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24/05/2005 Sèberos de imprenta La Nuova Sardegna 20 maiuo 2005

Sole: sa cummissione fatat in presse 

La Nuova Sardegna 20 maggio 2005 

SOCIETA’ E CULTURA

“NON SI PARLA SOTTOVETRO: EVITIAMO PER LA LIMBA STANDARD FATTI A TAVOLINO”
di Leonardo Sole

Sulla lingua sarda si è ormai detto di tutto e più di tutto. Un aspetto ricorrente è la tendenza a considerare il problema della lingua in termini esclusivamente linguistici: cosa che non può. non condurre fuori strada. Non è infatti necessario richiamarsi a Saussure per ricordare che la lingua è
una fetta di società. A maggior ragione quando la lingua di cui si parla è una lingua socialmente emarginata o, come si suoi dire, minoritaria. Il che non vuoi dire che quella lingua sia in qualche modo «inferiore» a qualunque altra, ma semplice mente che, per ragioni sociali, culturali e politiche, nonché per il rapido mutamento del complesso di codici che va sotto il nome di linguaggio, non viene più usata in tutti gli ambiti e situazioni, ma solo in alcuni.
Questo a causa di un fenomeno non linguistico, ma sociolinguistico, che si Chiama diglossia. Se, per esempio, le lingue in gioco sono due, facciamo l'italiano e il sardo, una delle due viene usata in
tutte le situazioni, l'altra costretta, per la pressione diglottica, ad ambiti sempre meno ufficiali e sempre più ristretti, e a un ventaglio di argomenti sempre più limitati e privati: non a scuola,
non in televisione, non col professore o con l'avvocato, ma solo con gli amici, per parlare di sport e via limitando Col Tempo, quella lingua non solo continuerà a restringere progressivamente le sue funzioni o usi sociali, ma comincerà anche a impoverirsi nelle sue stesse strutture: la fonetica, il lessico (sempre più infarcito di termini tolti dalla lingua dominante), e alla fine la stessa grammatica.
Per quanto riguarda il sardo, il processo di degradazione delle strutture non è ancora molto evidente, mentre quello di ulteriore e rapidissima emarginazione dagli usi sociali è molto avanzato. 
Sotto questo aspetto desta non poche preoccupazioni una singolare dimenticanza, quasi un lapsus freudiano, da parte di non pochi di coloro che si interessano del problema. Si dimentica che la
dinamica delle lingue è determinata dagli usi sociali e dal mercato. Non si parla sotto vetro. Il codice lingua si inscrive in cornici più ampie, vale a dire in altri codici (sociali, culturali, ecc.), insomma in un determinato contesto di comunicazione sociale che mi piace definire “habitat segnico”, dal momento che si tratta di un ecosistema.
Quando uno parlai infatti, produce significati con le parole; ma è anche vero che su quelle parole piovono altri significati dalla situazione, dai cosiddetti giochi linguistici e forme di vita (Wittgenstein) o orizzonte di sapere che dir si voglia (Habermas).
E allora? Allora — come mi è capitato di dire tante altre volte — occorre agire, oltre che sulla lingua, sul sistema politico, sociale e culturale relativo a quella lingua. Come dire che, se davvero si vuole salvare il sardo, occorre predisporre nuovi percorsi comunicativi, aprire nuovi ambiti d'uso
che rendano utili e produttivi anche sul piano pratico quei percorsi, che restituiscano dignità e respiro sociale al sardo, che siano produttivi anche in termini economici: in una parola, che diano prestigio alla lingua e chi la parla. Insomma, qualcosa che somiglia a una vera e chi la parla. Insomma qualcosa che somiglia a una vera e propria rivoluzione politica, economica e sociale.
propria rivoluzione politica, economica e sociale.
È chiaro che se resta in piedi il sistema di variabili sociali, politiche e culturali che conosciamo, il destino del sardo è segnato. Ma poi che le previsioni in campo sociale si sono sempre rivelate sbagliate, credo che sia più produttivo non stracciarsi le vesti e darsi da fare per rivitalizzare la lingua restituendola a tutti gli usi sociali: che sarebbe anche il modo migliore, per la lingua e per i sardi, di ritrovare dignità e prestigio.
Ma' abbiamo perso troppo tempo, e la situazione è diventata critica. Qualche dato serve a capire meglio.
In questo contesto, è utile richiamare l’impegno del Presidente Soru (su queste pagine) per una ricerca sociolinguistica di ampio respiro. Cosa utilissima, che però non deve necessariamente precedere gli interventi a favore della lingua, che hanno ormai carattere di estrema urgenza.
A questo punto mi sento autorizzato a ricordare che un discorso di questo genere 8non sistematico come quello annunciato) è stato già fatto a suo tempo.
Mi riferisco in particolare a una ricerca sociolinguistica fatta in tutte le classi di tutte le elementari e di tre scuole medie della provincia di Oristano negli anni 1981 e 1986, con una inchiesta di verifìca nel 1988. Questa ricerca, condotta da chi scrive con l'aiuto (prezioso) delle autorità scolastiche, di tutti gli insegnanti e di tutti gli studenti, era a sua volta collegata a un corso biennale post-universitario per ricercatori sociolinguisti organizzato dall'università di Sassari e da me diretto nel biennio 1982-83 e 1983-84.
Al corso parteciparono docenti di chiara fama come Carlo Alberto Mastrelli, Corrado Grassi, Renzo Titone, Michel Contini, Giuseppe Francescato, Giovanni Freddi, Tullio Telmon, Massimo
Pittau, e altri.
Qualcuno suggerì allora che la Regione avrebbe avuto bisogno non di quindici o venti, ma di cento ricercatori sociolinguisti. La verità è che, alla fine del biennio, nessuno di quei ricercatori venne mai chiamato a esercitare le sue funzioni di ricercatore dalla Regione, ne da altri enti o strutture.
Una specializzazione non solo necessaria, ma preziosa, inutilmente sprecata.
In quanto alla ricerca sociolinguistica, mi permetto di riassumere brevemente alcuni dati, che già allora, proiettati nell'immediato futuro, apparivano drammatici.
Gli alunni che parteciparono all'inchiesta in questione furono 5.998. Mi limiterò a riportare, senza commento, alcuni dati, rimandando per il resto al mio «Lingua e cultura in Sardegna. La situazione sociolinguistica», Milano, Unicopli 1988.
Domanda: «Che lingua parla tuo padre?». Risposta degli alunni: sardo (1'85% nel 1981 e il 55,8% nel 1986) e italiano (il 13,2% nel 1981 e il 43,3% nel 1986).
Le percentuali calano di poco per la madre: sardo (1'82% nel 1981 e il 51% nel 1986) e italiano (il 16,3% nel nel 1981 e il 47% nel 1986).
«Tu che lingua parli?». La risposta è: sardo (47% nel 1981 e 12,5% nel 1986, con un calo sensibilissimo nel breve spazio di cinque anni) e italiano (51,7% nel 1981 e 87,5% nel 1986).
I genitori tra di loro alternavano le due lingue, sarda e italiana (solo sardo il 51,8% nel 1981 e il 23% nel 1986). Ma si rivolgevano ai figli preferibilmente in italiano o in italiano e sardo. Usavano solo il sardo coi figli nelle seguenti percentuali: 18,9% nel 1981 e 4,8% nel 1986. Il sardo a scuola era praticamente assente (se si eccettuano le poesie, i canti e le fiabe). Gli insegnanti, comunque, tendevano a usare solo l'italiano. Ma i ragazzi avrebbero voluto parlare il sardo a scuola nelle seguenti percentuali: il 68,9% nel 1981 e il 78.8% nel 1986.
A loro volta gli stessi alunni, avendo figli, avrebbero desiderato che parlassero in sardo (9,5% nel 1981 e 1,9% nel 1986), in italiano (31,4% nel 1981 e 22% nel 1986) e in italiano e sardo (53,8% nel
1981 e 60,6% nel 1986).
Alla domanda «Ti pare che il sardo sia una bella lingua?» la stragrande maggioranza dei ragazzi risponde sì (1'82,3% nel 1981 e il 76,9% nel 1986).
Sono dati che fanno riflettere. La competenza e l'uso del sardo calano ancora, sensibilmente, nella verifica (parziale) condotta nel 1988.
Oggi la situazione appare in buona parte compromessa. Che dire dello standard?
C'è infine un altro punto sul quale bisognerebbe far chiarezza. Si tratta della curiosa contrapposizione tra la (possibile, ma allo stato attuale improbabile) elaborazione
di una lingua unificata e le varietà locali.
C'è addirittura chi crede che il cosiddetto standard significhi la cancellazione delle varietà locali. Ma chi l'ha detto? I due aspetti vanno posti su piani differenti. Si dimentica che solo da poco
tempo (e in pochi) gli italiani parlano davvero l'italiano standard. Tutti vogliono salvare il loro dialetto (e chi lo impedisce?), ma pochi si rendono conto che proprio questo atteggiamento (frutto di attaccamento viscerale e non di riflessione) impedisce di vedere il problema nei suoi giusti termini. E così contribuiscono ad affossare sia la lingua che i dialetti.
Non vorrei però insistere sulla questione, oscurata dai pregiudizi e dagli equivoci, del cosiddetto standard. Posso solo ripetere ciò che a suo tempo ho detto in altra sede. 
Uno standard non si fa a tavolino, e se si fa a tavolino, si fa non solo coi linguisti, ma anche col sociolinguista, l'antropologo, il sociologo, gli specialisti delle diverse forme di comunicazione
(comprese quelle via Interne!), ecc., ciascuno col proprio livello di competenza. E non si fa d'autorità, imponendola dall'alto. Si fa con una proposta motivata e fortemente documentata (sull'analisi sistematica dei testi dell'oralità e della scrittura, che costituiscono un immenso patrimonio di cultura del popolo sardo), e si presenta la proposta alla gente, che può approvare o no. Se non approva, si fa una seconda proposta, poi una terza, ecc., sempre tenendo conto dei suggerimenti critici della gente, finché i parlanti (il popolo sardo), non la fanno propria.
Ci vorrà tempo? Molto, ma forse meno del tempo sprecato coi sì e coi ma.
Il vero problema, comunque, non è questo. Il problema è se, fatto lo standard, ci saranno ancora i parlanti.


A segus