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23/07/2004 Rassigna de s'Imprenta - L'Unione Sarda de su 05.06.2004

"Analizzo i fantasmi più profondi dell’animo isolano"

Per gentile concessione dell’editore “Spirali” pubblichiamo alcuni stralci dal libro di Bachisio Bandinu “La maschera. La donna. Lo specchio” (pp. 350, euro 20).Maschere. Un uomo diventa animale-dio. La metamorfosi procede dalla pulsione, prende la sembianza della maschera e avvia il rito. Non è teatro popolare né manifestazione carnevalesca il rito delle maschere tragiche nella Sardegna centrale. Nulla a che vedere con la semiotica o con la psicologia, con la tecnica della recitazione o con l’arte del trucco. Il rito è un sogno del tempo. Mascherarsi è un destino. Il Mamuthone di Mamoiada non è individuo né tipo. Non esprime uno stato d’animo, non rimarca e non nasconde il carattere di una persona. Il Boe di Ottana non è espressione di un viso, tutto il corpo è mascherato. Nulla a che fare con la mimica. Nessuna entrata in scena, non c’è testo da mettere in recita, nessun ritaglio di spazio controllabile e semiotizzabile. Il Thurpu di Orotelli ha il volto annerito dalla fuliggine, ma non è nell’ordine della cosmesi. Il nerofumo non è tintura applicata sul volto: il colore è il volto stesso. È pittura che pone la sembianza. Il rito non ha parola né canto né musica. Risuona il muggito, l’urlo strozzato, il respiro contratto, il suono cupo dei campanacci. È un linguaggio fonico-ritmico che testimonia un’impasse del vivere, nell’ordine della pulsione e del desiderio. L’ inversione dice di una perdita totale d’identità. Il Mamuthone procede in modo sghembo, con un passo impastoiato. Il corpo ha un ritmo asimmetrico e avanza per saltelli. C’è un blocco, un divieto. Le gambe fanno un salto a sinistra, il busto una torsione a destra, e in alternanza salto a destra e torsione a sinistra. Opera l’inibizione. Il corpo sperimenta l’inciampo tra piede e passo nel percorso. La maschera è il sintomo, ciò vuol dire che non c’è rappresentazione. Non c’è allegoria. Solo l’atto dello svolgimento. Nessun sistema di segni. Solo l’esperienza del corpo e della scena. Non c’è un’effigie simbolica. Né icona, né segno, né indice. Né commedia, né tragedia, né pantomima. Non esiste l’attore e lo spettatore. Nessuno spazio scenico. Né testo né contesto. E’ la pratica esperienziale di un’altra scena. I giovani di Orotelli mettono al fuoco la corteccia di sughero e si dipingono la faccia di fuliggine per diventare Thurpos, i Ciechi. Procedono con salti e muggiti, esplodono in atti e gesti di violenza. La vestizione del Mamuthone è l’esperienza di una mutazione incalcolabile. Esperienza della costrizione e dell’inversione. Le funi si stringono intorno al petto comprimendo il respiro storcendo il corpo. Si indossa la giacca al rovescio. La maschera nera di pero scende sul volto. Si copre la testa col fazzoletto femminile. L’uomo diventa Mamuthone. A Ottana il corpo si copre con la mastruca, vello di capra e di pecora, si stringe la maschera bovina dalle lunghe corna, sulle spalle grava un mazzo di campanacci. L’uomo diventa Boe. Da dove vengono le maschere e dove vanno? Il rito ha un senso e una finalità? La maschera è originaria, è nel tempo antico e in quello attuale, appartiene al mito e al rito. Non è un ritorno al passato, continua a interrogare il nostro presente. LA DONNA La maschera non si addice alla donna, non dechet a sa femina. Non può essere mamuthone, boe, thurpu. È esclusa dal rito. La donna è già animale - dio: est capra. È maschera per se stessa, senza vestizione, senza rito. Il suo corpo è ciclico, un perenne moto di marea. Corpo fluido, in continuo mutamento: ha una esperienza organica del flusso del sangue, del ritmo del tempo. Ha un taglio non ricomponibile, un vuoto incolmabile. Il tempo ritmico del mese lunare fa da controcampo al calendario solare. Ciclo mensile tra regola e fuori regola: eterno ritorno nella scansione di un anticipo e di un posticipo. Regola non ordinabile dalla legge del tempo maschile, il mestruo, insensata ferita del sanguinamento, è ambivalenza perturbante della vita e della morte, della sutura e dello squarcio. Apertura originaria che non permette alcuna chiusura definitiva: fessura, bocca, gola, caverna, tomba. Il corpo della donna è animal : è materia vivente che produce materia vivente, crea e conforma altri corpi. Apertura, dilatazione, espulsione. Come contrappunto: chiusura, continenza, segreto. Questa natura della donna è ad un tempo cultura della donna. Una lettura etnologica e psicanalitica della cultura sarda pone per l’uomo un problema fondamentale: come fare i conti col corpo della donna. L’obiettivo fondamentale è come regolare le aperture. La bocca e la vagina diventano metafora di una giusta dosatura della pulsione e del linguaggio. Bisogna scandire i tempi e i modi di apertura e di chiusura degli apparati boccali divoranti e affascinanti. Ma il controllo del corpo della donna, per sua propria natura, non dà garanzie: occorre delimitare lo spazio di azione e il tempo di esperienza. Per porre fine all’erranza e all’inquietudine bisogna attribuire alla donna pasu e locu , sosta e dimora. Così la donna viene collocata dentro i cerchi concentrici della domo - familia - comunitate. La legge impone una circoscrizione comune: la morale è circolare. Il cerchio è una figura reclusiva che permette il controllo dello spazio comunitario. Spazio da interiorizzare. Non si tratta solo di stabilire una dimora alla donna ma fare di lei stessa la dimora dove l’uomo possa riposare senza timore di invasioni e di interferenze. Ancor più importante della definizione spaziale è il governare la dimensione temporale della donna. Si tratta di annullare il tempo labirintico dell’erranza e dare senso al tempo circolare femminile. La comunità si regge su due pilastri : regolare la violenza maschile, controllare la sessualità femminile secondo un codice morale regolato dal matrimonio. Non si può costituire società con la donna selvaggia. Un detto sardo conferma “senza donna non c’è comunità”: è fondamentale renderla domestica. Dunque domare la donna costituisce le fondamenta della costruzione sociale. Domare vuol dire dare una identità sociale alla donna, più profondamente vuol dire annullare la diversità della donna, che non deve avere una identità personale. Il fallo è simbolico, l’utero è misterioso. Perciò la donna non può fondare la legge, vi si deve sottomettere. La donna rappresenta una funzione sessuale censurata e costituisce l’apporto della genitalità alla riproduzione. Genitrice, nutrice, educatrice ma non assurge al linguaggio simbolico se non all’interno della legge sociale maschile. La paura di fondo è che la donna detenga un potere originario, mai formulato in nessuna legge simbolica maschile. In questa prospettiva la donna non è funzionale né al marito, né al figlio, né al padre. È quel mistero che ritorna come fantasma per porsi al di là della soggettività dell’uomo, dell’etica, e dell’ordinamento giuridico e sociale. Il timore perturbante è che ci sia una modalità di essere indipendente dal modo di essere maschile, e che questa differenza non possa essere amministrabile. Bisogna che la dimensione erotica sia dentro l’etica, il diritto e l’estetica, altrimenti è pervertitrice dell’ordine sociale. L’Uomo pensa la donna nell’ambivalenza della sublimazione e dell’abbrutimento, dell’esaltazione e dell’obbrobio. La fata e la strega. Nell’immaginario sardo la donna ermosa, angelicata, orofina è il “modello originario delle perfette opere divine”. Il controcampo è la donna divoratrice e perversa. Sa femina est bagassa pro natura non rimanda a un giudizio morale, ma più profondamente attribuisce alla donna una pulsione originaria che non è vizio o dipendenza, immaturità affettiva o scompenso psicologico. Il giudizio non si riferisce alla donna come soggetto, ma a una forza oggettiva pulsionale: natura come energia vivente e traboccante, forza vitale biologica procreatrice. La voglia non è perversione ma logica del corpo e della pulsione. In questo senso la donna è costitutivamente impura: è il magmatico torbido, colostro, sangue mestruale, liquido placentare, pasta lievitata, materia vitale e in decomposizione. La donna è questa forza primigenia: il corpo lo sente nel suo stesso mutare, esperienza del pieno e del vuoto, della gravidanza e dello sgravio, del riempimento e dello svuotamento. Corpo desiderante, non tanto in riferimento al piacere sessuale, quanto alla passione della sua natura. Opera una continua potenzialità di vita che sopravanza l’intenzionalità e la volontà. C’è in lei una materia vitale, sa matriche, pasta lievitata che farà altro pane e caglierà altro latte. Est sa natura sua. Bachisio Bandinu

A segus