24/05/2005 Seberos de imprenta - La Nuova Sardegna 18 maggio 2005
Gavino Ledda: faulas contras a sa Mesania
Sa Nuova faghet nàrrere a s'iscrividore de Sìligo ca sa limba 'e mesu est un ogm e ca est menzus a torrare a mòvere dae sa Carta de Logu. Ma chie lu narat a Piegiorgio Pinna e a Ledda ca b'at sardos chi la faeddant de abberu e ca sa carta de Eleonora est iscrita in limba mesana de Arbarèe? Ma non bastat: atacat sa naturalesa de proposta unu chi proponet "nuragare" comente "abitare"....Bette e' sardu naturale... Forsis Ledda puru non l'at lèzida sa proposta e li dant boghe e ispatziu pro imbrutare sas abbas.
SOCIETA’ E CULTURA
“SA LIMBA DE MESANIA? È UN OGM, RIPARTIAMO DAGLI STATUTI SASSARESI”
di Gavino Ledda
dai nostro inviato Pier Giorgio Pinna
Non è certo un sardofilo convertito dell'ultima ora ne un glottologo a la page e neppure un filologo
amante delle mode. Semplicemente, per Gavine Ledda il sardo è tutto: la sua è una vita in limba. Così l'autore di «Padre padrone» si considera più che titolato per intervenire su una questione sollevata con nuovo vigore nell'isola. Come sempre , lo fa senza perifrasi e senza mezze misure: «Non sono d'accordo sull'ipotesi di una limbo, de mesanìa da usare nei documenti ufficiali — spiega —. Quella lingua sarebbe un vero Ogm, un organismo spiritualmente e geneticamente modifìcato: un'oggimmazione sterile e dannosa all'anima come alla carne del popolo sardo che
dovrebbe parlarla. A che servono microparticelle extralinguistiche trasformate in maniera
artificiale e malsana? Bisogna al contrario scavare nella terra e nella storia».
— Che cosa propone, alllora?
«Vivo in questa terra. Quindi capisco il significato formale e astratto della lingua mediana: si parla di una lingua di mezzo, insomma. Che si vorrebbe, forse, capace di svolgere un ulteriore ruolo di mediazione tra diverse anime. Non vedo tuttavia come si possa riempire di contenuti validi
qualcosa che non esiste. Le soluzioni da adottare sono altre.
— Quali?
«Ripartire dagli Statuti della Repubblica di Sassari e della Carta de Logu di Eleonora
d'Arborea. Lì, in quelle carte come negli archivi arcivescovili di Cagliari e nei condaghes
(i registri dei monasteri, ndc), si trova il sardo nostro che dobbiamo recuperare e quindi
sviluppare in lingua moderna unificata e unificante: un sardo comune e un sardo storico che abita ancora nell'anima dell’isola da nord a sud».
— Come mai questa convinzione?
«Mi occupo del tema da sempre. Potrei dire da quando sono nato, sebbene di fatto le prime percezioni le abbia avute quando avevo 5-6 anni, già pastore sull'asino somaro.. Ora ne ho 66 e di questi problemi sono riuscito a comprendere parecchio solo sulla soglia della cinquantina. Ho dedicato molta parte dell'esistenza allo studio delle problematiche linguistiche e della comunicazione».
— Ma perché tante certezze in un quadro così complesso?
«E' semplice, m tutto questo tempo mi sono impegnato per me stesso: ho faticato e sudato
per trovare un idioma, lingua nuova, bioma mai scritto, che si adattasse al mio modo illore
illura di narrare le storie e le scorie del tempo. L'ho trovato calpestando le bucce della terra, sotto i tacchi: nei topònimi che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità assieme alle pecore sane, al sughero vigoroso e all'acqua pulita. Così come l'ho riscoperto nelle carte del Medioevo. Da lì, anche nel mio caso, nasce tutto».
— Che cosa, più esattamente?
«Per esempio, il libro che scrivo adesso. E' la versione di «Padre padrone» in un sardo, per così dire, primigenio e anche mai parlato, eppure futuro fuoco dell'anima della nostra isola. Sardo storico e finalmente figlio dell'idrogeno e della sardèine.
— Può chiarire meglio?
«E' una nuova creazione in limbo, storica diacronica. E se Manzoni è andato sino all'Arno per sciacquare i suoi panni e dar vita a un italiano pulito, io ho dovuto purgare il sardo nostro dalle incrostazioni latineggianti, aragonesi, catalane, pisane, specialmente, e last, bat not least (ultimo ma non meno importante!) dalle negligenti indecenze di chi poeta senza musa. Per tutto questo certo non solo con l'acqua del Flumendosa e del Tirso: soprattutto con la saliva, piva viva della terra e col vento che spazza le nostre montagne».
— Immagini figurate a parte, una volta lei ha spiegato che per realizzare questo progetto si serve addirittura di due computer in contemporanea.
«Con uno scrivo in sardo, con il secondo in italiano: ho bisogno di vedere le frasi una vicina all'altra».
— Tecnologie informatiche applicate alla narrazione, ma sempre con un occhio rivolto alla poesia.
«E' vero: per affrontare correttamente l'intera questione bisogna essere poeti. E nel raccontare per la prima volta la nostra isola come mai è stato fatto proprio nella sua lingua intima, frutto che ha abitato per lunghissimo tempo la nostra terra, si può ritrovare l'opportunità di ridiventare finalmente l'Omero mai avuto nei nostri nuraghi».
— Che cosa significa?
«Mio padre, in campagna, a Baddevrùstana, non mi dava certo gli ordini in italiano. Lui diceva sempre foghe gài o faghe gòi. Qualsiasi dialogo, tra di noi, era in sardo. Bene: per il momento riscrivendo "Padre padrone" mi mancano paràulas medas. Ma alla fine riuscirò a trovare la lingua del nostro, mio e vostro passato storico e quella del moderno presente galileiano-einsteiniano: quella giusta insomma. Anche perché io nelle parole cerco di farci abitare il tempo, appunto, coinquilino della materia».
— Concetti che non tutti sono in grado di capire subito.
«Chiarisco ancora meglio.
Mio zio Albert Einstein — in sogno mi diceva più volte, e il mufloné me lo ha spiegato meglio negli ultimi decenni — era convinto che dentro i corpi animali e vegetali, dentro le cose, come le pietre o gli esseri viventi tipo le piante, bi nuragaìda su témpus, abitasse il tempo. Voleva dire che non ci sono solamente sentimenti o emozioni: c'è anche il tempo grande massimo e minimo minore. Ecco: io voglio dare e immettere il tempo nelle parole».
—E dunque...
«Dunque, voglio fare per la Sardegna ciò che Omero ha prodotto per la Grecia. Ma la mia sarà un'Iliade senza spada, senza scudo e senza sangue. Semmai sarà una trasfusione di ossigeno e idrogeno mai stata. Un processo affascinante, senza fine. Faccio solo un esempio. Da nuraghe può nascere il verbo nuragare (abitare), da certi termini interi periodi, e così via in un flusso incessante. Io, comunque, la nostra Iliade la scriverò solo con la terra generosa e con l'acqua ripulita, rugiada biada, della nostra isola».
— Al di là delle sue metafore e intuizioni narrative, lei vive nella realtà come noi.
Sul moderno campanello della sua casa di Siligo c'è la scritta Gaìnu. Il suo indirizzo di posta elettronica è desosaghes@tiscali.it: ovvero uomo dei nuraghi. Alle ultime elezioni comunali è stato tra i sostenitori della lista Su yàmpu, il salto, che ha portato una sua nipote alla carica
di sindaco. Insomma: i richiami alle origini sono altrettanto evidenti degli agganci al mondo contemporaneo...
«Proprio perciò tengo a dire la mia sulla questione della limbo oggi in discussione. Che in Sardèna non è petrarchismo di maniera. Ma sardità, sardèine da Caralis a Sàssari:Oristano, Nùgoro, Ozzàstra,Sulcis, Sarrabus. Innanzitutto, per fare presente che dobbiamo essere noi sardi a decidere
il destino del nostro bilinguismo diacrònico storico unificato unificante. E non certo docenti chiamati per l'occasione da altre regioni e da altre nazioni o tuttologi e mitomani locali di cui son già strapiene le tombe».
— Una nota polemica?
«No. Tuttavia ho letto i nomi dei mèmbri della commissione per sa limbo nominata dalla Giunta Soru e devo dire con franchezza che i soli che mi convincono sono quelli di Giulio Paulis e Michel Contini».
— Come valuta il dibattito su queste problematiche?
«Positivamente, ma in modo problematico. Con qualche distinzione, dunque. Da una parte, il presidente ha avuto il coraggio di prendere la questione per le corna. Dall'altra parte, c'è quest'ipotesi sbagliata della limbo de mesania destinata agli atti ufficiali definiti "in uscita dalla Regione". Limba che, oltre a non essere praticabile, sarebbe letale a uno sviluppo di una lingua ancora possibile per tutti i bambini dell'isola, finalmente accomunabili con un tessuto comune ignorato ma non ignorante. Dobbiamo pensare ai minori, non agli adulti».
— In quale maniera?
«Il bambino e la bambina di Càralis, Sàssari, Nùgoro e Lanuséi — come pure delle Gallure e persino di Alghero — devono imparare a scrivere la stessa limbo "in partenza" per creare finalmente nell'anima e nel corpo una Sardèna una e unificata. E' fallito l'esperanto:
perché dovrebbe riuscire questo tentativo esperantìstico? A chi farebbe bene una distillazione dell'angoscia sarda? A nèmos, a nessuno! Eppoi: che cosa vuoi dire "in uscita"? Bisogna pensare anche alla "limba in ingresso". All'anima e alla mente del tempo minore: del minimo minore: dell'infante».
—Cioè?
«Mi riferisco all'insegnamento nelle scuole. E mi ripeto: l'unico sardo proponibile— elaborabile per il sistema solare — è quello della Carta de Logu e degli Statuti della Repubblica di Sàssari, Saranno poi le nuove generazioni a trasformarlo via via con il tempo riempiendolo di nuova fantasia e di nuovi contenuti europei e planetari.
E' questa un'idea bellissima di una limba in movimento storico diacronico. Noi stessi, a scuola, non abbiamo studiato l'italiano partendo da Jacopone da Todi, da San Francesco e da Dante? E allora? Allora andiamo, mettiamoci subito in marcia! Ma c'è un altro aspetto che intendo sottolineare».
— Quale aspetto?
«Se si prendono come corretti punti di partenza questi monumenti del sardo in sardo, non si può trascurare qualche cenno storico. E ricordare come nei secoli ai quali mi riferisco sa limbo fosse più o meno uguale in tutta l'isola. Soltanto più tardi è avvenuto un fenomeno che ha provocato un vero sterminio linguistico».
— Ovvero?
«Le dominazioni esterne, Pisa in particolare, hanno diviso m due la Sardegna, tracciando una netta linea che va da Oristano ad Arbatax e tagliando fuori tutte le aree sottostanti. I campidanesi, compreso il presidente Renato Soru, si sono trovati cosi al centro di questo olocausto della lingua. E con loro gli abitanti delle altre zone meridionali dell'isola. Altro che proporre sa limbo, de mèsu. E'
il Mezzogiorno della Sardegna che deve ritornare ad appropiarsi di ciò che ha perduto: l’anima. Insieme, ora, al rischio di perdere la coscienza di essere sardi. Io avrei potuto parlare anche di tutte queste cose, se qualcuno me ne avesse dato l'opportunità».
- Invece...
Nessuno finora ha ritenuto opportuno contattarmi. Può darsi lo decidano in seguito. Potrei
rammentare qualcos'altro.
Come gli sviluppi degli imponenti studi sulla materia condotti da Max Leopold Wàgner, il linguista di fama mondiale al quale mi rifaccio in continuazione nel mio lavoro. Lui, tedesco del Novecento, ci ha regalato frutti che i sardi non hanno mai potuto seminare ne cogliere. E la cosa più ingenerosa e dannosa è l'ingratitudine verso quest'uomo e soprattutto nei confronti della nostra storia: i sardi "intelligenti" ancora lo ignorano».
— Tuttavia, le discussioni continuano e gli spazi per il dibattito si fanno sempre
più articolati.
«E' così. Rilevo tuttavia che molti di coloro che sono intervenuti o mi risulta debbano ancora farlo non sono degli specialisti, ma solo dei sardi fuori posto. Qualcuno, come Giovanni Lilliu, è sicuramente un grande, un grandissimo, ma soprattutto nel campo dell'archeologia e della storia in senso lato. Di altri preferisco tacere».
— E' d'accordo sull'iniziativa di un referendum sul tipo di lingua da adottare oppure un sondaggio centrato esclusivamente sull'opportunità o meno di una limba de mesania?
«Così la questione è mal posta. Non mi paiono argomenti che si possano decidere con un si ignorante o con un no borioso: la lingua, prima ancora che la Storia, si fa con i documenti
e con la musa».
— Ma al di là degli atti amministrativi ufficiali, che fare per rendere più vivo l'uso
del sardo?
«Non ho niente in contrario al fatto che ciascuno spontaneamente parli sa limbo de sa domo sua nel contesto familiare, paesano e persino territoriale. Ci mancherebbe altro.... Tuttavia la lingua per tutti, quella che darà civiltà alla Sardèna nostra, è lì dove ho detto, in attesa di riavere una coscienza umana. E certo non si deve dimenticare che esistono contesti differenti anche sotto altri
riguardi».
— Quali?
«Il discorso è ampio. Investe la cultura regionale nella sua vasta accezione. E almeno due
tipi di Sardegna: quella agro-pastorale e quella dove per secoli hanno prosperato le
attività minerarie. Comunque, rispetto ad altri popoli, noi abbiamo avuto, in qualsiasi località e in ogni caso, il grande vantaggio di una limba scritta, almeno a partire dal Medioevo».
— C'è poi un confronto continuo internazionale che sollecita verso un dialogo con le altre lingue come l'inglese.
«Sicuramente. Sono tutti propellenti che ci aiutano a crescere, e non a regredire».
— Chi nell'isola parla solo l'italiano non potrebbe vivere quest'attenzione rinnovata verso la limba come una sorta di costrizione?
«Credo di no. Chi lo obbligherà mai ad apprendere qualcosa che non vuole? Solo chi si sente realmente sardo dovrebbe darsi da fare per imparare.
- In definitiva almeno secondo Gavino Ledda, si può coniugare l’identità con la diversità?
Come no! Non ci sono automatismi. Nella lingua le trasformazioni sono lente, ma danno risultati. Con un’avvertenza, tuttavia: i sardismi, compresi quelli che sconfinano nell’indipendentismo, hanno una visione di questi temi strettamente politica, se non a volte addirittura solo partitica.
- Non è per caso che anche nell’isola si possa fare riferimento a tante culture? E poter così parlare di aspetti sociali diversi dell’identità?
Certamente. E’ proprio così. La storia è la storia, la lingua è la lingua. Si tratta solo di recuperare certi processi con un avvicinamento corretto.