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06/06/2005 Sèberos de sa Retza - www.sardegnaeliberta

At a èssere un'autonomia noa?


[20/06/2005] 
1. Questo convegno cade in un momento particolare della cultura sarda. Siamo afflitti da una nuova forma di conformismo: ogni qualvolta si prova a parlare di identità e autonomia, c’è sempre qualcuno o più d’uno che si alza a dire che l’identità non deve essere chiusura, che l’identità e l’autonomia sono essenzialmente fondati sulla relazione, che la Sardegna non deve chiudersi a riccio ecc. ecc. 

Che l’autonomia sia fondata sulla relazione con il mondo esterno è un fatto scontato, acquisito, al punto che i gruppi più accesamente indipendentisti sono anche i più europeisti e lo sono spesso più dei partiti tradizionali. E allora perché ripetere ossessivamente l’esigenza dell’apertura verso l’esterno anche se ormai è diventata una banalità? Perché non si ha altro da dire e si ripete stancamente ciò che appare essere moderno, internazionale, non locale, non provinciale. Antonio Pigliaru, ormai cinquant’anni fa, aveva fotografato questa attitudine dei sardi colti che, per non apparire provinciali facevano gli esterofili nel modo più provinciale possibile. Ma oggi come ieri, dietro questo richiamo banale all’apertura, c’è la volontà di stabilire una gerarchia tra gli intellettuali sardi, tra i poveri provinciali, chiusi e autonomisti, e i luminosi e aperti europeisti, quelli che sanno come gira il mondo fuori di qui. Questo complesso di inferiorità provinciale, che rende provinciale l’europeismo e lo spende in piccole beghe locali è una malattia che genera conformismo e impedisce di vedere che il vero problema è perimetrare le ragioni dell’autonomia senza ripetere inutilmente ciò che è stato già detto in passato.

2. Noi abbiamo due specialità, una positiva, di cui parlo ora, e una negativa, da cui dobbiamo liberarci e di cui parlerò dopo.

La specialità positiva è data dalle ragioni della diversità, che vanno censite a prescindere, almeno inizialmente, dal fatto che esse siano oppure no ragioni sufficienti per un sistema istituzionale speciale all’interno dello stato italiano.

Noi siamo l’isola più isolata del Mediterraneo. Non ve n’è un’altra che sia alle stesse nostre distanze dalla terra ferma più vicina. Questa separatezza naturale non significa isolamento – come ben è testimoniato dal fatto che la Sardegna conservi in nuce tracce di quasi tutte le civiltà del Mediterraneo che ha accolto o subito – ma significa che la Sardegna è naturalmente un sistema separato; non è una periferia più o meno integrata e non è neanche facilmente integrabile; è condannata ad essere un sistema separato, con maggiori o minori gradi di integrazione, a seconda dei periodi storici, ma ineluttabilmente separato. Non esisterà mai una ferrovia o un’autostrada che ci colleghi alla terraferma, né una vera integrazione col mercato del lavoro nazionale che consenta un po’ di pendolarismo, né una reale integrazione col sistema formativo nazionale, giacché un sistema formativo non è dato solo dalle regole che lo governano, ma dalle persone e dalle infrastrutture che lo animano e lo sostengono: parlo di docenti, di accademie, di biblioteche, di tradizioni, di scuole. Siamo e saremo sempre separati dagli altri.

Ma da tale condizione naturale discendono alcune peculiarità positive non opinabili, ma anzi riconosciute come specifiche dalla scienza.

Noi possediamo un ambiente universalmente riconosciuto come unico. 

Abbiamo un patrimonio geologico e floro-faunistico peculiare.

Abbiamo una lingua. Apro una parentesi. La lingua è forse la vittima più illustre del conformismo di cui parlavo. E’ la specificità più potente e quindi la più temuta. Una lingua non è solo un veicolo comunicativo, è anche un importante repertorio di cultura, di simboli, di modi di intendere la vita. La lingua, insieme allo spazio e alla coscienza, è una della poche realtà capaci di imprigionare il tempo, cioè di conservare tutte le sue età e, in questo modo, di costituire sincronicamente un profilo sempre disponibile dell’intero percorso storico di un popolo. Per questo la lingua è cultura.

Infine abbiamo una cultura specifica che non può essere misurata sull’originalità delle sue componenti, giacché tutte le culture si conoscono e si utilizzano reciprocamente. La nostra specificità, come quella altrui, è data dalla sintassi dei fattori costitutivi della nostra cultura (paesaggio, lingua, storia, tradizioni, saperi ecc. ecc.), cioè dal discorso che li unisce in un orizzonte di senso che è patrimonio comune di tutti.

Ora vien da chiedersi: che valore hanno queste specificità? 

Tutto ciò che non può essere riprodotto ha un grandissimo valore in questo modo standardizzato. La differenza e la qualità sono fattori decisivi della competitività.

E allora la seconda domanda è questa: abbiamo sufficienti poteri per valorizzare e tutelare la nostra differenza? In alcuni casi sì – e li abbiamo usati male, si pensi alle politiche urbanistiche –, in altri no, si pensi all’ambiente e alle servitù militari, al patrimonio artistico e archeologico, alla scuola e all’università, alle reti di informazione, ai sistemi di comunicazione di massa, ai sistemi di controllo e di vigilanza completamente assenti.

Segniamo dunque un primo punto fermo: nel nuovo statuto occorre dimensionare un nuovo sistema di poteri calibrato sulle nostre specificità. Questo è più importante della definizione dei poteri del presidente e del consiglio che ci ha tanto appassionato in questi mesi.

3. Noi possediamo anche una specialità negativa, cioè una specialità che vorremmo annullare e perdere. E’ la specialità della nostra povertà, del nostro ritardo, quella che sta dietro l’attuale statuto di autonomia, tutto proiettato ad ottenere, com’era giusto che fosse e che sia, la nostra piena integrazione negli standard di vita dello stato italiano.

Abbiamo un sistema infrastrutturale debolissimo (ferrovie, porti, reti), che ci condiziona nell’esercizio dei diritti fondamentali (libertà di movimento, accesso al mercato del lavoro); abbiamo un sistema energetico oneroso sia sul piano ambientale che tariffario; abbiamo un sistema scolastico e universitario collassato. Abbiamo un rapporto con le multinazionali (Syndial, Alcoa, Saras) subordinato e condizionato dalla nostra povertà. Sulla Saras, per esempio, bisognerebbe aprire una riflessione ben più profonda di quella condotta sulla Sir di Nino Rovelli. Abbiamo un sistema creditizio che in nome dei fattori di rischio fa pagare costi eccessivi, innescando un ulteriore diseconomia specifica. Abbiamo un capitale immobiliare notevole rispetto al Pil, ma da secoli non si riesce a farlo divenire fattore di sviluppo. Siamo sottocapitalizzati finanziariamente e ricchi di terre e case orientate alla rendita anziché al lavoro. 

Si potrebbe dire: Basta con queste questioni economiche, parliamo di società e di istituzioni! Il problema è che non siamo mai riusciti a parlare dignitosamente di diritti e libertà, perché assillati dal disagio economico. E ancora oggi è così.

Rispetto a questa specialità che vorremmo decisamente perdere, noi chiediamo da secoli un di più di integrazione, non di diversità. Per ottenerla abbiamo bisogno di più poteri in capo alla regione o di più poteri di partecipazione e di orientamento in sede nazionale ed europea?

Non si tratta di rivendicare solo la presenza della regione nel Consiglio dei ministri italiano o a Bruxelles, questa è una vecchia storia, sempre di attualità ma che non riusciamo a concretizzare. Il problema invece è il seguente: qual è la radice della nostra debolezza nel rappresentare i problemi strutturali della Sardegna nelle sedi dove si decide?

Io credo che risieda nella mediazione frantumata dei nostri bisogni realizzata attraverso i partiti nazionali. La storia di altre regioni europee ci insegna che senza forti partiti autonomisti, in genere dovuti al fondersi in termini federalistici, di diverse esperienze, non si riesce ad iscrivere l’emergenza di un’area limitata del continente nell’agenda dei grandi poteri nazionali e europei. Sto dicendo che se per la nostra specialità negativa c’è ancora da compiere una parte della strada tracciata dal vecchio statuto, vi è anche e soprattutto da realizzare un percorso politico nuovo, coraggioso, finalmente libero dalle logiche della guerra fredda, capace di creare un unico soggetto politico prevalente, con dimensioni adeguate a rappresentare nelle sedi opportune i nostri diritti e i nostri bisogni.

4. Quali contenuti per il nuovo Statuto? Non ripeto quelli già elencati in questi giorni dagli altri relatori e invece ne sottolineo alcuni su cui da tempo richiamo l’attenzione delle forze politiche.

In primo luogo il riequilibrio territoriale. Da secoli, ormai, esiste un rapporto squilibrato tra le città e i paesi della Sardegna a tutto vantaggio delle prime ed è veramente paradossale che si ripeta, con una popolazione limitata come la nostra, lo squilibrio città-campagna, che si incentivi una competizione interna tra territori. Occorre affermare il principio dell’equità nella distribuzione delle risorse e dei servizi, occorre territorializzare il bilancio e bilanciare la legge elettorale in modo da riequilibrare le distorsioni della rappresentanza dovute allo spopolamento.

Il rapporto con gli enti locali. Tutti parliamo di federalismo interno, di rapporto paritetico tra enti locali e Regione ed è giusto perseguire questa strada. Ma occorre anche dirci che questo sistema deve avere meccanismi adeguati di controllo, in modo che le dinamiche locali non trasformino il sistema Sardegna in un’arlecchinata di microsistemi incoerenti. Oggi è più tutelato, anche culturalmente, l’ente locale che il cittadino, il quale spesso ha il Tribunale Amministrativo Regionale come unica difesa verso l’attività delle amministrazioni locali. Il patto federativo interno deve avere il cittadino al centro, prima e dopo le istituzioni; ciò significa che tale patto deve in primo luogo agevolare la partecipazione e il controllo, la difesa e la difendibilità dei singoli rispetto all’amministrazione, la trasparenza delle responsabilità, la reale pubblicità delle decisioni, il riequilibrio tra i poteri del sindaco e del Consiglio.

Il patto sociale. Ci sono differenze di reddito, e quindi di occasioni e di diritti, ormai stridenti e ingiuste in Sardegna. Bisogna costruire una legislazione sociale - che è totalmente assente - che non si traduca solo in sussidi per la disoccupazione, ma anche e soprattutto in politiche per l’infanzia, per la casa, per la famiglia, per l’istruzione e la formazione, per la salute e l’assistenza. Deve esistere in statuto il perimetro concettuale e normativo della coesione sociale.

Infine il problema dei poteri. Presidenzialismo o parlamentarismo? Io sono sempre stato un parlamentarista, ma sono in nettissima minoranza. Questa parte della nostra questione, però, è forse la più matura tra le forze politiche; io credo che in autunno verranno presentate la legge elettorale, la legge sulla forma di governo e quelle sulla riforma della Giunta e dell’Amministrazione regionale. Certo, tutto questo deve essere ricondotto a coerenza, ma se dovessimo dire, prima facciamo lo Statuto poi le leggi statutarie e le altre leggi fondamentali per riformare la Regione, probabilmente sprecheremmo anche questa legislatura. Forse sarebbe meglio che il Consiglio varasse delle linee guida, che poi in commissione si predisponessero dei testi di legge coordinati e che su questo corpus si aprisse una larga consultazione, come deciso dal Consiglio. Nel frattempo, è bene, anche se non tutti sono d’accordo, che tutte le leggi di settore su cui si è d’accordo, anche se incidenti sulla riforma complessiva, possano proseguire il loro corso. 

Resta un problema: dove sono i partiti, dove sono le loro proposte, dov’è la loro capacità di organizzare il consenso su temi così rilevanti? Il prossimo convegno facciamolo su questo tema: la latitanza intermittente dei partiti.


Paolo Maninchedda

A segus