L’attuale dibattito sulla lingua sarda ripone la sua attenzione, con sempre maggiore frequenza, sull’ufficialità conferita alla lingua dalle leggi nazionale (482/99) e regionale (26/97), che mirano a tutelare le minoranze storiche presenti nel territorio italiano l’una e a promuovere e valorizzare la cultura e la lingua della Sardegna l’altra. Nell’opinione del linguista Strubell “le leggi in quanto tali non sono sufficienti ad assicurare la sopravvivenza di una comunità linguistica”. Dunque le leggi non possono considerarsi quali chiave di volta nella risoluzione di situazioni linguistiche particolarmente difficili da affrontare come nel caso della pianificazione di lingue minoritarie, intendendo con queste ultime quelle lingue che, all’interno di uno stato, non vengono parlate dalla maggior parte della popolazione nazionale e che si trovano in una condizione di subordinazione rispetto alla lingua nazionale. Rientra in questa definizione anche il sardo, lingua minoritaria oggetto di un recente tentativo di pianificazione che pur affonda le sue radici in un passato ormai lontano. La posizione sempre meno rilevante occupata dal sardo all’interno della sua comunità, soprattutto se posta a confronto con la lingua italiana, e la sensazione di smarrimento dovuta al lento spegnersi della lingua madre hanno suscitato una forte reazione da parte di tutti i sardi sensibili al problema, i quali hanno contribuito a porre la questione della lingua sempre più al centro del dibattito culturale favorendo anche un’attenzione positiva da parte della politica e dell’amministrazione regionale che è riuscita a varare la legge sopra citata. Indubbiamente un passo avanti, ma che contribuisce solo in parte all’annullamento di un problema immobile da troppi anni. Le leggi citate infatti riconoscono il diritto di espressione nella lingua minoritaria e rappresentano uno strumento aggiuntivo affidato alle popolazioni in situazioni di minoranza affinché esse siano maggiormente consapevoli del patrimonio che possiedono; tuttavia lo status giuridico offerto dalle leggi non può agire da solo. Occorre una corretta pianificazione linguistica adeguata alle esigenze delle comunità che sentono la necessità di modificare la loro situazione linguistica. La base di partenza per una pianificazione linguistica corretta è rappresentata da uno studio approfondito ed accurato della situazione sociolinguistica nella quale si intende operare. Si tratta di inchieste di carattere sociolinguistico e psicosociale che devono mirare all’acquisizione di informazioni riguardanti non solo l’utilizzo attuale del sardo e la conoscenza attiva e passiva che i parlanti hanno della lingua, ma che si occupino anche di verificare gli atteggiamenti riguardo alla lingua sarda, ad un suo eventuale uso in ambito amministrativo e scolastico e ad una sua probabile unificazione. Fishmann nella sua descrizione dei passaggi utili ad attuare il Reversing Language Shift (“inversione della deriva linguistica”, in altri termini, l’inversione del processo di cambio continuo fra una lingua che perde status e funzioni a favore di una che ne acquista sempre più a danno della prima), stabilisce come punto di partenza una chiarificazione ideologica. La politica linguistica portata avanti finora in Sardegna poggia su basi fragili, poiché la conoscenza dell’evoluzione del rapporto tra la lingua e i parlanti è pressoché nulla. Quando, nel 1998, l’Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione ha messo in atto la legge varata l’anno precedente, ha puntato direttamente ad una “elaborazione di un’ipotesi di normalizzazione ortografica della lingua sarda” e alla stesura di “un progetto di unificazione linguistica ad esclusivo uso dell’Assessorato della Pubblica Istruzione”, affidando ad una commissione di esperti di lingue un tale compito. Ma prima di arrivare a questa norma conosciuta come LSU (Limba Sarda Unificada), che è risultata poi essere un modello di lingua standard corredato di norme concernenti l’ortografia, la fonetica, la morfologia e il lessico, e prima ancora della sua diffusione, sarebbe stato più opportuno attuare l’art. 10 della legge regionale (Censimento del repertorio linguistico dei Sardi) per comprendere a fondo il livello di conoscenza del sardo e la sua diffusione nella popolazione e per avere una percezione organica anche delle opinioni dei parlanti in merito alla lingua. È dimostrato che una politica linguistica funziona solo se i parlanti della lingua che si vuole incrementare sono d’accordo ad incrementarla. Il mantenimento di una lingua, prima ancora di affidarsi ad una norma unitaria, passa attraverso la spontanea tradizione della lingua da madre a figlio e la pianificazione linguistica dovrebbe concentrarsi sul consolidamento di questo punto mirando alla collaborazione dei parlanti nel rendere interessante e facile l’uso della lingua minoritaria. Un altro punto di forza di una pianificazione positiva sarebbe lo stimolo all’intercomprensione linguistica tra i sardi che permetta a tutti di essere a conoscenza delle altre varietà presenti nel territorio e che abitui le persone ad uno sforzo nella comprensione reciproca. In questo modo, come afferma il Prof. Paulis “gli uni impareranno a vedere e a dire le cose con gli occhi e le parole degli altri e viceversa”.
Una pianificazione linguistica portatrice di risultati positivi è un’azione consapevole favorita da parlanti e istituzioni che intendono mutare i rapporti di forza esistenti fra lingue compresenti nello stesso territorio e che si pone come fine quello di rivitalizzare e modernizzare un linguaggio in difficoltà sentito come molto importante dalla comunità. A tal proposito va detto che il maggior numero di operazioni di pianificazione linguistica si pone un fine conservativo, vale a dire che la paura di perdere la propria identità di popolazione di minoranza tende a condurre ad una riappropriazione di costumi, miti e di una lingua arcaica sempre più distante dalle giovani generazioni che non sentono la necessità di parlarla. Troppo spesso poi si tende a far coincidere il sostegno alla lingua con il recupero culturale per cui si creano situazioni che proiettano la lingua solo ed esclusivamente in una realtà appartenente al passato, slegandola dalla quotidianità di coloro che dovrebbero essere invece stimolati ad utilizzarla. Valido esempio a supporto di ciò sono i diversi progetti di sperimentazione didattica che sono stati realizzati nelle scuole e che continuano a trovare largo consenso nell’ambito della valorizzazione della lingua e della cultura sarda. La scuola svolge un ruolo fondamentale nella vita linguistica di una comunità ed essa può concorrere a far nascere una profonda sensibilità nei riguardi della lingua minoritaria, ma solo nel caso in cui la lingua venga vista come mezzo, cioè come strumento normale utilizzato per veicolare informazioni utili e nuove e per insegnare le materie curriculari. Si potrebbe citare a questo riguardo il lavoro svolto dall’ ITCG di Macomer che si serve della lingua sarda nell’uso dell’insegnamento della matematica, per esempio. Esiste dunque una differenza rilevante tra lingua come mezzo e lingua come fine, usata, quest’ultima, nell’insegnamento che ha come scopo la conoscenza anziché l’uso della parlata locale e che si esprime in progetti che coinvolgono in misura preponderante usi e tradizioni locali. La scelta di questa strada potrebbe condurre ad un incremento della conoscenza della lingua ma non al suo uso reale. Inoltre il tentativo di salvare la “lingua della confidenza” o “lingua della nonna” porta con sé il rischio dell’allontanamento dei parlanti nei confronti della politica linguistica e spesso spinge anche a posizioni campanilistiche, per cui ognuno vede nella lingua della “sua” nonna l’unica via possibile al mantenimento.
In pochi casi i fini delle azioni di pianificazione sono espansivi, cioè volti a rendere disponibile agli altri la propria lingua con delle regole esplicite e riconosciute. In questo caso una lingua disponibile ad altri sarebbe una lingua di prestigio che potrebbe avere dei riscontri sulla percezione della comunità: una lingua che altri vogliono imparare è una lingua che vale la pena di parlare e tramandare. Per cui la pianificazione linguistica si presenta come operazione di apertura, di offerta e proposta della lingua e la lingua rivitalizzata non dovrà essere soltanto strumento per esprimere la cultura della comunità ma per espandersi e per partecipare alla società moderna.
Dunque anche il sardo potrebbe riuscire nell’intento di diventare lingua capace di vivere nel presente e di evolversi nel futuro pur sempre ancorata ad un passato portatore di valori positivi. Affinché ciò avvenga occorre che i sardi, prima ancora di affrontare temi impegnativi e delicati quali la standardizzazione e l’unificazione ortografica, riacquistino la stima nei confronti di quella lingua che la storia ha levato loro. E sarebbe anche opportuno che coloro ai quali viene affidato il compito di favorire la rivitalizzazione del sardo non seguissero esclusivamente la via dell’ufficialità ma anche quella di una politica linguistica chiara e corretta nel miglior interesse di chi questa lingua la parla o vorrebbe farlo.