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04/09/2004 Parres/ Sa chistione de sa limba in cresia

La lingua sarda nella liturgia? Un problema politico.

de Fabritziu Dettori

La recente scoperta del prezioso documento di Siamaggiore su la Via Crucis scritto in sardo, risalente al 1895, riporta in attualità un argomento fondamentale per la Nazione Sarda: la lingua sarda nella liturgia. Il Concilio Plenario sardo, concluso nel 2001, affrontò la questione “limba” con sufficienza, lasciando aperta tale causa. Per i sardi, coscienziosi che la sardità e la cristianità sono espressioni coese e vincolanti della propria nazionalità, fu ancora una volta un’amarezza. La linea politica, alla quale la “Chiesa sarda” obbedisce per ripudiare la lingua sarda, è quella emanata dal Concilio plenario del 1924 prima, e quella di prosecuzione d’italianizzazione, spiccatamente fascista, del 1932 poi. In queste date i “pregoni” ai parroci sono chiari: “ Non usare il sardo come veicolo per l’evangelizzazione e la liturgia.” Nel 1976 si adeguò, inoltre, alla normativa canonica, la quale, con la “Lettera d’avvertenza” della Congregazione romana (a dispetto dei principi del Concilio Vaticano II – 1962-65 – di riportare la liturgia tra i fedeli usando la loro lingua parlata, acciocché in questi vi sia una “presenza piena, consapevole e attiva”), stabiliva: “Non si possono introdurre – senti-senti – i dialetti e le parlate proprie ed esclusive di una località, cioè quelle espressioni linguistiche cui si possono sostituire le lingue più diffuse e convalidate dall’insegnamento scolastico.” Ciononostante, in Sardegna vi è oggi una resistente rivendicazione affinché sia riutilizzata sa limba nelle funzioni religiose, quali: la Messa quotidiana, domenicale e nell’amministrazione dei sacramenti matrimoniali, battesimali, ecc. Una speranza ce la offrì generosamente l’attuale Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II, il quale ci riconobbe, in occasione della visita in Sardegna nel 1985, questo diritto e necessità linguistica, tanto che concluse in sardo un’orazione: “Ad onori de Deus, Onnipotente, et de sa Gloriosa Virgini Santa Maria Mama Sua”. Orbene, il “concilio” asserisce, che “Si può parlare con verità di “popolo sardo”, con una sua caratteristica culturale originale e una sua propria lingua.” Ma se da una parte riconosce l’evidenza con una risoluzione bellissima, quasi la stessa adoperata da etnologi e nazionalisti per definire la Nazione sarda, dall’altra ne nega le relative esigenze. Infatti, il documento (n° 100 del capitolo XIV) su “L’uso della lingua sarda nella liturgia”, non stabilisce che si potrà celebrare la Santa Messa in sardo. E’ concessa – soltanto – la possibilità di “utilizzare la lingua sarda, con canti e testi opportunamente scelti, in alcuni momenti celebrativi e di preghiera”. Ugualmente a come si è sempre fatto anche prima del Concilio! Significa cioè, che si è rilasciata la licenza ad un uso folkloristico che mortifica, anziché innalzare, la lingua sarda. La “Commissione per la traduzione in sardo della Bibbia”, incaricata dall’episcopato sardo, fa sapere che la versione in limba dei sacri testi è a buon punto. Faccia pure con comodo: avere il testo sacro in sardo non significa che la “Chiesa sarda” lo utilizzerà! Il problema è, ancora una volta, politico! Lo sanno bene i protagonisti del cosiddetto “matrimonio in Limba”, celebrato da don Francesco Tamponi a Santa Giusta (OR) nel 1996. Il matrimonio, infatti, fu osteggiato dalla Chiesa e dallo Stato. Quest’ultimo, intollerante, inviò gli agenti della digos e un elicottero dei carabinieri a sorvolare, per ammonire, aggressivamente la cerimonia nuziale. L’episodio, di pura oppressione colonialistica, divenne oggetto di dibattito parlamentare. Da allora solo un altro sacramento è stato amministrato in sardo (e solo in sardo) dal medesimo don Tamponi: quello battesimale officiato il 27.05.2001 nella chiesa de “su Rughefissu di Bulzi in provincia di Sassari. Fu una cerimonia, per certi versi, “clandestina”, anche se partecipò praticamente l’intero paese. Nelle istituzioni dello Stato ormai sa limba sta trovando, anche se ancora e troppo timidamente, sempre più consensi, ma in quelle della Chiesa sarda è ancora incatenata. Il clero sardo, purtroppo, è privo di quel coraggio e valore (qualità espresse solo da don Francesco Tamponi) che altrove ha determinato l’esercizio del diritto linguistico. Il Friuli, per esempio, risentiva dell’analogo problema linguistico, il quale è stato risolto grazie agli ideali di numerosi sacerdoti “nazionalisti” militanti, capeggiati da don Francesco Placeratini e da monsignor Pietro Londero. Con fermezza il clero friulano lottò con azioni memorabili, come: “Le giornate del ’72”, nelle quali per giorni e giorni fu celebrata messa in furlan in tutte le chiese della regione. L’“insurrezione” avvenne, non a caso, in occasione del “congresso eucaristico nazionale”. Oggi nelle chiese friulane è normale officiare messa in furlan. Ma se la nostra lingua è avversata nella “chiesa sarda”, non lo è in quella di Gerusalemme. In questa città santa, infatti, nella chiesa carmelitana del Pater Noster, edificata sul Monte degli Ulivi, sopra la grotta in cui Gesù insegnò il Padre Nostro ai discepoli, è riconosciuta come lingua d’evangelizzazione cristiana. E, alla pari di altre sessantun lingue, il testo sacro, scritto in limba, su piastrelle maiolicate, de Su Babbu Nostru ha trovato libertà e austerità. Grazie a Dio.

A segus