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22/05/2005 Sèberos de imprenta - www.godotnews.it

Emiliu Lussu e sa Sardinnia de oe

de Paolo Maninchedda

Celebrare 'Sa Die de sa Sardigna' ricordando la statura e il valore di Lussu, credo debba vincolarci a discorsi politici privi di ammiccamenti emotivi, che siano seri e adeguati alla gravità della situazione che viviamo. In primo luogo dobbiamo ricordare una lezione di Lussu: quella di restare liberi anche quando si è sovrastati da un potere superiore al proprio, che esige la subordinazione, che valorizza la compiacenza ipocrita e la delazione, che umilia od esalta in modo imprevedibile e insindacabile. Questo erano i generali di Lussu, questo sono molti uomini quando esercitano un potere, piccolo o grande che sia, in Sardegna o altrove. La prima autonomia è l’educazione alla dignità propria e altrui, al diritto che limita il potere e difende la persona, le idee e la partecipazione. Di questa educazione e di questa dignità i sardi hanno estremo bisogno perché ne mancano largamente.

È troppo diffusa la vocazione al ribellismo o al leaderismo. Noi dimentichiamo che la democrazia è ciò che ci ha strappato al binomio demoniaco che ci vuole o padroni o servi; non sappiamo far crescere questi valori e vivere come si vive tra pari. L’autonomia è un vessillo sdrucito e la Sardegna ha consumato la sua innocenza politica.

Certo, mi rendo conto che la storia ha bisogno di ordine e di idee, di organizzazione e di libertà, ma ciò che intravedo anche oggi e anche in Sardegna è il prevalere di ragionamenti e proposte concentrate sull’architettura o l’ingegneria del potere, meramente descrittive della realtà nazionale e internazionale, rassegnate all’ordine del mondo all’interno del quale, con rassegnazione eccessiva, ritagliano il destino, piccolo e condizionato della Sardegna.

La politica, in questo contesto, non è il difficile equilibrio tra l’ordine necessario e la necessità della libertà del cambiamento. No, diventa l’arte di ripetere in sedicesimo ciò che è stato confermato su scala mondiale. E se è vero che non si ha l’obbligo dell’originalità e si ha anche il dovere di copiare quando questo produce un beneficio, si deve anche sapere che il conformismo culturale e politico è l’oppio dei popoli e degli stati. 

Il convegno di oggi ha un senso se dichiara di partire da un’insoddisfazione. Infatti, la consapevolezza della propria inadeguatezza di fronte alla complessità della realtà e il continuo sentimento di insoddisfazione per il proprio operare politico, soprattutto quando si è al governo, sono i presupposti psicologici e culturali perché la politica sia efficace.

La politica non deve vendere emozioni. Quando questo è successo, progressivamente hanno prevalso non la ragionevolezza delle posizioni, non le procedure di garanzia, non i diritti, ma la forza delle masse, del carisma, del trasporto collettivo, tutte cose effimere ma che producono ferite spesso tragiche nell’ordinamento democratico. Non emozioni, non sogni, non la terra promessa, ma soluzioni. L’autonomia deve diventare un sistema di soluzioni.

Un primo obiettivo deve essere l’inversione della struttura profonda dei rapporti economici e di potere che caratterizza la Sardegna ormai da secoli. Le aree interne sono subordinate in tutto alle aree urbane. I mercati urbani, la forza commerciale delle città, subordinano il resto del territorio in tutti i settori: servizi, credito, formazione, infrastrutture e, ovviamente, potere e quindi risorse pubbliche investite. Niente in Sardegna è duraturo che non divenga capillare. Una dimensione esclusivamente macro, nell’isola, deforma la lettura della realtà. 

La Sardegna non sarà mai unita se le sue strategie assumono le città come parametro esclusivo di valore e di efficacia. Già oggi, i confini tra le diverse forze politiche e tra maggioranza e opposizione, scricchiolano dinanzi all’esigenza di affermare profondi bisogni territoriali, soprattutto in luoghi, come il Nuorese, dove la saldatura delle emergenze nel settore della chimica e del tessile con la crisi dell’agricoltura, sta producendo un clima da scontro sociale la cui portata a me appare in questo momento sottovalutata. La crisi dell’agricoltura richiede un’azione straordinaria che non è solo finanziaria ed economica, ma antropologica e sociale. Parlare di pastorizia, in Sardegna, significa parlare non banalmente di un settore economico, ma di società e territorio. Oggi la campagna sarda è più povera e più violenta di ieri, ma ancora non fa notizia, perché le rapine hanno minore impatto dei sequestri, perché i furti sono quasi depenalizzati, perché gli abbandoni delle campagne sono meno visibili della cassa integrazione.

Non c’è trasferimento di funzioni che tenga, non c’è Por riformato che tenga; per modificare questa dipendenza bisogna cambiare l’interpretazione della Sardegna e modificare radicalmente la struttura del bilancio regionale. Il bilancio deve essere territorializzato. Il potere deve essere ridistribuito secondo una concezione solidaristica e pattizia, che consenta alle comunità non di chiedere, ma di partecipare. Non c’è autonomia credibile in un contesto di subordinazione e di gerarchia ingiusta quale quello in cui viviamo. La prossima discussione delle proposte di legge sulla forma di governo e sulla legge elettorale sarà la prima sede in cui far valere questi discorsi.

Per cambiare c’è bisogno del potere necessario per farlo. Il luogo della ridefinizione dei poteri che ci spettano e che ci servono è lo statuto. Abbiamo fatto un errore, all’inizio di questa legislatura: ci siamo ancora concentrati sul 'come' piuttosto che sul 'cosa'. Consulta, forme della Consulta, Assemblea costituente deliberante o consultiva, e quant’altro. Io proporrò agli altri firmatari di ritirare la proposta di legge sulla Consulta, e di procedere, nelle forme ordinarie, ad elaborare una bozza avanzata di statuto. Niente vieta che dopo si sottoponga questa bozza a forme molto ampie di consultazione e di emendazione, ma almeno si parlerà di merito e non solo di metodo, senza per questo ferire l’ordinamento democratico.
Nel merito: ribadisco alcune idee già espresse altrove. Occorre rivendicare per le istituzioni dell’autogoverno (regione e sistema delle autonomie locali) il massimo possibile dei poteri statuali. Bisogna sancire che nel nostro territorio la Repubblica e l’Unione Europea agiscono in via generale attraverso i poteri riconosciuti alle istituzioni regionali e locali. Bisogna sviluppare ciò che è sancito dall’articolo 158 del Trattato di Amsterdam sull’insularità e rivendicare e applicare il principio di coesione territoriale.

Sul versante dei diritti civili: bisogna entrare nell’ordine di idee di rendere effettivi i diritti già garantiti dalla Costituzione, ed effettiva la tutela di quelli legati alla specialità. Per esempio se i sardi vengono riconosciuti come titolari di un patrimonio storico, culturale e linguistico particolare, si deve ottenere dallo stato il diritto di coltivare e promuovere questa cultura in condizioni di parità con la cultura italiana e con le culture europee. Se ai sardi viene riconosciuto di godere di diritti speciali perché abitanti di un’isola, allora devono essere messi nelle condizioni di poter esplicare i loro lavoro prioritariamente nell’Isola, con pari opportunità di comunicazione e mobilità col resto dell’Europa.
Sul versante dei diritti economici ribadisco la improrogabile necessità di affermare il principio di coesione interna e della perequazione tra territori.

Tuttavia, sul versante economico, si deve lavorare su strategie autonomistiche piuttosto che su aspetti statutari. E anche in questo caso il passato deve insegnarci qualcosa. Se il nostro obiettivo è produrre ricchezza, mantenerla in Sardegna e fare in modo che si distribuisca nel modo migliore possibile, occorre che ripensiamo il passato, remoto e recente.
Le politiche di incentivazione hanno prodotto redditi ma non hanno favorito processi di capitalizzazione.

L’assenza di capitali sardi veri è la nostra prima dipendenza. Gli unici imprenditori che in questi anni sono cresciuti, sono i costruttori e i commercianti, gli uni e gli altri con un atteggiamento di grande diffidenza verso il mercato, a tal punto da concepire, il più delle volte, l’impresa come un’occasione per realizzare ricchezza da trasformare in rendita nel più breve tempo possibile.

Imprese cronicamente piccole e parcellizzate, sistema industriale tragicamente in crisi, sistema formativo fortemente carente, specie in periferia. In questo scenario il ruolo della Regione non può essere solo quello di chi mette le risorse e coordina ed esamina le proposte imprenditoriali. Il lavoro dei riformisti, e noi abbiamo l’ambizione di esserlo, si differenzia da quello dei rivoluzionari perché, individuato un obiettivo, è capace di raggiungerlo gestendo la transizione. Gestire la transizione, per noi, significa gestire stipendi generati sì da una logica assistenziale, ma pur sempre unica fonte di reddito di molte famiglie. Se il costo della trasformazione che vogliamo, ricadesse de facto su fasce sociali fragili, avremmo tradito non solo il mandato elettorale, ma i fondamenti morali del nostro impegno politico, e io non intendo farlo.

Ci vuole un progetto finanziario ed economico di ampio respiro, con un ruolo attivo della Regione; non basta la dottrina e la pratica dello sviluppo locale e del rilancio del turismo sostenibile, occorre uno sforzo ulteriore che mantenga il lavoro che c’è in attesa di un sistema più virtuoso. Sto dicendo che non avrei paura a restituire un ruolo attivo della Regione nel fare impresa e nel produrre lavoro, purché avvenga con opportuni controlli di efficienza e di efficacia. 

Come pure sto dicendo che, sebbene io censuri il sindacalismo totalizzante che attribuisce erroneamente al sindacato una sorta di diritto di veto su qualsiasi questione, al tempo stesso è urgente che sulle questioni importanti il dialogo e l’accordo con i sindacati esca dall’impasse in cui è precipitato. Se i sindacati sardi hanno una piccola storia, quella della Confindustria locale è piccolissima ed è veramente un capolavoro di assistenzialismo e di inadeguata contiguità col potere. Noi non possiamo gestire la transizione dal sistema della dipendenza a quello dell’autonomia senza un accordo serio con i sindacati e, dirò di più, senza un accordo alto e visibile, istituzionale, con l’opposizione. E bisogna farlo in fretta.


Paolo Maninchedda 


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A segus