11/05/2005 Sèberos de imprenta / La Nuova de su 29.04.2005
Lilliu pedit unu referendum?
de Giovanna Cerina
Giovanni Lilliu e Giovanna Cerina a confronto sulla limba
Venerdi 29 Aprile 2005 ore 11:08:33
"La Nuova Sardegna" del 29 aprile 2005.
L'intervento del presidente Soru in chiusura dei lavori del Premio
Ozieri, ha aperto un dibattito sulle problematiche linguistiche. Il suo
discorso a molti è parso di grande apertura e di una forte convinzione nel
rilanciare la lingua sarda come patrimonio irrinunciabile e insieme occasione
di incontro, di dialogo, di crescita culturale e di relazione; in altri invece
ha provocato reazioni, che riprendono vecchie polemiche che si trascinano nel
tempo senza mai giungere a una soluzione condivisa. La vecchia querelle
riguarda la scelta di una delle varietà linguistiche diffuse nell'isola,
contrapposte a una lingua unificata, costruita a tavolino, o alla lingua di
mesania.
Sulle prospettive aperte dal presidente Soru abbiamo sentito il parere
del professor Giovanni Lilliu, un "pioniere" - come lui stesso si definisce -
che ha dedicato alla ricerca e alla valorizzazione della cultura e della
lingua sarda la sua intelligenza e le sue energie.
Professor Lilliu sono noti il suo interesse e il suo impegno per la
tutela della lingua. Le dichiarazioni di Renato Soru in occasione del Premio
Ozieri sollecitano un dibattito costruttivo e parallelamente una ripresa più
intensa e partecipata dell'uso del sardo da parte di tutti e in tutte le
varianti presenti nell'isola. Secondo lei è questa la direzione giusta perché
i sardi possano liberamente riappropriarsi della loro lingua materna, sa limba
de domo e de sa bidda, della quotidianità, dell'amicizia, della confidenza?
«Il Presidente Soru ha fatto molto bene ad andare ad Ozieri e a fare la
sua relazione. La Regione si è portata così al di fuori della sua sede
cagliaritana, è andata fra la gente e sarebbe utile che lo facesse anche in
altre occasioni e in altre sedi. Condivido la necessità di aprire un dibattito
intorno alla questione della lingua perché è giunto il momento di placare la
diatriba sul sardo e mettere ordine. Se alcuni pensano alla mesania, altri che
si debba utilizzare una delle parlate, io invece - con altri studiosi e come
Renato Soru - pongo l'accento sulla priorità e urgenza che tutti i sardi
tornino a parlare la loro lingua, che ognuno parli il sardo del proprio paese
o della propria città. Il Presidente ha invitato inoltre noi tutti a
utilizzare il sardo nella comunicazione quotidiana, ciascuno facendo uso della
propria variante. Credo che il confronto e lo scambio linguistico tra i
parlanti costituisca forse l'unica possibilità di giungere alla codificazione
di una lingua ufficiale, della cui necessità per l'avvenire io sono pienamente
convinto. Ritengo sia necessario quindi avviare lo scambio tra le singole
parlate in modo che esse stesse inizino a unificarsi, a fondersi. Questa a mio
avviso è la priorità».
Riprendere a parlare il sardo coi familiari, coi nonni in particolare -
che sono ancora depositari di un sapere che abbiamo forse trascurato - con gli
amici, è considerato da alcuni come un atteggiamento regressivo, chiuso, da
"intellettuali rustici"; altri invece pensano che sia un tramite e
un'esperienza per comprendere meglio noi stessi, le nostre stratificazioni
culturali e linguistiche. Qual è il suo parere?
«Non sono d'accordo con chi sostiene che riprendere a parlare il sardo
sia un passo indietro rispetto all'italiano, utilizzata ormai dalla stragrande
maggioranza degli isolani per comunicare. Io sono un sardofono, nasco con la
lingua di mio nonno, a scuola ho imparato l'italiano e sono diventato
bilingue. Riprendere a parlare il sardo significa anche comprendere meglio il
contesto culturale del nostro paese, del nostro paesaggio, dei nostri
monumenti perché sono un'espressione di una storia e di una cultura che era
dei sardi. Bisogna stare attenti all'identità e quindi anche alla diversità
perché costituisce una ricchezza che deve essere preservata, valorizzata, e
infine deve essere fruibile dal mondo».
Il ritorno alla lingua sarda anche a scuola, nelle materne e elementari,
non può che inserirsi in un contesto di educazione plurilingue, in cui i
bambini possano apprendere contemporaneamente sardo, italiano, inglese e,
auspicabilmente, altre lingue di cultura. Gran parte dei sardi è come lei
bilingue. La realtà linguistica regionale è tuttavia più complessa: se nella
comunicazione e nella scrittura domina l'italiano, siamo contemporaneamente
sollecitati a confrontarci col mondo, con altre lingue e culture. Quanto ha
influito il suo bilinguismo sardo-italiano per entrare in contatto con altre
culture e altre lingue?
«L'essere bilingue mi ha aiutato ad aprirmi alla comunicazione con il
mondo e con l'Europa e per questo successivamente ho appreso altre lingue come
il tedesco e il francese. Anche se ritengo che il sardo debba essere una
lingua di comunicazione tra noi - tra gli isolani e tutti gli altri sardi che
vivono nel mondo - la nostra condizione di bilingui ci abitua fin
dall'infanzia ad avere a che fare con più lingue e questo facilita il nostro
apprendimento delle lingue straniere. Mio nipote parla un po' il sardo e
contemporaneamente comincia a conoscere l'inglese grazie alla scuola».
Le amministrazioni locali sono invitate a redigere i propri atti
ufficiali nella variante linguistica dei singoli paesi e città e si prospetta
inoltre la scelta di una lingua mediana comprensibile a tutti per atti
amministrativi regionali solo in uscita. Qual è il suo parere in proposito?
«Il presidente Soru propone che una prassi già adottata da alcuni paesi
- quella di stendere gli atti amministrativi e burocratici nella propria
varietà di sardo - venga adottata da tutte le amministrazioni comunali e
provinciali dell'isola. Su questo io sono d'accordo perché la legge lo
consente. Personalmente una lingua unificata e imposta - come quella
codificata in alcune proposte che ho avuto modo di esaminare - non la
accetterei o almeno la sottoporrei al giudizio di un referendum popolare.
D'altra parte io vorrei anche distinguere il sardo comunemente parlato dal
codice, ancora da elaborare, che ritengo dovrebbe essere usato all'interno
della Regione e dei suoi uffici, un codice solo in uscita, di tipo
burocratico».
Risponde alla linee programmatiche della coalizione di centro-sinistra,
la nomina di una commissione tecnico-scientifica, che non ha compiti
decisionali ma quello di individuare una serie di parametri sulla base dei
quali effettuare un'indagine volta «ad acquisire dati, sulla percezione, sugli
atteggiamenti e sull'uso del sardo e delle altre varietà tutelate». Grazie ai
risultati di quest'analisi credo che le decisioni future meglio risponderanno
ai bisogni, all'esigenze e alle attese di tutta la comunità. Non le pare che
su queste basi si possa avviare ed assecondare un processo linguistico -
integrato in un progetto di sviluppo culturale complessivo - accettato da
tutti senza imposizioni o forzature?
«Queste erano proposte che anche io avevo fatto all'Osservatorio intorno
al 1997, ma che non erano state tenute in nessun conto. In particolare, avevo
avanzato l'ipotesi di un censimento regionale volto ad acquisire dati relativi
al numero delle persone che capiscono la lingua, al numero complessivo di
quelli che la parlano, distinti per varietà - comprese il tabarchino di
Carloforte, il gallurese, che è assai simile al corso, e il catalano di
Alghero. La Sardegna è oggi un'isola plurilingue e tutte queste lingue devono
essere preservate perché testimoniano una storia e sono fonte di ricchezza per
la nostra cultura».
Una realtà culturale complessa e in continua evoluzione deve essere
capace di sfruttare per il suo sviluppo le risorse di nuove tecnologie. Va in
questa direzione la scelta della Regione di destinare un canale digitale
televisivo alla elaborazione e divulgazione - anche in limba - delle nostre
tradizioni e potenzialità culturali. Come valuta questa nuova prospettiva?
«La politica linguistica e culturale deve seguire una nuova strada,
aprendosi alle contaminazioni e alla innovazione. L'innovazione, la tecnologia
è un mezzo che deve essere sfruttato per dare più slancio alle nostre risorse
linguistiche e culturali. Da questo punto di vista la proposta di Renato Soru
mi trova pienamente d'accordo. La comunità sarda, analogamente a quanto
avviene in Catalogna, deve avere una sua emittente televisiva indipendente che
si occupi di diffusione della cultura, e che sia slegata dal mondo della
politica».
Il rapporto tra lingua e identità, tema a lei caro, viene rilanciato
nella prospettiva che si sta delineando?
«Il presidente Soru ha formulato una proposta linguistica aperta
largamente accettabile dai sardi, ma non da tutti perché ci sono quelli che
non hanno un'autocoscienza di essere sardi o che se ne vergognano. La lingua,
o meglio le lingue sono da questo punto di vista un mezzo di autocoscienza,
che consente di riappropriarsi delle proprie radici. Per quello che mi pare di
aver capito, la proposta di Soru va nella direzione di una grande apertura che
mira a collocare la Sardegna nel mondo, l'identità nella pluralità senza alcun
tipo di gerarchia ma ponendo tutti su un piano paritario».
Questa proposta linguistica sembra raccogliere l'eredità di un lungo
dibattito e di atti politici importanti che l'hanno vista tra i protagonisti.
«In questo campo sono un pioniere e mi fa piacere che il Presidente Soru
mi abbia in alcune occasioni riconosciuto questo ruolo. In una delibera del
1971, della Facoltà di Lettere e Filosofia, noi chiedemmo due cose: che si
usasse la lingua sarda in tutte le scuole della Sardegna, e in secondo luogo
che fosse riconosciuta l'autonomia della nostra isola, che la Sardegna
diventasse una nazione a tutti gli effetti. Da questo e grazie al lavoro dei
movimenti autonomisti di allora è nata la legge 26. Già allora alcuni di noi
pensavano all'ipotesi federalista, a una Sardegna federata, intesa come una
piccola nazione all'interno dell'Italia. Per fare questo bisogna rilanciare
l'autonomia, è necessaria un'autonomia avanzata. Anche lo Statuto deve essere
arricchito di nuove competenze, in materia ambientale, di gestione e
salvaguardia dei beni culturali etc. Fino ad oggi non si è riusciti ad avere
in questi settori l'autonomia di altre regioni a statuto speciale come la
Sicilia e credo che sia un punto su cui aprire una seria vertenza politica».
Con quali strumenti e azioni politiche pensa che sia utile intervenire
per realizzare un progetto di sviluppo culturale complessivo?
«Io sono d'accordo sul fatto che debba essere studiato un sistema di
incentivi per promuovere la lingua sarda, affinché si parli e si diffonda la
nostra lingua e la nostra cultura in Sardegna e nel mondo. In questo quadro è
importante però che non ci siano né forzature, né imposizioni, né
incomprensioni e litigi. L'imposizione è inaccettabile perché questo avviene
solo in un dominio, noi siamo una comunità e per questo le scelte devono
essere formulate nelle sedi politiche e l'ideale sarebbe poi di sottoporle al
giudizio popolare attraverso un referendum. Già la legge 26 comunque ha aperto
la strada affinché si incominci a parlare il sardo fin dalle scuole materne e
elementari. Anche se è importante che il sardo lo si parli in famiglia, ed è
fondamentale il ruolo dei nonni, custodi di un sapere antico che ormai si sta
perdendo. I miei nonni mi hanno trasmesso le loro conoscenze e la loro
sapienza. I miei ricordi d'infanzia sono fatti di ciò che ho visto fare dai
nonni e di quello che mi hanno insegnato a fare - dal lavoro nei campi alla
lavorazione del pane. Molti nelle città hanno sbagliato e continuano a
sbagliare nel cancellare le tracce del passato. È stato ed è un errore ad
esempio quello di eliminare i portoni antichi delle case campidanesi, le
insegne di alcuni negozi perché si tratta di memorie viventi che mostrano a
chi le osserva la successione storica, il passaggio del tempo. Tutto questo
vale ovviamente anche per il cibo ed i costumi. Bisogna ovviamente evitare
però che il turismo diventi "di plastica", inventato. Cioè bisogna promuovere
e tutelare ciò che effettivamente è stato e basta, senza creare miti o
leggende artificiali».
La Sardegna in questi ultimi anni vive una stagione culturale
particolarmente felice, cinema, letteratura, musica e arti visivi sono in
grande fermento. Secondo lei c'è anche un interesse e una passione per il
nostro patrimonio culturale, anche nei suoi aspetti folclorici?
«Mi pare che negli ultimi anni ci sia un ritorno alla tradizione, un
riavvicinamento alle proprie radici soprattutto attraverso la musica, il
ballo, il canto. Queste attività vanno preservate perché testimoniano il
contesto culturale in cui siamo inseriti e consentono di promuovere la lingua.
Ho l'impressione che attraverso la nostra lotta degli anni Settanta i sardi si
siano riappropriati di molte tradizioni e che la situazione sia gradualmente
migliorata. L'esempio di questo presidente che parla il sardo, e che lo ha
fatto anche ad Ozieri, molto sensibile nei confronti della nostra
particolarità culturale, penso sia un incentivo all'attivarsi di questo
processo culturale. Lo sostengo ma lo invito a parlare in lingua anche
altrove, in altri contesti, ad essere ancora più presente fra la gente».
A commento di questa conversazione con professor Lilliu, che ci esorta a
sfruttare le risorse della nostra e di altre lingue, mettendoci
contemporaneamente in guardia dal rischio di cadere ancora una volta in annose
e inconcludenti dispute, ricorriamo all'autorevolezza del grande semiologo
russo Jurij Michailovic Lotman, fondatore della Scuola di Tartu, e alla
sapienza di un detto popolare.
Per Lotman è «necessario non solo aumentare le quantità di comunicazione
nelle lingue esistenti, ma anche aumentare continuamente la quantità di lingue
in cui si possono tradurre i torrenti di informazione, rendendoli dominio
degli uomini. L'umanità ha bisogno di un mezzo più solido per conservare
l'informazione, di quanto non lo sia l'aumento fino all'infinito delle
comunicazioni in una lingua sola».
Il detto popolare, che piace a professor Ciusa-Romagna, così ci
ammonisce: «Poleddu chi molet, non fachet caminu!»... anche perché di
strada da fare ce n'è ancora molta.
Giovanna Cerina