“Chie menzus no at chin sa muzere si corcat”, (chi non ha di meglio va a letto con la moglie) o se si preferisce, in tempi di pari opportunità, con il marito. Recita così un vecchio proverbio sardo che nel suo significato di fondo rappresenta il ritorno a casa, il ritorno ai rassicuranti affetti domestici dopo le sbandate e le incursioni extra, magari andate in bianco. La moglie, la vecchia cara moglie pur senza grandi passioni e pur senza suscitare grandi entusiasmi diventa, nei ritorni domestici, il coperchio di tutte le pentole e la sicurezza di un porto conosciuto.
La proposta del professor onorevole Maninchedda, al congresso cagliaritano del P.S.d’Az., della creazione di un “grande partito autonomista” ha il sapore dolce-amaro di un patetico ritorno a casa. Nel senso di un ritorno a luoghi e ad affetti conosciuti, quando magari i luoghi non ci sono più e neanche le mogli sono più li ad attendere. Il tempo e le vicende della vita spesso cambiano le cose. Come diceva il vecchio Eraclito “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume” perché diversa è l’acqua che scorre e diversi siamo diventati noi stessi.
Già! Un grande partito autonomista. Come la vecchia moglie. Ma la Sardegna un grande partito autonomista non l’ha già avuto? Che so la Democrazia Cristiana! E il professor Maninchedda non ne è stato, se non sbaglio, l’ultimo segretario regionale? Non è che vorrebbe rifondare per caso la Democrazia Cristiana, magari richiamando tutti a raccolta: i Giagu, i Soddu, i Giovani turchi, i Gian Burrasca nuoresi, e chi ne ha ne metta. Bene ci riprovi ma ai sardisti cosa glie ne può importare. Non credo che la proposta debba essere fatta alla dirigenza ne tantomeno alla base dei Quattro Mori.
Per quanto riguarda il P.S.d’Az credo non sfugga né al professor Maninchedda né a chi conosca un po’ di storia politica della Sardegna che il partito di Bellini ha sempre avuto, rispetto all’autonomismo democristiano, ma anche a quello socialista e anche a quello comunista, ammesso che di autonomismo si sia trattato, un forte tratto distintivo segnato da una netta linea di demarcazione i cui punti che la sottendono scandiscono il problema del rapporto politico-istituzionale tra la Sardegna e lo Stato italiano ed il ruolo delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali isolani. Lo Statuto regionale (“il topolino” come diceva Lussu) partorito dal Costituzionalismo Cattolico-liberale italiano accettato in maniera subalterna delle classi dirigenti democristiane e dagli intellettuali cosiddetti autonomisti di cui il professor Maninchedda è uno degli ultimi nipotini, è la prova più concreta di un’autonomia in libertà vigilata Lo abbiamo detto altre volte e in diverse sedi. Se questo è l’autonomismo e se questo dovrà rinverdire “un grande partito partito autonomista”, un’autonomia in libertà vigilata, faccia pure il professor Maninchedda ma sicuramente, almeno credo, senza il P.S.d’Az.
L’autonomismo del P.S.d’Az, almeno nei suoi intendimenti di fondo, che haime, talvolta, anche le classi dirigenti sardiste, in alcuni momenti hanno messo tra parentesi, è un’autonomismo che conferisce alla Sardegna potestà istituzionali forti. E’ un autonomismo che rivendica quote di sovranità pari a quelle di uno Stato sovrano. Per esempio in materia di governo del territorio e di servitù militari. Prendiamo in esame quest’ultima questione. Il Presidente Soru continua, e fa bene, a rintuzzare l’espansione delle servitù militari in Sardegna ma senza esiti concreti. Tutto si definisce a Roma dentro un percorso in cui “le grida” del governatore Soru suonano come “flatus voci”. Flatulenze, aria, niente di più. I meccanismi istituzionali non consentono, per esempio, una sospensione dei lavori per abuso edilizio. Questo sarebbe stato un atto concreto se solo i poteri statutari della Regione Sardegna lo avessero consentito. Un decreto del Presidente Soru che bloccasse i lavori de “la Maddalena” sarebbe un atto illegale. Almeno sul piano simbolico, però, il gusto me lo sarei preso. Avrei denunciato all’ONU e all’opinione pubblica mondiale Gli Stati Uniti e il Governo italiano per occupazione abusiva di suolo pubblico e per abuso edilizio.
Questo per tacer d’altro. Di scuola per esempio. Di università e di ricerca scientifica, di fisco. La regione lesina allo Stato l’IVA che gli è dovuta. Ma noi allo Stato IVA non glie ne dovremmo dare. Noi tasse allo Stato non glie ne paghiamo teniamo tutto noi. Prima soddisfiamo le nostre esigenze e poi si vedrà. Questa è la sovranità. Certo i costituzionalisti e gli economisti vicini al Governatore ma anche a Maninchedda, in fondo, troverebbero avventate e prive di scienza queste cose dette così alla buona. Siamo certi che tra di loro, comunque, non stanno litigando per le quote di sovranità che la Sardegna dovrà avere in un eventuale nuovo statuto autonomistico. Litigano per meno, per molto meno, anche se, pur sempre, di quote si tratta.
L’autonomismo perciò non può essere, almeno come noi sardisti del P.S.d’Az. lo intendiamo, una specie di notte nera in cui tutto diventa nero, ma un fatto ben preciso in cui, prima di dar vita a grandi partiti o a sedicenti poli autonomistici come auspica il buon Francesco Casula, buono perché sincero e onesto, almeno credo, sarà, però, necessario disegnarne bene i percorsi politici e le linee di demarcazione che separano e distinguono il vecchio autonomismo Doroteo in salsa coloniale e l’autonomismo indipendentista, sovranitario-federalista, cui storicamente s’ispira il P.S.d’Az.
Perciò il professor Maninchedda rifletta meglio e di più su questi temi, del resto alle prossime regionali mancano ancora quattro anni, salvo imprevisti, per quanto il tempo, in politica, sia sempre poco.