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26/07/2005 Sèberos de sa Retza - www.sassarisera.org

Cultura, polìtica, identidade

de Micheli Pinna


CULTURA, POLITICA, IDENTITA'

Autore: Michele Pinna - lunedì 18 luglio 2005


Cultura, politica, identità. Tre parole talvolta fraintese, malintese, spesso affatto non intese. Eppure tutti, ormai, dal consigliere comunale del più piccolo comune della Sardegna, al presidente della Giunta regionale, le usano. In una seduta istituzionale per l’approvazione di un bilancio, nell’inaugurazione di un evento mondano, in un convegno sulle pari opportunità. Usano ed ab-usano tre lemmi, come nell’abbigliamento maschile, dinanzi all’accostamento tra cravatta, giacca e calzini, per denotare lo stile, il gusto e l’intelligenza cromatica (ciascuno ha la sua) di chi li indossa. 
Martin Heidegger ci avrebbe rimproverato aspramente per questo parallelismo impertinente tra parole e accostamenti di vestiario. Le parole per il filosofo tedesco, infatti, non s’indossano e non si accostano sulla base di una sensibilità visivo-percettiva ma si abitano. La sensibilità percettiva del vestire è diversa dalla sensibilità, e,dunque, potremmo dire, dalla dimensione estetica dell’abitare. Abitare le parole, come abitare un luogo, una casa, uno spazio, assume il significato di una adesione profonda, intima, ai significati che l’esperienza umana, nei suoi passaggi temporali conferisce loro. Nell’estetica dell’abitare c’è un investimento affettivo, emozionale che coinvolge il vissuto delle persone, degli individui, in maniera differente rispetto agli accostamenti cromatici che riguardano giacca, cravatta calzini, o sul versante femminile, scarpe, borse, foulard.
Tra le due dimensioni: quella del vestire e quella dell’abitare, preferisco la seconda. Usare le parole in una dimensione abitativa, implica un esercizio dubitativo e meditativo, nonchè esperienziale, più rigoroso, più attento alle profondità nascoste di quanto non sia richiesto dagli accostamenti cromatici che, benché non privi di una loro sapienza, hanno come obiettivo principale le risultanze dell’apparire. 
La parola abitata è parola sentita, vissuta, in certa misura sofferta. E ne soffriamo quando, ad esempio, nel confronto tra le parole e le cose, tra le parole ed i fatti, ci rendiamo conto che non vi è alcuna convergenza. Nomina sunt consequentia rerum, le parole seguono le cose, i fatti, sostenevano i logoci medievali. La linguistica contemporanea, a nome di un Roland Barthes, ci consegna l’immagine di un mondo capovolto: curiosamente le parole spesso non rappresentano più le cose, sono autoreferfenziali, come dire, parlano di se stesse. 
Prendiamo ad esempio la parola “cultura”. Quali sono le cose, i fatti che consegniamo a questa parola per rappresentarli. Talvolta, molto spesso, non ve ne sono. Non vi sono cose e non vi sono fatti. A meno che non s’intendano tali i cumuli di degrado e di macerie, in senso metaforico e realistico che pervadono la nostra epoca. Nelle città come nei paesi. Il rapporto con la natura e con il sacro che per la cultura occidentale ha costituito l’asse portante delle sue ragioni fondative, oggi la parola “cultura” dovrebbe cercarlo nelle discariche, nelle dinamiche e nelle politiche dello smaltimento dei rifiuti, negli affidamenti del servizio di nettezza urbana ad imprese serie che soddisfino il desiderio dei cittadini di una città pulita, di una città ordinata.
Curiosamente ma molto realisticamente, in senso medievale, (che belle civiltà quella medievale! Altro che oscurantista, quando le parole, davvero si occupavano di cose) quando usiamo la parola “cultura” dovremo pensare seriamente a queste cose. Per esempio ai servizi della SIINOS rispetto al funzionamento della rete idrica e fognaria della nostra città. Ai cittadini che si lamentano perché le piogge intasano i tombini e l’acqua tracima allagando i garages, e le case a piano strada.
Le associazioni culturali, i gruppi di teatro e di spettacolo che operano a Sassari ma in Sardegna, gli intellettuali, la scuola e l’Università, dovrebbero lavorare in questa direzione. Fare in modo che le parole si radichino nuovamente nelle cose, nel quotidiano, contribuiscano con la loro azione e con il loro impegno a prospettare soluzioni. La musica dovrebbe imparare a rappresentarne i suoni, gli odori, i sapori, le arti visive i colori, il teatro, come nella Grecia antica a ri-creare la coscienza tragica e la consapevolezza terrena degli uomini che vivono non in un mondo generico, globale, in un non-mondo, ma in un mondo vero, fatto di cose e di fatti, di sapori, di odori, di colori. Qui ed ora, che s’incammina alla ri-scoperta del sacro, del divino, così come qui ed ora, oggi, nel nostro tempo, nella nostra città può essere riscoperto e ri-ra-ppresentato. 
E’ in questo percorso, da inaugurare, che la cultura dovrebbe incontrare la città, la polis, e quindi, in certo qual modo dovrebbe anche rifondare la politica. Quella politica che ha perso i contatti con la polis con i cittadini, e che non li rappresenta più, di cui, oggi, siamo insieme protagonisti e vittime. Mi rendo conto che non è facile, né semplice. E’ come riparare le falle di una nave che sta per naufragare senza interrompere la navigazione, si potrebbe dire parafrasando la metafora di un filosofo del Novecento che tentava di spiegare alcuni paradossi della logica.
La riconfigurazione di un progetto identitario, oggi non può che partire da cui. Da ciò che nei luoghi in cui ciascuno opera è in grado di dire nel fare. Molti sostengono, ancora, che la lingua sarda non è in grado di dire tutto ciò che dovremo dire oggi. Che con la lingua sarda non si entra in Europa, non si possono affrontare i problemi e le questioni poste dalla civiltà industriale e tecnologica. Bene, a parte il fatto che la lingua sarda ha più parole di quanto, purtroppo, molti non sappiano, ma la cosa più importante è che la lingua sarda è una lingua che parla di fatti, di cose. Nel suo vocabolario la parole non ci sono quando non ci sono fatti che le sostengono. Le lingue dei contadini, dei pastori e degli artigiani erano fatte così. Le parole venivano sempre dopo i fatti. Bisogna re-imparare quest’arte. E noi potremo impararla proprio dalla lingua dei nostri padri.
Og’uno di noi, prima di tutto deve fare e poi dire. Dovremo imparare ad abitare questa dimensione antica che il nostro tempo sembra avere smarrito.
Le ultime elezioni amministrative ci hanno consegnato una difficile scommessa. Una scommessa che potrà, se le giunte di centro sinistra sardista riusciranno a vincerla, ridefinire i nuovi termini e le nuove parole dell’identità a partire dai fatti, però, e non dalle parole.
Al primo posto nell’agenda dovrà stare il recupero del patrimonio abitativo urbano, dei centri storici con relativa conservazione e tutela della specificità locale, unitamente ad una rifunzionalizzazione, ove possibile, abitativa e commerciale degli stabili e delle abitazioni. La cura del verde e del decoro, unitamente alla pulizia e all’ordine delle strade dei marciapiedi e dei cassonetti della spazzatura.
L’associazionismo dovrà contribuire a creare nuove condizioni di vivibilità e di socializzazione nell’ottica di un ripristino della comunicazione umana e di modelli alternativi a quelli proposti e imposti dai mezzi di comunicazione di massa. L’obiettivo dovrà essere non quello di educare masse ma cittadini, individui responsabili e consapevoli.
L’Università dovrà avere un rapporto non strumentale e non parassitario nei confronti del territorio ma un rapporto costruttivo, di servizio e contributivo nella ricerca e nella realizzazione di idee e di progetti. In termini più chiari dovrà smettere di limitarsi a battere cassa e poi gestire la cassa senza controlli e senza confronti con la regione e con gli enti locali che mettono a disposizioni cassa e spazi.
Anche la scuola dovrà investire in termini progettuali per l’educazione e la formazione dei nuovi cittadini. I dirigenti scolastici non si occupino solo di richiedere burocraticamente interventi logistici per i loro istituti ai comuni e alle province o di sviluppare progetti per l’acquisto di tecnologie fine a se stesse, che spesso restano inutilizzate e invecchiano stando ancora imballate, ma si prodighino di più nel governare le scuole affinché non siano soltanto aziende erogatrici di servizi, secondo un modello aziendalistico e mercantilistico, ma ridiventino centri di cultura, di formazione e di sapere. 
Bisogna prendere sul serio la vecchia frase “lo Stato siamo noi”. E noi dobbiamo essere lo Stato a partire da ciò che facciamo nei nostri territori e negli spazi dove operiamo. Bisogna prendere sul serio l’assunzione d’impegno e di responsabilità a cui questa nuova stagione della politica ci chiama per risarcire la società dei danni procurati da quel disimpegno e da quel distacco dalla vita civile a cui lo Stato dei ministeri, della burocrazia e di certa politica ci ha, non senza qualche responsabilità, anche delle nostre classi dirigenti, resi sudditi.

A segus