamo fondato
l’Autonomia dallo Stato su un preventivo sacrificio collettivo per
l’Italia? E non continuiamo costantemente a riprodurre questa
mortificazione della nostra diversità per dimostrarci leali,
fedeli, e dunque meritevoli di gestirci da soli? Meritevoli di
vedere la nostra catena – come direbbe Gavino Sale – leggermente
allungata o placata in oro?
La
delegittimazione operata per anni dai leader politici sardi
dell’idea di nazione sarda ha rinforzato questo assunto storico e
fa sì che il federalismo, comunque venga spacciato, sia sempre
legato a un rilancio della fedeltà alla nazione italiana. Come a
dire che ci si vuole autogovernare per meglio fare gli “interessi
nazionali” (italiani, ovviamente): vogliamo essere un piccolo
Stato sardo che governa in nome della comune e grande nazione
Italia. E non è un modello così sconosciuto o esotico: sarebbe un
po’ come succede negli Stati Uniti d’America, in cui le
differenze anche profonde fra i modi di governo dei diversi Stati
(si pensi alla diversa applicazione della pena di morte,
dell’aborto, dei matrimoni omosessuali, per fare solo pochi esempi
in materia etica) non contraddice il comune e profondo patriottismo
Statunitense, la comune volontà di sacrificarsi e andare a morire
per la Nazione.
Questa
dinamica è attiva anche nel nostro presente, anche laddove sembrano
esserci segnali diversi, e ciò proprio perché non è questione di
volontà individuale ma il frutto di quegli aspetti costitutivi e
costituzionali che non si possono modificare ma solo abbandonare. Si
prendano come unico esempio le ripetute parole (e azioni) di Renato
Soru, che non manca mai di rimarcare che “la Regione è lo Stato
in Sardegna” il che purtroppo appare più come l’affermazione di
un prefetto italiano che non di un leader sardo. Io sono uno di
coloro che pensa che si debba ammettere che Soru è la punta più
avanzata, e forse anche più sincera, di un nuovo periodo di
sovranità federalista; ma tuttavia si deve anche ammettere che
questo nel suo fare politica si completa con grande naturalezza con
la sua volontà di partecipare alla trasformazione del “Paese”,
ovvero l’Italia. Dalla creazione di “Progetto Sardegna” a
fondatore del “Partito Democratico Italiano”, potrebbe essere
questa la parabola sintetica per spiegare le contraddizioni del
federalismo sardo, anche nei suoi esponenti migliori, dal punto di
vista di un indipendentista. Soru, in altri termini, rischia
concretamente di essere un nuovo Lussu, uno che traghetta le attese
di liberazione - o semplicemente le ansie identitarie - di molti
sardi dentro i giochi politici della democrazia italiana. A me
piacerebbe che Soru, come tanti altri sardi, facesse passi chiari e
decisi: che non usasse il richiamo alla sovranità semplicemente
come lo sfogo di chi è arrabbiato per il trattamento dello Stato o
l’idea di nazione sarda come un richiamo sentimentale e nostalgico
a una “patria minore” in qualche discorso in sardo.
In attesa che Soru e gli altri come lui si decidano a uscire
dalle ambiguità e dalle paure che hanno bloccato la politica sarda
per anni noi andiamo avanti, noi siamo tenuti ad andare avanti. Del
resto non c’è nulla di meglio che dare l’esempio: bisogna
aiutare gli incerti, i timorosi, gli sfiduciati costruendo un
indipendentismo moderno e forte, capace di trascinare, coinvolgere e
unire sempre più sardi. Magari alla fine, come mi è capitato di
dirgli una volta, anche lui, anche Soru, entrerà in iRS.
Tutto
ciò non significa che un indipendentista non sia interessato a
forzare gradualmente l’orizzonte, anzi: aiutare tutti a fare un
passo in avanti, ad esempio provando ad affermare già oggi, già in
questo contesto, lo “status di nazione” per la Sardegna è un
buon modo per metterci alla prova come nazione e per mettere alla
prova lo Stato italiano. Un modo per far esplodere le contraddizioni
del presente e preparare il nostro ritorno al futuro. Ciò che deve
essere chiaro però è che per un indipendentista ottenere lo status
di nazione per la Sardegna non significa chiamare in modo nuovo ciò
che c’è già. Non possiamo accettare Statuti in cui si parla di
“nazione sarda” ma che a leggerli bene ripropongono l’assurda
idea di una nazione sarda fondatrice dell’Italia, votata al
sacrificio per l’Italia, pronta a sancire in anticipo che tutto
vuole tranne l’indipendenza dall’Italia. Non siamo così ingenui
da cadere nella trappola: non lasceremo che qualcuno metta sulla
bocca della nazione sarda un inno al suicidio. Se si dovrà parlare
di nazione sarda non sarà per mettere vincoli preventivi ma per far
esplodere ogni limite e riaprire per intero l’orizzonte del nostro
agire. Lo status di nazione dovrà essere un passo verso la piena
autodeterminazione.
Per
ritornare sul tema generale dunque il punto non è contestare le
scelte, legittime e sempre giustificabili degli altri, ma non
illudere noi stessi. Il federalismo sardo e sardista ha dimostrato
chiaramente, finora, quanto sia profonda la sua identificazione con
e per la nazione italiana. Dobbiamo avere fiducia in noi stessi,
dobbiamo avere fiducia nel fatto che il processo di acquisizione di
sovranità dei sardi e di reale trasformazione della società sarda
può avvenire solo partendo dall’identificazione della classe
politica sarda con la nazione sarda e facendo dell’indipendenza
nazionale il faro della propria azione politica. Non è possibile
che in Sardegna, una nazione con una cultura di 5000 anni alle
spalle, tutto sia possibile e naturale tranne che prendere in
considerazione l’opzione indipendentista. Abbattiamo questo
non-senso, impariamo a distinguere fra l’autogoverno che sotto
sotto giura fedeltà all’Italia e la sovranità come processo
verso l’indipendenza nazionale, o rimarremo scottati e fregati
in eterno.
Dobbiamo
capire che per l’esistenza della nazione sarda, e per il benessere
dei sardi, non c’è alternativa che il cammino
dell’indipendenza. Sarà forse un cammino lungo e difficile, ma
non c’è altro da fare che prenderne atto chiaramente e
serenamente, e incominciare a percorrerlo. Quanto prima definiremo
senza paure e ambiguità il luogo verso cui insieme tendiamo; quanto
prima faremo nostra la direzione - il “senso” - che ci unisce;
quanta più intelligenza, creatività, passione, coraggio sapremo
mettere nei passi che ci guidano verso il futuro, quanto prima
arriveremo alla meta. E andremo anche oltre.
Cantu
contat su mètodu iscientìficu semiòticu in s'analisi istòrica de
sa polìtica sarda?
Questa
è forse la domanda più difficile. L’incontro con la semiotica è
stato per me così radicale e così naturale al contempo che è
difficile distinguere la parte semiotica e la parte personale del
mio sguardo. Quello di cui sono sicuro è che nei miei anni di
formazione giovanile la semiotica mi ha aiutato a pormi nuove
domande e a volte anche a trovare risposte per inquietudini e dubbi
che mi portavo appresso, molti dei quali erano ovviamente legati al
mio processo di identificazione “con la Sardegna” e “come
sardo”. La cosa decisiva è che la semiotica mi ha dato modo di
riflettere su me stesso, e di impadronirmi di nuovi strumenti di
comprensione del mondo, mentre mi metteva a confronto con altre
vite, altri popoli, altre culture che in qualche modo avevano già
vissuto quello che a me sembrava un problema locale e isolato.
È
stato un punto di svolta su tanti fronti. Prima di tutto perché ho
capito che ponendo le mie questioni di sardo stavo già dialogando
con il mondo, avevo bisogno del mondo per mettere a fuoco e rendere
finalmente normali le questioni che riguardavano la mia cultura. Non
solo ho capito che non stavo affrontando un cammino solitario, ma ho
sperimentato sulla mia pelle che la mia partecipazione al mondo e il
mio divenire indipendentista erano parte di un unico processo,
certamente complesso e mai definitivo, ma in cui comunque le due
dimensioni si compenetravano e intrecciavano felicemente.
E poi
la semiotica ha ovviamente cambiato, o affinato, la mia sensibilità:
sensibilità a non dare per scontata l’evidenza, ad analizzare in
profondità anche le cose apparentemente più superficiali, a fare
dell’analisi il tramite per l’azione, e infine a mettere sotto
analisi continuamente e prima di tutto se stessi. Da quale posizione
parlo? Cosa sto cercando? Su quali materiali fondo le mie
interpretazioni del presente o del passato? Quanto sono adeguati gli
strumenti che uso? E così via in una spirale di auto-riflessività
che per fortuna la semiotica mitiga con un attaccamento costante
alla realtà sociale e alla volontà di impegnarsi in essa. E
soprattutto con una serie di chiavi concettuali che penso possano
aprire molte porte e molte teste.
Basta
pensare a uno dei suoi principi cardine, quello della
“relazionalità”. Ovvero, nulla significa e ha valore da sé e
in sé, sono le relazioni che costituiscono e rendono significativi
i termini della relazione e non viceversa. La verità è sempre
nella relazione, come hanno detto magistralmente Bruno Latour e
Paolo Fabbri.
Non
ha senso dire che “sono sardo” se non specifico la qualità e il
valore di questa affermazione, mettendo questo modo di essere in
relazione con qualcos’altro: per farla semplice, sono “sardo”
rispetto a un lombardo e un campano o rispetto a un italiano e un
francese? È un posizionamento nella struttura delle relazioni
sociali, politiche e culturali molto differente. E come ho cercato
di mostrare ha anche profonde e differenti conseguenze nel modo in
cui possiamo raccontare la nostra storia e praticare la nostra
sovranità. Nella pratica quotidiana così come in quella politica
noi mobilitiamo e definiamo diversi modi di intendere e vivere
l’“essere sardo” che non sono tutti equivalenti nel loro
significato e nelle loro conseguenze. Alcuni, a certi livelli sono
compatibili, ma altri si escludono e perfino si oppongono. E questo
un’analisi semiotica può portarlo alla luce, fino a farci
scoprire contraddizioni, paradossi, non-sensi, perfino perversioni,
nel modo in cui autodefinendoci modelliamo noi stessi e i nostri
comportamenti.
O
ancora, per fare un altro esempio molto carnale, non ha senso che io
mi chieda se sono alto o basso. Il punto è capire dentro a quale
relazione pongo la domanda e cerco la risposta. Rispetto
all’altezza media degli esseri umani che vivevano sulla terra
qualche secolo fa, o anche semplicemente rispetto ai miei bisnonni,
sono discretamente alto. Rispetto all’altezza media dei maschi
svedesi di oggi sono probabilmente molto basso. E così via rispetto
a chi mi sta di volta in volta a fianco. E queste constatazioni
possono anche non averci ancora detto nulla del significato e del
valore che una misura apparentemente oggettiva assume culturalmente.
Si può essere bassissimi e sentirsi dei giganti e viceversa. Perché
noi sardi oggi ci sentiamo bassi? È una questione di costruzione
semiotica del sentire, fa parte di un processo storico. Basta fare
un esempio molto indicativo. Matteo Luigi Simon nel 1802,
intellettuale illuminista, in un momento in cui la partita della
rivoluzione sarda sembra ancora aperta inizia a scrivere un
“Catechismo patriottico sardo” che poi non vedrà mai la luce.
Una delle domande è: “i sardi sono alti o bassi?” E la risposta
che il catechismo offre ai giovani che devono imparare a amare la
nazione sarda (questo è il progetto esplicito del catechismo di
Simon) è molto semplice: “nelle loro misure, i sardi, sono
giusti”. Per capire il senso di quella risposta bisogna metterla
in relazione con i fatti e le concezioni (politiche, ma non solo)
del tempo. Così come solo rintracciando la trama delle relazioni
che rende scontato il nostro presente potremmo capire perché, oggi,
pochissimi sardi troverebbero “vera” o almeno “sensata”
un’affermazione come quella di Simon e trovano invece
“naturale” sentirsi bassi piuttosto che giusti.
Questo
ci porta a un altro principio fondamentale per l’analisi della
politica, della cultura, della vita. Quello per cui bisogna saper
“guardare la storia nello specchio della vita quotidiana e
illuminare con la luce dei grandi avvenimenti storici anche i
piccoli dettagli quotidiani, che sembrano talora disgiunti” (Lotman).
Ancora
una volta si tratta di mettere in relazione aspetti e livelli della
vita. Lo facciamo tutti quotidianamente, ma nell’analisi
scientifica e semiotica si tratta di farlo in modo più sistematico,
rigoroso, verificabile. Non basta una relazione sola né una catena
di relazioni che saltano di palo in frasca. C’è bisogno di
individuare correlazioni: relazioni fra insiemi di relazioni.
Fino a ricostruire la trama di forze e sensi che ha costituito il
divenire storico o che costituisce la realtà che viviamo ogni
giorno.
Ovviamente la semiotica dice e offre molto molto
di più. Magari chi è curioso troverà modo di approfondire
andandosi a leggere alcuni dei testi che cito nella bibliografia del
libro.
Ite cheret nàrrere pro su chi pertocat a s'istòria
de sos Bator Moros "veridificare" e "veriditzione"?
Per riassumere e concentrarci sul nostro discorso
potremmo lasciare la parola a Paul Ricoeur, uno dei maggiori
filosofi del secolo appena trascorso: “individuo e comunità si
costituiscono nella loro identità ricevendo certi racconti
che diventano la loro storia effettiva”.
Ciò che definiamo “autocoscienza” non sarebbe
altro, da questo punto di vista, che una narrazione creduta vera.
Una narrazione che si pone come auto-definizione - come modello
della comunità - e che la comunità stessa, per vari motivi, assume
per un certo periodo “come vera”.
Come
si vede ciò non impedisce che l’autocoscienza sia una
ricostruzione del proprio passato distorta, parziale, o addirittura
esplicitamente falsa.
La
storia del colonialismo è zeppa di esempi. Una frase esemplare
potrebbe essere quella dei bambini algerini che sotto la pressione
della scuola francese per anni hanno ripetuto automaticamente “i
nostri avi, i Galli”. Anche in Sardegna le cose non sono andate
molto diversamente e Sergio Atzeni, in Passavamo sulla terra
leggeri, stigmatizzava con letteraria ironia ma anche con ferma
decisione questo meccanismo di falsificazione della storia dei
sardi.
In altri termini il sapere e il credere
fanno parte di un unico universo cognitivo, per dirla con Greimas, e
ciò fa sì che è “vero” ciò che sappiamo e crediamo vero;
dove il credere finisce spesso per essere persino più forte del
sapere, visto che a volte sappiamo ma non vogliamo credere (quante
volte non tiriamo le conseguenze di ciò che ci appare evidente?) e
altre addirittura non sappiamo (non abbiamo prove dirette, al
massimo abbiamo racconti di qualcun altro) ma vogliamo credere
ugualmente.
Il
sentimento della verità e della realtà, in altri termini, si
giocano dentro lo spazio della cultura e del potere, attraverso le
narrazioni e le istituzioni che utilizziamo per costruire il nostro
mondo. Sono materia di contesa e di lotta, o se si preferisce sono
continuamente riprodotti e rinegoziati nelle maglie della società.
Creiamo
di continuo storie per poterci identificare collettivamente in esse,
e quando questa identificazione avviene così profondamente da
portarci al punto di scordarci che c’è stata, allora sentiamo di
avere una identità, per quanto frammentata o contraddittoria essa
sia.
Molto spesso le narrazioni che fondano la nostra
identità – che possono essere sia racconti orali che libri, sia
film che trasmissioni tv, sia riti tradizionali che quadri, statue,
bandiere ecc. - ce le
reinventiamo nel presente, molto più spesso sono quelle ereditate.
Per questo la memoria è così decisiva. Non a caso Lotman (uno dei
miei autori preferiti, lo si sarò capito) scriveva: “La storia
intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la
memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come
distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei
nessi”.
Dobbiamo
partire da qui dunque per valutare le cose a cui siamo legati, o
persino affezionati. Spostandoci lateralmente e guardando le cose da
una prospettiva insolita ma più profonda dobbiamo cercare di capire
se ciò che oggi ci definisce è ciò che meglio esprime la nostra
storia e la nostra umanità, come individui e come appartenenti a
una collettività.
A
volte questa operazione ci rivela un panorama impensato e
sconcertante, quasi che le cose che oggi riempiono e rendono
apparentemente sopportabile il nostro presente non siano altro che
il velo che nasconde le miserie, le violenze e le ingiustizie su cui
il presente si fonda e con cui non abbiamo il coraggio di fare i
conti. Un po’ come nel film Matrix, le cose e le narrazioni
a cui oggi siamo affezionati potrebbero essere proprio quelle che
hanno causato la distruzione di noi stessi, di un modo alternativo,
diverso e migliore, di esistere e stare al mondo; potremmo cioè
scoprire che queste narrazioni servono a separarci da una presa di
coscienza di ciò che è stata veramente la nostra storia, del
percorso che ci ha portato fino alla condizione in cui stiamo, e lo
fanno offrendoci la consolazione di un piccolo presente fatto di
orgogli fatui e di risentimenti profondi. O ancor più
profondamente, offrendoci un altro orizzonte di vita che non ha
quasi più nulla a che fare con la Sardegna e il popolo sardo se non
qualche momento di folklore, di nostalgia o di rivendicazione.
Dal
‘600 a oggi, ad esempio, non abbiamo smesso di inventare
narrazioni più o meno fantasiose per cercare di rendere i Quattro
mori non solo digeribili ma addirittura “belli” e
“autoctoni”, come le storielle senza fondamento dei quattro
giudicati contro il saraceno Museto o della battaglia di Lepanto. O
addirittura ci siamo emozionati raccontandoci erroneamente che i
rivoluzionari sardi come Angioy sventolassero i Quattro mori, o
ancora, pensando a quanto sangue era stato versato nella prima
guerra mondiale portando sulla divisa quello stemma. Ora, l’utilità
di queste narrazioni è evidente, in quanto erano quelle che meglio
si conformavano al presente. Salvavano il quieto vivere richiesto
dall’integrazione dentro lo spazio della sovranità esterna,
spagnola prima e italiana poi, mentre offrivano la possibilità di
una qualche forma di orgoglio identitario. E se uno preferisce può
anche continuare così all’infinito.
Il
punto è che queste storie continuano a fare a pezzi o addirittura a
rimuovere e cancellare una storia di sovranità, libertà, creatività,
giustizia che è stata rappresentata da altri simboli, da altre
bandiere. Una storia che la bandiera dei Quattro mori non è mai
riuscita a rappresentare, e se non l’ha fatto finora viene da
dubitare lo possa fare in futuro.
Un nuraghe che appare all’orizzonte, o un albero
deradicato scolpito sulla facciata di una chiesa, è il segno di un
dubbio, di un conto che non torna, di una realtà più profonda che
squarcia il velo di una evidenza tanto presente quanto
inconsistente. Il dubbio, come il dejà vu nel film Matrix,
è il bug del sistema, il residuo che il sistema non è
riuscito a eliminare e che può far saltare in aria il suo castello
di carte. Il dubbio, l’insoddisfazione, l’incomprensione, la
curiosità ci parlano di un’altra storia con cui identificarci. Ci
spingono a cercarla.
Attenzione, lungi da me proporre visioni
pessimistiche della storia. Anzi, voglio esattamente sottolineare
che c’è sempre la speranza che si inizi a raccontarsi una storia
più vera e si cominci a vivere meglio, a costruire una società
migliore. Bastano anche pochi segni di verità che resistono alla
furia distruttrice e mistificatoria del potere, dell’ignoranza o
dell’auto-razzismo per poter rilanciare un progetto di futuro.
Esiste sempre un sapere “meno falso” da far emergere per dare a
un popolo la possibilità di esistere di nuovo, in modo nuovo.
Questa tensione verso un sapere più completo e complesso è
esattamente ciò che muove la ricerca scientifica, la curiosità
intellettuale, l’invenzione politica e poetica.
Oggi
noi sardi, secondo me, siamo davanti a due verità compresenti ed
entrambe difficili da accettare ma esaltanti per la sfida che ci
mettono davanti. La prima è che, piaccia o non piaccia, spesso ci
si affeziona alle falsità e anche a noi è capitato. Credo sia una
constatazione dura da digerire ma facile da comprendere: pensiamo a
come e quanto popoli interi si sono affezionati a dittatori o
carnefici. La seconda è che c’è sempre una speranza,
inizialmente avvertita come inaudita o pretenziosa, insensata o
rischiosa, che in un certo momento storico qualcosa arrivi ad
offrirci la possibilità di fare i conti con noi stessi e cambiar
pelle. Se sapremo accettare queste due sfide saremo a un passo dal
divenire diversi e finalmente ritrovare noi stessi.
B'at
puntos de contatu in s'istòria de sa bandera e in cussa de sa limba
istòrica de sos sardos?
Si
potrebbe fare un piccolo esperimento mentale, una specie di
controprova per vedere qual è la bandiera dei sardi. Il “test
della verità” potrebbe essere domandarsi: “Quando la lingua
sarda è stata lingua nazionale, quando la lingua sarda ha raggiunto
uno statuto ufficiale e una forma standardizzata, quando la lingua
sarda ha avuto effettiva e pari dignità con le altre lingue, quando
ha avuto la massima diffusione sulla nostra terra, quando la lingua
sarda è stata lingua parlata e scritta da tutti, dalla classe
dirigente così come dal popolo, quando succedeva tutto questo quale
era la bandiera dei sardi?”
Il
risultato, la risposta, è inesorabile: l’Albero deradicato verde
in campo bianco, sa bandera de sa Repubrica sardisca.
A
questo punto però non possiamo fare a meno di renderci conto che il
nostro test ci sta dicendo anche qualcos’altro, qualcosa di
decisivo per tutti noi che amiamo la lingua sarda e vogliamo vederla
prosperare. Il nostro test rispondendoci con quella bandiera sta
anche rispondendo alla domanda “Quando la lingua sarda è stata
forte in quale condizione politica si trovavano i sardi?”. E la
risposta ci ricorda che è solo nel momento di una presa di
coscienza nazionale che si fa lotta e realizzazione della propria
libertà che la lingua sarda riguadagna tutto intero il suo posto
nella società, tutta intera la sua dignità. Ancora oggi
l’elaborazione della coscienza nazionale sarda e la costruzione di
una Repubblica sarda indipendente sono il mezzo migliore, il più
efficace, il più “naturale” e “ovvio” verrebbe da dire, per
esaltare il valore della lingua sarda. Non c’è scampo, la
coscienza indipendentista genera il desiderio di avere una propria
lingua nazionale, l’indipendenza la realizza necessariamente.
L’indipendenza, la bandiera, la lingua battono
allo stesso ritmo, hanno lo stesso respiro.
Su sardismu "integratzionista" est
finidu de a beru?
Permettimi.
Io direi semplicemente “il sardismo”. In primo luogo per il
fatto che il sardismo – che ricordiamolo, è una
narrazione-concetto che non è mai esistito prima del 1919 e che si
è fondato sulla teorizzazione del fallimento necessario della
nazione sarda – è nato e cresciuto integrazionista e unionista.
In secondo luogo perché abbiamo visto che fine ha fatto
l’indipendentismo quando ha scelto di farsi rappresentare dal
sardismo o ha pensato di usarlo come “cavallo di Troia”. Ha
fatto la fine dell’amantide, del maschio ovviamente.
Del resto la presenza di indipendentisti – per
quanto sinceri e di buona volontà - dentro un qualunque partito
unionista non rende quel determinato partito indipendentista, anzi,
tutt’al più riesce semplicemente a mortificare, confondere e
stravolgere l’indipendentismo di quei pochi.
Se
torno a questo punto alla tua domanda mi rendo conto che
un’analisi come la mia possa suonare inaudita per una grande parte
della società sarda ma anche quanto una domanda come la tua fino a
cinque anni fa sarebbe stata semplicemente impensabile. E ho il
sospetto che le due cose siano in relazione.
E questo per un motivo semplice. Certe forme di
vita – certe “narrazioni” o “tradizioni”, per dirla con
gli autori che abbiamo citato prima – restano vive e efficaci
nonostante i loro limiti fino a quando non si profila
all’orizzonte un’alternativa migliore, più sensata nelle sue
linee generali, per quanto ancora da specificare e precisare nei
dettagli. Una narrazione non viene messa in crisi dalle infinite
critiche che le si possono muovere ma dall’esistenza di un’altra
narrazione, più positiva e propositiva. Capace di inglobare di più
e meglio il passato, il presente e il futuro. Insomma, non si esce
da una casa, per quanto ci stia stretta, ci sembri brutta e poco
dignitosa, per andare a vivere per strada. Si esce da una casa se ce
n’è un’altra in cui trasferirsi, in cui “tradursi”. Magari
portandosi appresso le cose buone e utili che arredavano la prima
(se ce n’erano).
Direi
dunque che ci troviamo in questa strana situazione. Il sardismo, in
quanto compromesso fra orgoglio e integrazione, in quanto
rivendicazione di un modo “speciale” di essere italiani, in
quanto modo di essere e di fare che ormai non appartiene più a un
partito, è apparentemente più forte che mai. Viene invocato da
tutto l’arco politico autonomista. Tutti sono eredi del sardismo e
dei suoi padri. Al contempo molti sardi, i giovani e le giovani per
prime, iniziano a sentirsi stretto questo abito; non capiscono
proprio perché continuare a perseverare in questo modo di esistere
ambiguo, contraddittorio, sostanzialmente immobilizzante: “se
siamo diversi, perché non dobbiamo affermare questa diversità come
sardi, nel mondo?” “perché dovremmo avere paura di chiuderci al
mondo con l‘indipendenza quando tutt‘intorno a noi, a partire
dall‘Italia, esistono popolo indipendenti e aperti?”, “che
senso ha essere orgogliosi di sacrificarsi per qualcun altro quando
abbiamo la nostra terra di cui prenderci cura?”, “come possiamo
sperare di costruire un nuovo benessere morale, sociale ed economico
partendo dall’idea che siamo una nazione fallita?”, “Perché
riusciamo a realizzarci individualmente fuori dalla Sardegna e non
dovremmo riuscire a farlo a casa nostra?”, “Perché dobbiamo
continuare a sprecare energie per produrre azioni e narrazioni
contraddittorie, che mortificano noi stessi, regalano o svendono le
nostre risorse, rendono impossibili e controproducenti anche le cose
più semplici e più promettenti? Non sarebbe forse più bello
produrre senso invece che non-senso?”. Queste e tante altre
potrebbero essere le domande che stanno facendo germinare i dubbi
sulla narrazione (e va da sé, sul potere) che da cinquanta anni è
dominante in Sardegna. E quando i dubbi iniziano a fare sistema,
quando componendosi mostrano in filigrana la possibilità di una
narrazione nuova, più ariosa, capace di riconciliarci con noi
stessi, con la nostra terra, con la nostra storia, con il nostro
futuro allora si è pronti per dar vita a una nuova fase. Siamo
all’inizio di un nuovo inizio.
S'istòria est fata dae òmines. Su sentidu de
umanidade est importante pro cumprèndere. In su libru tuo
bogas giudìtzios de a beru crispos subra intelletuales, polìticos,
iscritores finas natzionalistas o autonomistas. Non pensas chi,
manchende sa libertade dae su 1409, in medas finas pensende comente
a tie ant dèpidu mediare cun su poderiu de turnu in Sardigna,
forsis pro subravìvere?
E
pensare che a me non sembra nemmeno di dare giudizi!
Capisco
cosa vuoi dire ovviamente, ma credo che sia una questione di
prospettiva. Quando si analizzano le cose da un punto di vista
inusuale e si mettono in discussione i miti collettivi e le
narrazioni sacre sembra sempre di essere “cattivi”. Anche se si
sta facendo l’analisi più obbiettiva e distaccata possibile.
Ma
dirò di più. Se sono stato (o apparso) “aspro” e “cattivo”
mi dispiace, non lo sono. Chiedo anche scusa a chi, vivente o
defunto, si è sentito toccato. Si deve però ammettere che il punto
è un altro: ovvero che un giudizio pesante, distinto e dato dopo
una lunga analisi, non inficia la qualità dell’analisi che lo
precede. Se uno c’ha visto giusto, per dirla semplicemente, nel
giusto rimane con o senza giudizio cattivo alla fine. Il punto
dunque è se l’analisi, nel complesso, è valida o meno. Si
possono dare giudizi personali, si possono persino sbagliare alcuni
dettagli (siamo sempre ignoranti di troppe cose) eppure l’impianto
può reggere comunque. Questo è quello che va valutato.
Noi
possiamo anche giustificare all’infinito gli uomini del passato. E
come ho detto precedentemente noi sardi, di questi tempi, siamo
molto bravi a farlo (e considerato la condizione in cui siamo
dovremmo venirci un sospetto…). Ad ogni modo, possiamo anche
farlo, giustificare tutti, anche se credo che qualcuno certe
responsabilità pesanti ce le abbia. Ma diciamo che comunque li
salviamo tutti. Un problema però rimane: noi cosa vogliamo fare?
Vogliamo trovare giustificazioni anche noi? Vogliamo trovare
giustificazioni anche per noi stessi, per la nostra incapacità di
agire coraggiosamente? Non è che giustificando il passato, sempre e
comunque, volevamo preventivamente giustificare noi stessi? Volevamo
preparare il terreno a una nostra rinuncia di responsabilità?
“Del resto, se non ce l’hanno fatta quei grand’uomini a
evitare di mediare col potere perché ce la dovremmo fare noi a
essere liberi?”, questo potremmo dire, questo è il rischio che
vedo nel non fare i conti fino in fondo col passato. Credo che un
popolo maturo sia un popolo pronto a fare autocritica, a cambiare
idea su molte cose, e anche a dare a ciascuno i meriti laddove ci
sono.
Io,
per quanto posso, a livello personale, cerco di farlo, anche a
rischio di stare antipatico ai feticisti della tradizione. Ma anche
provando il piacere, ogni tanto, di stupire qualcuno. Come quando
certa gente crede che io abbia rancori personali con alcuni
personaggi del passato e ci rimane male quando vede che riconosco a
questi presunti padri molti pregi e meriti nonostante abbiano
affossato nel passato la possibilità dei sardi di essere
indipendenti. Nonostante abbiano palesemente umiliato e depresso il
mio popolo. A dire il vero non capisco di cosa si stupiscano, non
capisco se credono davvero che si possa tenere il muso ai morti. La
verità è che io sono felicissimo: perché siamo qui noi, più
svegli che mai, e abbiamo la possibilità di sorridere del passato.
E di cambiare le cose.
A propòsitu de classe dirigente: Mariano IV
connoschiat paritzas limbas, Angioy no resessiat a faeddare in sardu,
Mario Melis su matessi, Soru emmo. In sa Sardigna de cras o
pustis cras, dende pro iscontadu su multilinguismu, ite ruolu diat
podere tènnere sa limba?
La
riscoperta, l’insegnamento, la diffusione mediatica, l’uso
quotidiano della lingua sarda può avere e avrà un ruolo
fondamentale. In particolar modo se a tutto ciò si unirà la
percezione che ciò che i sardi stanno facendo è riappropriarsi e
dotarsi di una “lingua nazionale”, una variante che non annulla
la varietà delle parlate locali ma serve come mezzo di
comunicazione e identificazione nazionale.
Come
sapevano bene alcuni intellettuali sardi di fine ‘700, la lingua
– e si riferivano proprio a quella sarda - è “il più sensibile
vincolo del corpo de’ nazionali”. Perché si esprimevano così?
Perché il suono della
lingua, di una lingua condivisa, riveste il corpo della nazione come
un abito elegante e quotidiano al contempo, perché il suo risuonare
fra le persone, nelle case, nelle piazze, nelle aule, in tv, lega
impercettibilmente la comunità.
Quello che non bisogna scordarsi è che parlare
una lingua, qualunque lingua, non esclude la possibilità di dire
atrocità, di propugnare idee totalitarie, razziste, sessiste o che
vanno contro la proprio cultura e la propria storia. Si può perfino
parlare in sardo contro la nazione sarda, contro la cultura sarda,
persino contro la lingua sarda. E purtroppo è successo e ancora
succede. L’auto-coscienza è sempre qualcosa di più, o quantomeno
è qualcosa di diverso, dalle molte lingue con cui ci esprimiamo.
Per questo sarei propenso a capovolgere l’adagio e dire “Morto
il popolo, morta la lingua”, ovvero, morta la coscienza
nazionale, morta la possibilità di avere una lingua vera e viva.
Il mondo è pieno di “lingue morte” che non hanno più una
collettività che ci si identifichi e le curi giorno per giorno come
ci si identifica e ci si prende cura ogni giorno del proprio corpo.
Infine non bisogna scordarsi che, come è stato
detto, “per conoscere il mondo servono sempre almeno due
lingue”. La politica linguistica indipendentista dovrà essere, a
mio avviso, una politica plurilinguistica. Una politica che ci
insegni più lingue possibili. E sarebbe assurdo, insensato,
umiliante – come invece è successo fino a oggi - che in Sardegna
fra queste lingue non ci fosse la nostra, la lingua della nazione
sarda.
Franciscu, amus a torrare lìberos una die cun
cale si siat bandera?
Sì, prima di quanto crediamo.
Redazione diariulimba
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