"Niente guerra al sardo unico, dobbiamo ispirarci ad Eleonora"
de Paolo Pillonca
CAGLIARI. La chiamano “Limba de mesanìa”, lingua di mezzo. E la definiscono “una proposta di pace”, dopo le polemiche infuocate seguite - da tre anni - alla presentazione della Lsu (lingua sarda unificata). A studiare il nuovo modello è il “Comitau abbìa a unu sardu comunu”, verso un sardo comune. Ne fanno parte tre associazioni molto note (Fondazione Sardinia di Cagliari, Istituto Camillo Bellieni di Sassari e Sòtziu de sa limba sarda, di Cagliari ma con soci a larga maggioranza delle zone interne delle altre tre province, Nuoro in testa.
Oltre a numerosi intellettuali, linguisti e scrittori fra i quali Bachisio Bandinu, Mario Puddu, Michele Pinna. Prima istituzione a schierarsi a favore, la Provincia di Cagliari, presente alla prima uscita ufficiale con l’assessore Mariano Contu.
Che la virtù stia nel mezzo non lo dicevano soltanto gli antichi Romani. Ma è possibile trovare un’alternativa alla Lsu salvaguardando le varianti, in una politica linguistica unitaria?
«Difficile, ma non impossibile», rispondono in coro i proponenti. E fanno una premessa di larga condivisione: tutte le varianti della lingua sarda sono legali, nell’oralità e nella scrittura, si tratta solo di scegliere un modello scritto adatto alla comunicazione istituzionale.
Giuseppe Corongiu dirige il settore culturale del Comune di Quartu. Nato a Laconi trentotto anni fa, laureato in Lettere con il massimo dei voti e la lode all’Università di Cagliari, giornalista professionista, collaboratore di Beniamino Scarpa nel servizio nell’Assessorato regionale alla Cultura, Corongiu è anche vicepresidente di una delle associazioni proponenti, Su sòtziu de sa limba sarda.
- Com’è nata la vostra idea?
«La tesi del comitato parte dalla critica ai punti deboli della proposta fatta nel 2001 dalla commissione di esperti della Regione, poi rinnegata, sospesa, infine riesumata e oggi giuridicamente latente. A scanso di equivoci va detto che con la Lsu si è fatto un passo avanti nel tentativo di standardizzare una variante della lingua sarda ad uso amministrativo regionale».
- Dov’è il problema, allora?
«La Lsu, per molti versi meritoria, ha ricevuto critiche e osservazioni rilevanti. Una buona parte degli stessi linguisti che l’avevano sostenuta si è poi defilata. La Regione oggi la considera una figlia indesiderata e scomoda».
- Ma i sostenitori della Lsu si dichiarano disponibili al confronto.
«Parlano di un modello emendabile. Ma alle parole non sono seguiti fatti concreti».
- Quali sono le vostre critiche?
«Si possono riassumere in quattro punti: artificialità dello standard creato, privilegio di una macrovariante rispetto all’altra, progetto velleitario di perentoria unificazione totalizzante, proposta calata dall’alto in maniera avventata».
- Sa Limba de mesanìa, invece?
«Si tratta di una variante del sardo di quelle che si trovano nella fascia mediana della Sardegna (cosiddetta zona grigia linguistica) dove, per un fenomeno naturale legato alla storia di quei territori, sono presenti idiomi che al loro interno hanno sviluppato un intreccio paritario tra le due macrovarianti, logudorese e campidanese».
- Vi ispirate ad Eleonora d’Arborea?
«In un certo senso sì. Questa realtà richiama la variante arborense della lingua sarda, utilizzata per la Carta de Logu: una variante, appunto, mediana, compresa e usata per secoli a livello amministrativo-giuridico da tutti i sardi, meridionali e settentrionali».
- Che cos’altro di nuovo contiene la vostra proposta?
«Apprezziamo l’idea dell’unità della lingua sarda, ma vorremmo realizzarla in base a criteri di scientificità, democraticità, eguaglianza e pari dignità tra le varianti. Non amiamo le soluzioni preconfezionate. Limba de mesanìa è una ipotesi di studio apertissima ad altri contributi e realmente modificabile».
- Voi dite: le varianti locali vanno difese a tutti i costi. Ma come conciliate questa necessità con la proposta di una lingua di mezzo?
«Il nostro progetto lascia libere le amministrazioni locali, che non siano la Regione, di sperimentare con la propria variante la redazione di atti pubblici. Per semplificare: in uscita la Regione scrive gli atti in Limba de mesanìa, in entrata riconosce ogni tipo di sardo. Questo modello di politica linguistica, sensibile alle necessità locali, è indirizzato all’unità perché stabilisce un terreno comune di scambio delle diverse varianti. Allo stesso tempo consente un approccio più diretto alla variante locale tenendo conto della storia, del pensiero e della tradizione delle popolazioni».
- Un compromesso?
«Sì, un compromesso tra il modello della lingua polinomica utilizzato in Corsica e la lingua standard della Catalogna e dei Paesi Baschi. Ma originale: polinomicità, sì, ma anche sperimentazione di una lingua comune. Si parla tanto del modello catalano, spesso a sproposito: si dimentica, ad esempio, che la Valenza opta per uno standard diverso dal catalano unificato. Inoltre le differenze tra le varianti sarde sono più marcate rispetto a quelle catalane. Se questa è la nostra storia linguistica, non ha senso copiare pedissequamente modelli altrui».
Giuseppe Corongiu ricorda una proposta analoga, fatta vent’anni fa dal compianto Bore Ventroni, e chiamata “limbazu lacanarzu”, lingua di confine. Né gli sfugge il concetto che Limba de mesanìa è “un modello transitorio e sperimentale che andrà registrato nel tempo a seconda degli esiti”. Riconosce che “questa variante, a parte la Carta de Logu e gli atti del Giudicato di Arborea, ha lo svantaggio di non avere una grande tradizione scritta familiare alla massa e insieme il vantaggio di essere naturale, cioè effettivamente parlata, e sempre in fieri, nel senso che chi la pratica ha spazio per modellarla secondo la propria attitudine”.
Il giovane dirigente di Laconi è contrario soprattutto alle divisioni di campanile. «Mi chiedo che cosa siano i corsi di campidanese di cui sento parlare», osserva.
«Credo sia tempo di ragionare in termini di lingua sarda e basta». Pax hominibus bonae voluntatis.