de Roberto Bolognesi- Rijksuniversiteit Groningen/Universiteit van Amsterdam
¨ Introduzione
Un sistema ortografico deve avere un rapporto chiaro, oltre che il più coerente possibile, con la lingua parlata: il rapporto fra grafemi e pronuncia deve essere il più possibile logico e univoco. La scrittura deve guidare alla corretta pronuncia della lingua per mezzo di convenzioni grafiche che esprimano in modo chiaro il rapporto fra i grafemi e la pronuncia effettiva nei contesti che poi determinano le varie pronunce.
Come si sa, è però del tutto illusorio pretendere di arrivare a una scrittura che rappresenti effettivamente il parlato. Neppure l’alfabeto fonetico lo consente: ciascun parlante parla in modo diverso da ciascun altro–e anche in modo diverso a seconda delle circostanze–e trascrivere l’effettiva pronuncia di ogni parlante in ciascuna situazione porterebbe a un caos totale. Qualunque sistema ortografico è costituito da una serie di convenzioni che sono il compromesso tra la necessità di avvicinarsi alla fedeltà di una trascrizione più o meno “fonetica” e quella di rispettare delle restrizioni autoimposte che, con l’eccezione della necessità tecnica di mantenere costante la grafia anche quando la pronuncia effettiva viene modificata dal contesto, sono in fin dei conti il risultato di scelte politiche (l’uso dell’alfabeto latino, la fedeltà a una tradizione, l’eventuale esigenza di distinguere l’ortografia in questione da quella di altre lingue, ecc.). Queste considerazioni generali valgono per qualsiasi lingua e valgono in misura anche maggiore per il sardo.
Come si sa, tutte le varietà del sardo presentano, al contrario dell’italiano, dei sistemi fonologici assai complessi che comportano la presenza di allofoni diversi, in contesti diversi, a partire dagli stessi fonemi. Nel sardo di Sestu, per esempio, esistono ben 10 modi diversi di pronunciare il fonema /s/ quando si trova in fine di parola. L’allofono (la pronuncia effettiva) della /s/ è determinato dal contesto seguente. In altre varietà del sardo si trovano situazioni simili. Scegliere se rappresentare o meno le diverse pronunce dello stesso fonema è una scelta tecnica: rappresentandole si privilegia la fedeltà “fonetica” di una grafia; non rappresentandole si privilegia la costanza della rappresentazione.
Nel corso del dibattito sulla lingua sarda, in questi anni si è sentito spesso criticare certe proposte di normalizzazione per via della loro “artificialità”. Se questa critica viene rivolta a un sistema ortografico, allora essa risulta semplicemente fuori luogo, dato che qualunque sistema ortografico è artificiale–e artificiale per definizione–dato che nelle lingue naturali le parole si pronunciano, ma non si scrivono. La scrittura è sempre e comunque un modo artificiale, oltre che estremamente impreciso, di rappresentare il parlato. Naturalmente, l’accusa di artificialità può essere motivata nel caso in cui la normalizzazione riguardi la pronuncia e/o la grammatica proposte, quando queste non corrispondano a strutture esistenti.
Mi sembra che l’accusa di “artificialità” sia piuttosto una critica all’astrattezza di una certa proposta ortografica. In alcuni casi, la critica sembra riguardare il fatto che una certa norma ortografica non rappresenti alcuni dei vari allofoni presenti nella pronuncia effettiva. In altre occasioni, però, gli stessi critici, si guardano bene dal rappresentare loro stessi graficamente ciò che viene effettivamente pronunciato. Non conosco nessun critico di un certo livello che abbia proposto, per esempio, di scrivere la seguente frase campidanese:
1. is canis tzurpus papant petza pudescia
rappresentando anche le vocali paragogiche, l’elisione della seconda /s/ e il prodotto della lenizione delle consonanti sorde, come nel seguente esempio ipotetico:
2. is canisi tzurpu ppapanta betza budescia
Questo semplice esempio mostra quanto sia astratta anche la grafia più tradizionale, come quella rappresentata in (1). Nella pronuncia effettiva, a cui la grafia in (2) si avvicina di più, la /s/ rimane nel primo caso al suo posto e non si sonorizza, nel secondo si sonorizza e viene seguita da una vocale paragogica, mentre nel terzo caso viene elisa; la prima /p/ viene rafforzata–perché la /s/ non pronunciata si assimila al suono seguente e lo rafforza–mentre le due /p/ seguenti vengono lenite perché sono precedute da una vocale.
Questo esempio dimostra che già gli scrittori tradizionali, dovendo scegliere tra una scrittura più fedele al parlato e la costanza delle rappresentazioni grafiche hanno scelto per la seconda soluzione. L’accusa di “artificialità” sembrerebbe riguardare piuttosto il grado di astrattezza di una proposta ortografica: le proposte che superano un certo grado di astrazione (quello tradizionale, come grosso modo codificato per il campidanese dal Porru) apparirebbero artificiali agli occhi di questi critici.
È mia impressione che questi critici abbiamo in mente l’italiano come modello ideale del rapporto tra ortografia e pronuncia. Questo errore di prospettiva è comprensibile, dato che tutti siamo stati alfabetizzati in italiano e data la scarsa conoscenza di altre lingue. Per ragioni storiche che ho presentato in diverse occasioni, l’italiano mostra un rapporto abbastanza costante tra rappresentazioni grafiche e pronuncia effettiva: l’ortografia dell’italiano si avvicina più di quella di altre lingue a un ideale di fedeltà “fonetica” della scrittura. Tuttavia, neanche l’italiano possiede un sistema ortografico interamente coerente: esistono in italiano quattro modi diversi di rappresentare il fonema /k/ (C, CH, Q e, ormai, anche K); il digramma ZZ rappresenta sia l’affricata alveolare sonora che quella sorda (razza ‘il pesce’ e razza), mentre l’affricata sorda, sempre lunga, viene rappresentata a volte dal digramma ZZ e a volte dalla sola Z; le stesse lettere (C e G) rappresentano suoni diversi in contesti diversi (rappresentano le plosive velari davanti alle vocali non frontali e le affricate palatali davanti a /e/ e /i/); il digramma GL rappresenta a volte la sequenza dei fonemi /g/ e /l/ (gangli, glicerina) e a volte la liquida palatale /ñ/ (gli, aglio).
Detto questo, va assolutamente precisato che rispetto alle altre lingue, è proprio l’italiano ad essere più artificiale, dato che la sua situazione attuale è il risultato del fatto che esso è rimasto per diversi secoli una lingua unicamente scritta: lo stesso toscano presenta una grande complessità fonologica, frutto della sua naturale evoluzione, che non viene rappresentata graficamente–nessuno scrive la hasa. L’italiano “si parla come si scrive” solo perché la scuola (lo stato italiano) ci ha costretti a farlo. Tutte le lingue effettivamente parlate da secoli presentano discrepanze tra convenzioni ortografiche e pronuncia effettiva. In altri termini, il sardo è in buona compagnia: tutte le lingue con una tradizione di uso orale secolare presentano dei sistemi ortografici più o meno astratti. Del resto, come anche dimostrato da diversi esperimenti di psicolinguistica, oltre che dall’esistenza di sistemi di scrittura ideografici, un lettore appena un po’ pratico riconosce la parola nel suo insieme, anziché leggere tutti i “fonemi” che la compongono. Le due lingue più diffuse del mondo, il cinese e l’inglese, sono lì a dimostrarci che la discrepanza tra “fedeltà fonetica” della grafia e pronuncia non comporta nessun impaccio al successo di una lingua.
Fatte queste premesse, rispetto alla lingua sarda rimane soltanto una domanda a cui rispondere: quali sono gli obiettivi che un’ortografia del sardo deve raggiungere? Dato che, a differenza della pronuncia effettiva, l’ortografia costituisce unicamente un sistema–sempre e comunque artificiale–di convenzioni, è possibile progettare un sistema ortografico che in gran misura risponda alle esigenze di chi lo progetta, fermo restando che, perché abbia successo, il rapporto tra convenzioni grafiche e pronuncia deve essere chiaro e il più possibile logico. Definire gli obiettivi che un sistema ortografico deve raggiungere è però compito della politica, non della linguistica: ai tecnici in quanto tali spetta solo il compito di realizzare un sistema ortografico che renda possibile il raggiungimento di questi obiettivi.
Ora, dato che l’incarico che la Giunta Regionale ci ha assegnato come commissione è quello di definire delle norme ortografiche comuni a tutte le varietà linguistiche in uso nel territorio regionale, bisogna precisare che il raggiungimento di questo obiettivo è tecnicamente possibile, ma solo per quanto riguarda le varietà linguistiche classificate come propriamente sarde (sono esclusi quindi il sassarese, il gallurese, il tabarchino e il catalano di Alghero, perché troppo distanti dal sardo) e soltanto adottando un sistema di convenzioni ortografiche sufficientemente astratto. Un tale sistema ortografico, che ovviamente va accompagnato dai set di regole di pronuncia che corrispondono alle diverse varietà del sardo, permetterà di mantenere inalterata la situazione al livello della lingua parlata. In altri termini, a un’ortografia unitaria corrisponderà un’inalterata ricchezza di varietà naturali della lingua sarda.
Ovviamente, il raggiungimento di un simile risultato comporta dei sacrifici. In Sardegna esistono due tradizioni ortografiche abbastanza diffuse che normalmente vengono indicate come Campidanese Comune e Logudorese Comune. Questi sistemi sono stati sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro e spesso in contrapposizione tra di loro e riflettono l’esigenza, più o meno dichiarata, di esprimere le due principali sub-identità sarde: quella cabesusesa e quella di Cabu ‘e jossu. Seguendo l’esempio dell’italiano, queste due diverse ortografie mostrano entrambe una corrispondenza abbastanza stretta con la pronuncia. È ovvio che l’amministrazione regionale, se vuole presentarsi come entità super partes, non può scegliere per nessuna delle due tradizioni. Scegliere per un’ortografia che corrisponde a un’unica pronuncia significa scegliere per un’unica pronuncia–come è stato fatto nel caso della cosiddetta LSU–e non esistono argomenti tecnici che possano giustificarla. Nel caso della cosiddetta LSU, gli argomenti pseudo-scientifici adotti dai suoi propositori sono stati già in varie occasioni smascherati come pretestuosi: non esistono argomenti tecnici per preferire una varietà di una lingua a un’altra. Una scelta a favore dell’una o dell’altra tradizione sarebbe quindi una scelta di parte che scontenterebbe molti sardi e riaprirebbe immediatamente la porta ai contrasti e alle divisioni. L’ortografia unitaria del sardo deve invece esprimere l’esigenza di porre tutte le varianti del sardo sullo stesso piano. Non si deve nuovamente commettere l’errore di distinguere fra figli e figliastri linguistici.
Lo stesso obiettivo si potrebbe forse ottenere adottando entrambe le varietà, ma questo significherebbe sancire definitivamente e riconoscere come linguisticamente fondate le divisioni tra sardi: le divisioni tra sardi non hanno invece alcun fondamento linguistico. Inoltre questa soluzione penalizzerebbe le varietà intermedie, che condividono parte delle caratteristiche del sardo settentrionale e parte di quelle del sardo meridionale.
Ricorrere a una standardizzazione tradizionale, ma adottando una varietà intermedia tra campidanese e logudorese, non sarebbe ugualmente una soluzione, visto che si correrebbe il rischio reale di scontentare sia i parlanti delle varietà settentrionali sia quelli delle varietà meridionali. Entrambi troverebbero lo standard proposto ancora troppo lontano dalla propria varietà.
In breve, l’unico modo per evitare le divisioni e i contrasti che nascerebbero optando per una standardizzazione tradizionale è quello di rinunciare al dogma, comunque pretestuoso, per cui le convenzioni ortografiche debbano rappresentare una determinata pronuncia reale. Visto che in questo caso è la tradizione (le due tradizioni contrapposte) a impedirci di trovare una soluzione unitaria, è la tradizione che va sacrificata: non si possono percorrere nuove strade restandocene seduti a casa.
Per quanto riguarda la lingua sarda è fondamentale che le stesse convenzioni grafiche siano altrettanto coerentemente utilizzabili per quante più possibili varietà del sardo parlato: un’ortografia unitaria permette di utilizzare contemporaneamente tutte le varietà principali del sardo per i documenti ufficiali in uscita dalla Regione, per il materiale didattico e per la scrittura di testi che vogliano rivolgersi all’intero pubblico sardo. A interpretare il testo nella varietà locale saranno i lettori, applicando le regole di pronuncia specifiche della loro varietà, una volta che le avranno apprese. Rispettando la naturale ricchezza di varietà della lingua sarda, l’ortografia unitaria si troverebbe in compagnia di sistemi ortografici illustri e diffusissimi, come quelli dell’inglese e dello spagnolo che, percorrendo strade storicamente diverse da quella del sardo, si ritrovano oggi a rappresentare graficamente pronunce effettive diverse tra loro.
Gli studi di dialettologia effettuati in tempi recenti hanno mostrato in modo chiaro che non esiste un confine linguistico netto tra le zone in cui si parla il sardo meridionale e quelle in cui si parla il sardo settentrionale. Se si apre l’Atlante Fonetico compilato da Michel Contini si vede che i confini (fasci di isoglosse) sono molto più netti tra le sub-varietà del sardo settentrionale—soprattutto tra i dialetti logudoresi propriamente detti e quelli nuoresi-baroniesi—che tra questi dialetti e quelli meridionali. Soprattutto nella Sardegna orientale e centrale è semplicemente impossibile identificare un confine linguistico che permetta di distinguere tra “campidanese” e “logudorese”. Soltanto nella Sardegna occidentale si può, con una dose notevole di “buona volontà”, identificare un ventaglio di confini che gradualmente separano una varietà dall’altra.
Da un’altra analisi dialettologica, questa volta quantitativa, effettuata da chi scrive assieme a un linguista computazionale (e in corso di pubblicazione), risulta che, quantitativamente, la metà della distanza fonetica tra dialetti settentrionali e meridionali è dovuta a una manciata di fenomeni fonologici, i quali però ricorrono frequentemente nelle parole prese in esame. Ora, dato che la distanza media tra due dialetti sardi qualunque è del 22% (prendendo in considerazione anche le differenze lessicali e morfologiche), ne risulta che, mediamente, la metà delle differenze che esistono tra un dialetto settentrionale e uno meridionale è dovuta alla pronuncia differente di parole per altro identiche.
Superando queste differenze fonologiche nella scrittura, mediante convenzioni ortografiche unitarie accompagnate da regole di pronuncia specifiche, si riduce la distanza tra dialetti sardi di circa il 10%. Rimarrebbe il 12% della distanza dovuto a differenze lessicali (l’esistenza di parole diverse nelle diverse varietà) e morfologiche (soprattutto nel paradigma verbale). Si tenga presente che la distanza totale che esiste tra le due sub-varietà del campidanese parlate a S.Antioco e a Guspini, perfettamente intelleggibili tra di loro, è invece del 16%. Questo significa che un’ortografia unitaria porterebbe già di per sé ad elevare al 90% l’omogeneità del sardo scritto. E questo risultato si otterrebbe lasciando perfettamente inalterata la situazione del parlato.
A questo punto bisognerebbe chiedersi se sia auspicabile che una lingua sia omogenea al 100%. Secondo me non lo è, e comunque non esiste lingua al mondo che non presenti una certa dose di variabilità. Anche nel dialetto di un piccolo paese esistono differenze linguistiche dovute a differenze di sesso, età e classe sociale. E poi a chi serve una lingua sarda ridotta a parodia dell’italiano burocratico?
Come procedere allora? Innanzitutto va identificato un dialetto intermedio tra campidanese e logudorese che abbia delle caratteristiche strutturali che si prestino intrinsecamente a fungere da ponte tra le due varietà principali. Questo dialetto potrebbe anche fornire il paradigma verbale da adottare nei documenti ufficiali, mentre quello da usare in altri tipi di testi si potrebbe e dovrebbe lasciare libero. Quindi si deve mettere a punto un sistema ortografico che permette di arrivare alla pronuncia reale del dialetto intermedio, ma anche del campidanese comune e del logudorese comune. Contemporaneamente vanno definite le regole di pronuncia per le diverse varietà. Queste devono essere regole naturali, nel senso che devono esplicitare regole esistenti sincronicamente nelle diverse varietà e che, per esempio, vengono già applicate ai prestiti dall’italiano, o devono almeno riflettere—all’inverso—l’evoluzione storica della parola, a partire da una forma comune alle diverse varietà. In tutti i casi, il risultato deve essere costituito dalla conservazione del sistema fonologico naturale di ciascuna varietà. Nel caso esistano forti resistenze a rinunciare a certe grafie tradizionali (si pensi alla X campidanese) si può ricorrere ad un numero limitatissimo di allografi. Il lessico va comunque lasciato libero: la possibilità di avere forme diverse per esprimere lo stesso concetto costituisce soltanto una ricchezza.