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06/06/2005 seberos de imprenta/Unione Sarda de su 05-06

Facile dire bilinguismo, più difficile è spiegarlo

de Eduardo Blasco Ferrer

Il concetto di bilinguismo è un concetto difficile da spiegare, interpretare, studiare. Si pensa comunemente che la persona bilingue bilanciata sia dotata d'una doppia competenza, domini cioè allo stesso modo due lingue differenti, ad esempio francese e inglese, o inglese e giapponese, o ancora italiano e sardo. Tuttavia, a guardar bene tutta una serie di problemi fanno riflettere gli studiosi delle lingue e della psicologia del linguaggio sulle difficoltà che pone una così banale definizione. Prima di tutto è difficile verificare mediante dei tests ben ponderati se il parlante sa veramente gestire allo stesso modo le due lingue, che possono essere per conformazione ricche (italiano e sardo) o lontane (inglese e giapponese). Ora, un fatto che spesso è emerso da queste verifiche psicolinguistiche è che raramente un parlante usa o sa usare due lingue con la stessa padronanza in tutti, assolutamente tutti gli stessi contesti. Nei contesti più familiari (ad es. parlando del mangiare, della casa, delle esperienze quotidiane) la resa sembra essere identica, ma quando i contesti sono più specifici (le tasse, lo studio, la professione) una pare sopravanzare l'altra. Un dato curioso che conferma questa disparità fra due lingue apparentemente equifunzionali è fornito dalle patologie cerebro-vascolari: un afasico bilingue che ha subito un trauma cranico e che prima parlava spontaneamente catalano e spagnolo può parlare dopo la lesione soltanto catalano, non più spagnolo. Ma perché due lingue che sembravano essere due L1 o madrelingue possono differire nelle loro prestazioni? Alcuni studiosi sostengono che per soddisfare questa domanda bisogna chiedersi prima più cose: quando s'è cominciato ad acquisire le due lingue, e come?; quale grado di familiarità esiste nella mente del parlante per la prima e per la seconda lingua?; infine, quale atteggiamento mostra il parlante per ciascuna delle due lingue? Per quanto riguarda la prima domanda, sembra regnare unanimità sul fatto che prima s'impara la lingua (da 0 a 36 mesi) e più possibilità si hanno di padroneggiarla come una lingua nativa o materna (L1). Dopo i 4 anni chi impara una lingua lo fa seguendo un'altra strada, meno redditizia, e la lingua che apprende somiglia una seconda lingua o lingua straniera (L2). Si possono discriminare in questo modo i bilingui precoci (early bilinguals: con due L1 acquisite sin dalla nascita), dei parlanti fluenti di una seconda lingua (fluent second language speaker: una L1 acquisita prima dei 3 anni e una L2 appresa dopo i 3-4 anni). Il secondo quesito, riguardante la familiarità, implica una maggior dimestichezza di una lingua in alcuni settori, e della seconda in altri. Poiché si presuppone che per diventare bilingui ciascun genitore abbia sempre parlato la propria lingua (one parent one language è la formula magica!), è chiaro che il grado di familiarità con i settori cognitivi e del sapere sarà diverso. Il terzo quesito è più psico-sociale: si può amare di più una lingua di un'altra, per motivi esperienziali, di studio o semplicemente sociali. Elias Canetti rammentava sempre nelle sue conferenze che quando pensava alle esperienze della sua infanzia i suoi pensieri non ammettevano nessun'altra lingua che non fosse la materna. Per altri scrittori, fra cui tanti sardi illustri, la lingua che vinceva col tempo e guadagnava più affetto era quella socialmente più elevata e prestigiosa, in Sardegna l'italiano. Compendiando i risultati delle tre domande poste prima, possiamo dire che il parlante bilingue bilanciato (con due L1) è una persona che quando parla può "automaticamente" (in un modo procedurale che somiglia all'abitudine a guidare o accendersi una sigaretta) passare da una lingua all'altra, tradurre come un computer qualsiasi concetto nei due sistemi in competizione, sentirsi a suo agio parlando o scrivendo l'una o l'altra lingua. Viceversa, chi non possiede un bilinguismo perfetto, ma sa più una lingua di un'altra, in questa seconda i suoi riflessi saranno meno automatizzati, e perciò più sottoposti a continua verifica (egli si varrà perciò d'una più estesa competenza metalinguistica, chiedendosi se la struttura utilizzata sia adeguata o meno), ma soprattutto egli utilizzerà altre strategie sostitutive per comunicare, utilizzerà maggiormente la competenza pragmatica. La mente del bilingue è complessa, e in parte lavora diversamente da quella del parlante monolingue. Un dato ormai accertato è che la competenza bilingue, come quella monolingue, sia serbata nell'emisfero sinistro. Un altro dato, anch'esso acquisito è che il bilinguismo favorisca il potenziamento di altri schemi cognitivi (memoria, attenzione) e di tecniche che agevolino l'apprendimento di lingue straniere. Ma com'è la situazione sarda alla luce di questi dati? In primo luogo, poco sappiamo sul numero di parlanti, e soprattutto sulla loro competenza multipla. Per avere qualche dato significativo occorrerà condurre dei tests molto ben predisposti. Come ricorda Michel Paradis, uno dei più noti studiosi del bilinguismo, uno degli errori più frequenti nelle inchieste sul bilinguismo concerne la traduzione delle parole (come tradurre lavoro in sardo?: traballu), partendo dal presupposto errato che il significato condiviso sia del tutto uguale. In realtà, occorre sempre precisare che i significati nelle due lingue possono anche differire minimamente (in sardo c'è anche faina, che è un lavoro non retribuito). In secondo luogo, occorrerebbe studiare i processi di acquisizione del sardo nei primi anni di vita presso quelle famiglie (sicuramente poche ormai), in cui almeno uno dei due genitori parli sempre sardo coi figli. Soltanto in questo modo sapremo come imparano la L1 i Sardi, e quali strutture non appartengono alla L1, ma sono proprie d'una L2. Introdurre il bilinguismo è un compito arduo che, per quanto riguarda la Sardegna, richiede ancora la ricerca e lo studio sulla natura e la densità del processo. Eduardo Blasco Ferrer


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