Identità nazionale e minoranze nello Stato italiano
di Claudio Magnabosco
Novembre 2000
INDICE
Il federalismo | Le nazionalità | Dalla nascita dello Stato italiano al fascismo | Il federalismo in chiave mediterranea | Il federalismo in chiave alpina | Dalla fine della guerra agli anni 60 | Nasce il movimento nazionalitario: gli anni 70 | Nazionalità, intellettuali e partiti italiani dagli anni 70 agli anni 80 | La voce di Alexander Langer | Gli anni 80 | Il federalismo in chiave sindacale | Il federalismo in chiave meridionale | Nazionalità e leghismi | Un progetto federalista | Una Lega "nazionalitaria" | I successi leghisti e l'involuzione nazionalitaria (gli anni 90) | I risultati del movimento nazionalitario e la nascita dell'Associazione per i popoli minacciati | Critica della ragion regionale | La criminalizzazione delle rivendicazioni nazionalitarie | Critica della ragion identitaria | Gli intellettuali "italiani" e le nazionalità degli anni 2000 | Critica alla ragion federalista | Il modello catalano: passaggio a Nord-est? | Le prospettive degli anni 2000
Il federalismo
Gli studiosi indagano se in Italia il federalismo si vada affermando come una corrente politica significativa per la trasformazione dello Stato e per la nascita di una vera Europa, ma c'è ancora troppa confusione su cosa s'intenda per federalismo, su cosa sia realmente il federalismo e lo si confonde, troppo spesso, con il regionalismo e con l'autonomismo. La confusione ha fatto buon gioco per i partiti Stato-nazionali: il federalismo è, così, fortemente sostenuto dalle forze che non sono al potere ed è considerato - invece - un pericolo per l'unità dello Stato per quelle che hanno la responsabilità del governo; a seconda delle contingenze politiche la situazione può invertirsi, ma quando maggioranza e opposizione parlano entrambe di federalismo, in realtà pensano ad altro, pensano soltanto - appunto - ad un regionalismo o ad un autonomismo più o meno accentuati.
In questo studio evidenzierò come il federalismo sia stata una delle strade percorse dalle nazionalità dello Stato italiano per affermare i loro diritti e come del federalismo esse debbano essere considerate tra i principali e più coerenti interpreti.
Per far chiarezza sulla terminologia si precisa che con il termine "autodeterminazione" le nazionalità intendono qualsivoglia soluzione istituzionale (la costruzione di un proprio Stato, l'acquisizione di un'autonomia regionale, una semplice tutela linguistica, il federalismo) liberamente scelta dalle popolazioni interessate e non imposta o concessa da un potere esterno che detiene e conserva, comunque, l'esercizio della sovranità.
Il federalismo cui fanno riferimento le nazionalità, è il sistema di armonizzazione di tutte le realtà istituzionali autodeterminate e, in particolare, fino a quando la forma stessa dello Stato continuerà a sussistere, il meccanismo di cooperazione, solidarietà e governo tra i Popoli e gli Stati plurinazionali.
Le nazionalità
Ciascuna delle nazionalità presenti nello Stato italiano ha una propria lunga e specifica storia ed una più breve e recente storia di dipendenza dall'Italia. Non racconterò come, in questa situazione di dipendenza, ciascuna di queste nazionalità abbia cercato di esercitare i propri diritti ricorrendo a plebisciti, referendum, garanzie internazionali, rivolte, lettere e petizioni; né indagherò su quale sia il loro sogno ultimo: il federalismo, l'indipendenza, l'autonomia, una semplice ma reale tutela linguistica, ecc.; evidenzierò, invece, i momenti nei quali queste nazionalità hanno collaborato tra loro, dando vita ad un "movimento nazionalitario" che si è dato alcuni obiettivi comuni, primo fra questi la trasformazione dello Stato italiano in senso federale, intesa come tappa verso la costruzione dell'Europa dei Popoli e verso la conquista dell'esercizio del diritto all'autodeterminazione.
La storia e le posizioni assunte dal movimento nazionalitario consentono di evidenziare la contraddizione di fondo di un falso federalismo concepito soltanto come semplice aggregazione di Regioni: le Regioni non sono scaturite dalla volontà popolare, ma da un atto unilaterale dello Stato che le ha create sulla base di un criterio geografico arbitrario; scriveva Salvemini: "Le Regioni sono inesistenti se nascono da una volontà dei poteri centrali!". Per le nazionalità, quindi, l'autonomia regionale non rappresenta un punto d'arrivo politico - istituzionale, ma solo una conquista transitoria verso il conseguimento del diritto all'autodeterminazione; e questo anche se l'autonomia regionale ha consentito ad alcune di esse di crescere e di svilupparsi economicamente; solo le nazionalità che non hanno conquistato nessun diritto, nessuna autonomia, guardano al regionalismo come ad obiettivo di una certa importanza.
Vediamo di precisare i termini della questione nazionalitaria.
Tratto fondamentale per l'individuazione delle nazionalità minoritarie all'interno dello Stato italiano è - come ha sintetizzato il linguista friulano Adrian Ceschia - la lingua (sottinteso: differente da quella italiana); si intende per la lingua l'insieme delle varianti geografiche e sociologiche che, nel loro complesso, formano il codice ed il sistema linguistico, indipendentemente dal fatto che per esse ci sia o non ci sia, al momento attuale, una lingua comune o koinè istituzionalizzata e riconosciuta. Le nazionalità, le comunità con lingua diversa dall'italiano, sono minoritarie perché per loro consistenza numerica sono gruppi numericamente piccoli rispetto ad una maggioranza all'interno dello Stato italiano. Le nazionalità con lingua diversa dall'italiano e minoritarie all'interno dello Stato italiano sono: gli Albanesi, i Catalani, i Croati, i Francofoni - Francoprovenzali, i Friulani, i Greci, i Ladini, gli Occitani, i Sardi, gli Sloveni, i Germanofoni. Alle nazionalità appartengono tre milioni di "italiani per forza". Gli Albanesi sono circa 100.000 e vivono sparsi in sette Regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia). I Catalani sono circa 10.000 e vivono nel Comune sardo di Alghero. I Croati sono circa cinque mila e vivono nel Molise. I Francofoni - Francoprovenzali sono circa 100.000 e sono stanziati in Valle d'Aosta, in alcune valli piemontesi e in due comuni della Provincia di Foggia (Celle e San Vito). I Ladini (ove si comprendano in questa famiglia i Friulani e i Dolomitici) sono circa un milione, stanziati in Friuli e nelle province di Belluno, Bolzano e Trento. Gli Occitani sono circa 200.000 e sono stanziati nelle valli del Piemonte occidentale e del Comune cosentino di Guardia Piemontese. I Sardi sono 1.200.000 nell'isola. Gli Sloveni sono circa 100.000 stanziati a Gorizia, Trieste, Udine e nelle valli del Natisone. I Germanofoni sono 300.000 di cui 270.000 sudtirolesi ed i rimanenti 30.000 (i Cimbri, i Mocheni, i Walser) sparsi tra Udine, Belluno, Trento, Verona, Vercelli e la Valle d'Aosta. Una realtà del tutto particolare è rappresentato dalla comunità dei Rom che deve figurare in questo elenco pur essendo priva di una specificità territoriale. Da indagare e da approfondire è l'individuazione di altre realtà: l'identità degli abitanti di Pantelleria ad esempio - non è qui considerata ma è certo di origine specifica (araba?); e in Sicilia gli abitanti di San Fratello e dintorni sono da considerare Francoprovenzali.
Dalla nascita dello Stato italiano al fascismo
L'Italia nasce definendosi "Stato nazionale ed unitario"; in realtà è plurinazionale anche se ad ammetterlo sono soltanto pochi democratici e federalisti; le nazionalità, trasformate in minoranze, comprese e compresse nel suo territorio, iniziano fin dalla nascita dello Stato, un difficile percorso di liberazione; lo Stato, inoltre, afferma la sua unità con le armi dell'esercito piemontese e questa unità è, quindi, solo presunta. Salvemini è tra quanti invocano un garante per le minoranze quando constata che di fronte a leggi applicate da maggioranze senza controllo superiore, le minoranze non hanno sicurezza.
Il fatto che una dimensione di cooperazione internazionale tra le nazionalità sia necessaria lo dimostrano l'azione dell'Unione delle Nazionalità (1912-1918) e quella del Congresso delle Nazionalità (1925-1938) che, pur con i limiti dovuti ad una ridotta circolazione delle idee e delle informazioni ed alle contingenze politiche dell'epoca, costituiscono un significativo esempio: dimensionate a livello europeo, le due organizzazioni vedono la presenza nelle loro attività, anche di esponenti delle diverse nazionalità "italiane". Gli studi di un personaggio come il valdostano Emile Chanoux che si laurea con una tesi sulle minoranze etniche nel diritto internazionale, rappresentano una prima significativa prova dell'esistenza di una coscienza dell'esser soggetto di diritto internazionale che accomuna tutte le nazionalità e che le nazionalità sanno di non poter affermare ciascuna per proprio conto. Non sono soltanto le nazionalità più forti e numericamente più consistenti a sviluppare una sensibilità politica attenta ai fenomeni internazionali: mentre i parlamentari sudtirolesi eletti nel 1921 depositano a Roma una riserva legale contro l'annessione del Sud Tirolo all'Italia, i Cimbri si rivolgono a Clémenceau e a Wilson per far conoscere "la Nazione dell'Altipiano, la sua storia secolare, i suoi diritti".
Così, mentre personaggi come Matteotti auspicano che le questioni territoriali e nazionali si risolvano con "la consultazione delle popolazioni", Emilio Lussu constata amaramente che a Roma i parlamentari sardi, sloveni, croati, sudtirolesi e valdostani non collaborano tra loro; per superare questo limite, poiché nel Molise esiste un Partito Molisano d'Azione già collegato al Partito Sardo d'Azione (Psd'Az.), nel 1924 Lussu propone anche a slavi e sudtirolesi un'alleanza elettorale: nasce in Sardegna un Consiglio federale dei movimenti federalisti e regionalisti presenti nel territorio dello Stato italiano.
Che le nazionalità abbiano diritti inalienabili lo dimostrano anche altre considerazioni: la lingua letteraria albanese, ad esempio, nasce in Italia con Gerolamo De Rada, amico di Garibaldi; riti religiosi e lingue del sud (il rito ortodosso presso gli Albanesi, la lingua grecanica) restano ben radicati fin quando non arrivano i piemontesi e l'Italia; tutta albanese è una rivolta popolare del 1847, contro i latifondisti, mossa a fianco di Pisacane.
Il federalismo in chiave mediterranea
L'idea federalista, in senso moderno, compare in Sardegna alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1921, su "La voce dei combattenti", Puggioni parla di "Stato federale e democrazia diretta"; due anni dopo su "Il Popolo Sardo" cita la "comunione spirituale e solidarietà economica di tutte le Nazioni che si affacciano sul Mediterrraneo"; e nel 1924 su "Il solco", in un messaggio rivolto "ai fratelli di Catalogna", auspica la costituzione di una "federazione mediterranea".
A cavallo tra gli anni 20 e 30 Bellieni si richiama alle dottrine di Cattaneo e propugna la costituzione di uno Stato repubblicano federale; "il federalismo - afferma Lussu confrontandosi con Gramsci - é indubbiamente la forma statale rispondente alle nostre aspirazioni. Tutte le altre sono forme subordinate cui ci costringe la situazione politica". Sempre Lussu, dall'esilio antifascista, scrive: "La Sardegna deve essere nello Stato italiano all'incirca quello che è il Cantone nella Confederazione Svizzera e il Landsteat nella Repubblica federale tedesca".
Fino agli anni 60, Repubblica - Autonomia - Federalismo sono i tre punti di riferimento del sardismo; ma è in quegli anni che Antonio Simon Mossa elabora una teoria diversa che unisce il concetto di nazionalità a quello di federalismo: facendo propria la tensione indipendentista Simon Mossa approfondisce l'idea di una Nazione - Stato sarda, federata ad un'Europa composta da tutte le nazionalità. Contestando l'Europa degli Stati, Simon Mossa scrive: "E' una sorta di consorzio di proprietari che esclude il dialogo aperto con l'Oriente europeo, con il nord Europa e con il Mediterraneo (cioè il Medio Oriente e l'Africa settentrionale) che gravitano sull'Europa e si oppone ad un'articolazione dell'autogoverno nelle comunità nazionali che sono i diversi mezzogiorno d'Europa".
Il federalismo in chiave alpina
1931: la lettera di un prete di montagna, il valdostano Abbé Trèves, chiude la resistenza culturale clandestina al fascismo auspicando che l'Italia futura si dia un "regime - tipo Svizzera - di repubblica federativa" come dire "gli Stati Uniti confederati d'Italia". La resistenza armata, guidata da un allievo dell'abate, il notaio Emile Chanoux, s'ispira a questa lettera.
Il 19 dicembre 1943 si riuniscono clandestinamente a Chivasso i rappresentanti delle popolazioni alpine; nella "Dichiarazione" che sottoscrivono, constatando che 20 anni di governo accentratore fascista avevano avuto per le Valli alpine dolorose conseguenze, come l'oppressione politica, la rovina economica e la distruzione della cultura, e affermando che la libertà di lingua e quella di culto è condizione essenziale per la salvaguardia della personalità umana, dichiarano: "Il federalismo rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità; un regime federale repubblicano a base regionale e cantonale è l'unica garanzia contro il rischio della dittatura".
A Chivasso sono presenti valdostani, valdesi e occitani, ma quattro anni dopo, nel 1947, a Desenzano, valdostani, friulani, trentini e sudtirolesi auspicano che "l'Italia diventi uno Stato federale". A firmare questo appello non sono più soltanto intellettuali illuminati, ma i rappresentanti di movimenti politici veri e propri come l'Union Valdôtaine (UV), la Sudtiroler Volkspartei (SVP), il Movimento Popolare Friulano da cui scaturirà alcuni anni più tardi il Movimento Friuli (MF) e l'Associazione Autonomista Trentina da cui trarrà poi origine il Partito Popolare Trentino Tirolese (PPTT).
Lussu scrive all'U. V. una lettera per scindere la battaglia politica degli autonomisti appartenenti a nazionalità minoritarie dalle posizioni dell'autonomismo siciliano di Finocchiaro Aprile, anticipando i temi di un confronto - scontro che anima ancora oggi i rapporti tra nazionalità e regionalismi, autonomisti, campanilismi, localismi.
In modo del tutto particolare si pone la "questione slovena", che ha nella Slovenska Skupnost (S.S.) un partito moderato ma tenace.
Dalla fine della guerra agli anni 60
Nell'immediato dopoguerra nascono i primi veri e propri partiti politici "nazionalitari" (solo il PSd'Az. era già attivo fin dagli anni 20) e sono alcuni di questi partiti a riunirsi nel 1947 a Desenzano, per chiedere, come abbiamo visto, il federalismo.
Nel gennaio 1948 a Trento, insieme al PPTT ed ai partiti alpini, si ritrovano i rappresentanti dei popoli meridionali, la Concentrazione Autonomista Meridionale e Finocchiaro Aprile, leader dell'indipendentismo siciliano; Lussu e l'UV, come abbiamo già visto, non sono del tutto convinti della positività di questo connubio con il separatismo siciliano, ritenendo che contenga elementi e valori politici contraddittori, ma aderiscono ugualmente all'iniziativa.
Malgrado questi passi e la tendenza alla cooperazione, nella Costituente prima e nel primo Parlamento italiano, poi, non s'individuano sintonie tra partiti e parlamentari nazionalitari (anche perché molte forze nazionalitarie non hanno una rappresentanza parlamentare): è certo, comunque, che sussistono fermenti autonomisti non solo in Sicilia, Valle d'Aosta, Sardegna, Friuli e Sud Tirolo, ma anche nell'Intemelia e sono molto attive organizzazioni che rivendicano l'istituzione di una Regione Umbra, di una Regione Salentina, di una Regione Sabina, di una Regione Sannita, di una Regione Valtellinese e, perfino, di una Repubblica di S. Marco. Nessuna di queste ottiene risultati, ma la loro esistenza testimonia che grande è la tensione nel momento in cui l'Italia post - bellica disegna le sue Regioni.
Nascono le Regioni a Statuto Speciale e grande è il ruolo che Emilio Lussu ha nell'approvazione dello Statuto della Valle d'Aosta: la sua azione evita che questo nasca troppo mutilato rispetto alle aspettative dei federalisti valdostani.
La Costituzione, inoltre, impegna la Repubblica italiana a "tutelare, con apposite norme, le minoranze linguistiche (art. 6)".
L'opera di ricostruzione materiale dopo i disastri della seconda guerra mondiale, impegna ovunque tutte le energie e, per certi versi, circoscrive le rivendicazioni nazionalitarie e ne limita la collaborazione, determinando nelle nazionalità più forti l'accettazione del sistema autonomistico, benché questo si riveli molto limitante.
Nel 1949 nasce la FUEV, Unione Federalista delle Etnie d'Europa, ancora in attività oggi: il Congresso costitutivo dovrebbe tenersi a Merano, ma è impedito dal governo italiano e si svolge, quindi, a Versailles; raggruppa 75 organizzazioni politiche europee e, tra queste, quelle dei sudtirolesi, degli sloveni e dei valdostani che, pochi anni dopo, assumeranno perfino la Presidenza stessa dell'organizzazione.
Nel 1949 una altro fatto rilevante giunge a sopire le tensioni nazionalitarie: nasce il Consiglio d'Europa che, come previsto dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo approvata l'anno prima, opererà contro la discriminazione delle minoranze.
Nel 1953 il Movimento Comunità di Adriano Olivetti partecipa ad alcuni appuntamenti elettorali con il Partito dei Contadini, l'Unità Popolare ed il PSd'Az.; la coalizione porta all'elezione di un senatore. Negli stessi anni a Mantova un gruppo di federalisti, guidati da Dacirio Ghidorzi Ghizzi, costituisce il Partito Federalista Europeo (PFE).
Sono, comunque, i valdostani, gli sloveni ed i sudtirolesi a rappresentare con maggior rigore e con forza l'esistenza di un problema nazionalitario in Italia: hanno parlamentari, responsabilità di governo locale, "garanti" internazionali (ufficiali come l'Austria per i sudtirolesi, o non ufficiali, come la Francia per i valdostani) negli Stati con i quali condividono la lingua.
In molte avventure elettorali si concretizza una collaborazione organica tra il PSd'Az. ed il Partito Comunista Italiano (PCI).
La pausa nelle lotte comuni delle nazionalità si protrae fino al 1960, ma si tratta di una pausa solo apparente: quando - proprio nel 1960 - ad Aosta nasce il Collège d'Etudes Fédéralistes sono una cultura, una sensibilità politica costruite nel tempo ad affermarsi contro ogni visione centralistica.
Nel 1966 il valdostano Bruno Salvadori rilancia l'idea di una "azione comune" delle minoranze in Italia e in Europa.
Nel 1967 a Trento si tiene una riunione di "autonomisti" alla quale prendono parte esponenti di gruppi spontanei sorti a Milano, Brescia e Bergamo; nasce l'Unione Autonomisti che comprende anche friulani ed indipendentisti triestini coalizzati per le elezioni politiche del 1968; a questo cartello va l'adesione anche dei valdostani che, avendo un loro collegio elettorale unico, non entrano - però - nella lista ispirata dai trentini.
In questi stessi anni nasce l'AIDLCM (Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate) che con una dinamica sezione "italiana", mette mano al problema della mancata applicazione dell'articolo 6 della Costituzione.
Nasce il movimento nazionalitario: gli anni 70
Negli anni 70 nascono in Italia le Regioni a Statuto ordinario e il regionalismo vive un momento di rilancio.
Si costituiscono il MF e il MAO (Movimento Autonomista Occitano), entrambi radicati nella storia e legati alle esperienze e alle carte dei popoli alpini; la nascita del MAO è ispirata da un intellettuale francese, François Fontan, il cui pensiero non è propriamente federalista ed europeista, ma introduce nel movimento nazionalitario una visione critica rispetto alla presunta ineluttabilità della costruzione europea; il MF, invece, si considera europeista ed erede del gruppo federalista che firmò la Dichiarazione di Desenzano.
All'inizio degli anni 70, mentre il sociologo italiano Barbiellini Amidei, ricordando Marx che chiamava plus valore la parte di ricchezza prodotta dai lavoratori e incamerata dai capitalisti, chiama "minus valore" l'immenso patrimonio linguistico, culturale e spirituale prodotto dagli uomini e sottratto loro dal sistema, viene ipotizzata l'approvazione di una "legge quadro" statale che "individui le minoranze" e deleghi la loro tutela alle Regioni. Ma il problema non è del tutto chiaro: Tullio de Mauro, linguista comunista, ne individua correttamente i contorni culturali e politici proprio quando, per evoluzione propria e per l'effetto "europeo" della lotta antifascista dei Baschi e della rinascita dell'irredentismo degli Irlandesi, l'Italia di un boom economico in declino, conosce un '68 nascosto: la trasformazione della cooperazione delle nazionalità in un vero e proprio Movimento Nazionalitario.
Nel 1975 si costituisce a Milano il CIEMEN (Centro Internazionale Escarré per le Minoranze e per le Nazionalità) che subito attiva una segreteria ad Aosta pubblicando, tra l'altro, la rivista "Minoranze".
Nel 1976 l'UV, animata da Bruno Salvadori, lancia l'idea della costituzione di una Federazione delle Minoranze Etniche dello Stato italiano da costruire con il PSd'Az., la SVP, il MF, il MAO e la S.S.
Le prime elezioni dirette del Parlamento Europeo si avvicinano e le nazionalità si pongono il problema di non essere escluse da questa importante assise.
In Piemonte, Lombardia e Veneto, intanto, c'è fermento tra le associazioni culturali che si occupano di tradizioni, lingua e cultura e nel 1975 l'on. Fanti lancia l'idea di aggregare le Regioni del Po in una Regione di rilievo economico nella dimensione europea.
Così, quando la legge elettorale per l'elezione degli 81 rappresentanti dello Stato Italiano nel primo Parlamento Europeo eletto direttamente dal popolo, evidenzia che né le nazionalità né le Regioni sono tenute in considerazione e, quindi, rischiano di non esser rappresentate nel Parlamento Europeo, Salvadori lancia la sfida: una lista con il simbolo dell'UV parteciperà alle elezioni europee del 1979, componendo una coalizione di forze nazionalitarie, autonomiste, regionaliste, federaliste e presentandosi in tutte le circoscrizioni elettorali, già allora concepite come una sorta di Macroregioni.
Dalla coalizione restano esclusi la lista triestina del Melone (troppo localista e antislovena), la SVP (che sceglie la strada dell'apparentamento con la DC) e il PSd'Az. (troppo debole, all'epoca, per poter sostenere un impegno così gravoso). Entrano in coalizione - invece - molti dei movimenti politico - culturali del neo regionalismo italiano, quali la Liga Veneta e Rinascita Piemontese; il fenomeno del leghismo muove i suoi primi passi prendendo come modello politico l'UV e come riferimento istituzionale l'autonomia valdostana: "Cento campanili non fanno una Nazione" commenta, tuttavia, in un articolo lo studioso Sergio Salvi che dopo aver pubblicato "le Nazioni Proibite", dedicato alle grandi nazionalità europee, pubblica anche "Le lingue tagliate", riservato alla trattazione della situazione interna allo Stato italiano, diventando l'intellettuale di riferimento delle battaglie nazionalitarie.
Salvadori oltre ad essere un uomo di punta dell'UV è anche un aderente al CIEMEN che chiede chiarezza e si contrappone nettamente ai leghismi; Salvadori spiega in questo modo il carattere politico e strategico della sua alleanza con il leghismo nascente; è una scelta che fa riferimento al federalismo alpino, ipotizzando la nascita di una Repubblica Federale i cui soggetti dovrebbero essere i Cantoni (Le Repubbliche della Svizzera e le nazionalità nella proiezione attuale) e le Regioni (entità territoriali amministrativamente decentrate).
Questa lista europea ottiene 165 mila voti, ma non riesce ad eleggere un suo rappresentante nel Parlamento Europeo.
Nazionalità, intellettuali e partiti italiani dagli anni 70 agli anni 80
La spinta di rivendicazioni che, anche nel linguaggio, superano sempre più coerentemente l'equivoco di definirsi soltanto regionalistiche e autonomistiche, per riconoscersi nazionalitarie e considerano esplicitamente il regionalismo solo una tappa intermedia verso l'esercizio dell'autodeterminazione ("l'indipendenza" per i sardisti, "la sovranità nazionale" per i valdostani, " la spartizione subito" per i sudtirolesi, ecc.) è il fatto politico saliente degli anni 70. Anche nella loro consistenza elettorale i movimenti nazionalitari non sono più marginali.
Sono sempre più frequenti i contatti internazionali (gli unici veri contatti internazionali perché stabiliti fra Nazioni e non fra Stati); le forze nazionalitarie moderate preparano quella che sarà la loro azione congiunta nel Parlamento Europeo: si costituisce, infatti, l'Alliance Libre Europeenne (ALE), alleanza - appunto - dei partiti nazionalitari, etnici ed autonomisti in Europa.
La risposta della sinistra in Italia è di due tipi. Da un lato intellettuali come Sergio Salvi e, più tardi, Domenico Canciani e Paolo Pistoi, rivendicano i diritti inalienabili delle nazionalità, compreso quello all'autodeterminazione; dall'altro l'area comunista, dopo aver per anni stigmatizzato il carattere sovrastrutturale delle rivendicazioni nazionalitarie, si trova in ritardo sul piano teorico rispetto alla sinistra nazionalitaria in Europa e, in Italia, si scopre spiazzata dalla solidità del fenomeno. Scrive Giovanni Berlinguer sul n. 18 di Rinascita del 1975: "Vi é la tendenza a far comunicare direttamente tra loro ladini, occitani, sardi, albanesi, friulani, valdostani in Italia e analoghe collettività sparse nel mondo (quasi con la parola d'ordine 'minoranze di tutti i paesi unitevi'), scavalcando così nel tempo e nello spazio le grandi correnti contemporanee della cultura e della storia, affidando agli esclusi anziché agli integrati (le classi lavoratrici), le sorti della rivoluzione".
Una risposta "cattolica" vera e propria non c'è, forse perché la Democrazia Cristiana (DC), partito di governo, partito-Stato, si sente controparte delle rivendicazioni nazionalitarie anche quando le nazionalità non negano i valori cristiani che le ispirano (il clero rappresenta spesso nella loro storia un elemento importante di conservazione della lingua e della cultura); l'attenzione politica degli intellettuali cattolici progressisti è rivolta, in questi anni, ai problemi della lotta sociale nell'America Latina che al "Terzo Mondo" interno all'Europa: le minoranze nazionali. Tra il 1970 ed il 1977, però, è l'azione di un gesuita, Egidio Guidubaldi, ad interpretare in modo originale e militante il fenomeno del risveglio nazionalitario: "Assai confortevole - scrive Guidubaldi - riesce l'attenzione alle piccole etnie maturata con la recente Conferenza Internazionale delle Minoranze a Trieste ('74), che in Aldo Moro ha trovato il suo più attivo sostenitore; a dargli ragione intervengono l'O. Spengler della proclamata fine dell'Occidente e il T. S. Eliot che, mentre conferma il verdetto - morte preannuncia anche l'automatica riaccensione dei primordi della cristianità; il Freud della civiltà in disagio, con il perentorio requiem per tutte le roccaforti dell'intellettualismo; e il Lévi-Strauss del ricorso alle culture alternative come unici, possibili, vivai di ricambio, e la cui migliore applicazione si trova proprio nelle tante colonie del capitalismo culturale europeo rimaste a tutt'oggi soffocate per lo strapotere dei grandi insiemi".
Per quanto imprecisi, sono questi gli interventi che sintetizzano un interesse impostosi alle grandi correnti del pensiero politico italiano grazie alla vitalità delle nazionalità.
Verso la fine degli anni 70, come abbiamo visto, nasce in tutta Italia un neo regionalismo che conosce anche alcuni successi: il Melone di Trieste, la Liga Veneta, e altri, andando a caccia di accordi con i movimenti autonomisti storici, assumono il linguaggio delle rivendicazioni nazionalitarie, chiedono l'autodeterminazione, si definiscono "Nazioni".
Il fenomeno è interessante perché documenta quanto sia grande il bisogno di vero decentramento in Italia, ma è anche contraddittorio: la sezione italiana dell'AIDLCM di sfascia perché vorrebbe allargare l'applicazione della tutela prevista dall'art. 6 della Costituzione, alle lingue regionali quali il piemontese, il veneto, il lombardo, ecc.; per i rappresentanti delle nazionalità l'applicazione dell'art. 6 le riguarda - invece - in modo esclusivo e per affermare con forza questo principio escono dall'AIDLCM
A Milano, intanto, nasce la rivista "Etnie" che accomuna in una stessa linea editoriale la trattazione delle problematiche delle nazionalità, delle culture popolari, delle Regioni, del folklore. L'europarlamentare socialista Arfè è determinante nel Parlamento Europeo per l'approvazione di una Carta dei diritti delle minoranze che dà impulso alla costituzione di un "Ufficio europeo delle lingue meno diffuse" la cui sezione in Italia, è gestita da uomini del Partito Socialista Italiano (PSI) e non da rappresentanti delle nazionalità. In Valle d'Aosta è proposta dal PSI locale una teoria che ha breve vita: l'esistenza di una "nuova etnia", una sorta di popolo creolo che ha diritto all'autonomia regionale, ma non è più una nazionalità. Tutto ciò mentre il ministro socialista per gli affari regionali, Aniasi, afferma nel suo "Rapporto sullo stato delle autonomie" del 1982: "Già da qualche anno si è posta in dubbio la validità del sistema delle autonomie speciali, giungendo a ritenere prive di fondamento le autonomie speciali non basate su motivazioni di ordine linguistico tali da interessare, se non l'intera Regione, quanto meno una cospicua parte di essa: in breve, salvo l'Alto Adige e la Valle d'Aosta, da ritenersi - in un caso, almeno per motivazioni preminentemente storiche - territori con popolazioni alloglotte, non sussisterebbero ormai validi motivi alla sopravvivenza delle autonomie speciali.
Se dunque si vuol porre il problema in teoria si possono ipotizzare più soluzioni:
1. sospensione, sic et simpliciter, delle autonomie speciali;
2. riduzione di alcune autonomie speciali al rango di autonomie ordinarie;
3. limitazione delle autonomie differenziate agli ambiti direttamente collegati con la tutela delle minoranze linguistiche e accrescimento dei poteri delle attuali Regioni con l'attribuzione alle stesse della potestà legislativa primaria, come, del resto, prevedeva il progetto di Costituzione".
A capo del governo italiano, il socialista Craxi, nel suo discorso di insediamento, mentre fa promesse ai valdostani e ai sudtirolesi, chiude la porta in faccia alle altre nazionalità confermando che "lo Stato è indivisibile e la Nazione italiana è una sola".
Questa che può apparire una filippica contro il Partito Socialista in Italia è, in realtà, la cronaca di un confronto che le nazionalità in Italia hanno avuto con il PSI; questo partito si è proposto come il nuovo partito-Stato, ed è stato l'unico ad avere, nel bene e nel male, una strategia globale per affrontare il problema delle nazionalità.
E' un segno del cambiamento dei tempi in Italia: all'apatia DC dei tempi in cui i marchingegni burocratici statutari ai danni delle autonomie regionali già concesse, bloccavano la crescita di intensità delle rivendicazioni nazionalitarie; alle contraddizioni della sinistra comunista che condivide almeno le aspirazioni linguisitiche delle nazionalità, ma non sa appoggiarle perché non è in grado di gestire il movimento che esse costituiscono, si sostituisce il dinamismo socialista, pronto non solo a far fronte ad ogni contestazione del centralismo dello Stato, ma anche a contenere le battaglie, che - ormai - le nazionalità hanno coordinato, a livello europeo.
Tutto il lavoro preparatorio per una nuova legge quadro dello Stato Italiano che dia finalmente applicazione all'art. 6 della Costituzione repubblicana ("lo Stato tutela con apposite norme le minoranze linguistiche") è, comunque, coordinato da ... un socialista, l'on. Fortuna.
Per cogliere tutti i segni di un mutamento nella società italiana nei confronti del problema delle nazionalità non dobbiamo, però, dimenticare che una parte del clero sta tornando a praticare lingue e dialetti che aveva abbandonato bruscamente al momento del concordato fascista (1929); e che una parte del mondo giornalistico che ha conosciuto le nazionalità nel realizzare documentari o servizi meramente folkloristici, ne coglie finalmente i valori più veri e profondi ed è oggi dalla parte delle nazionalità: Edoardo Ballone, giornalista de "La Stampa", scrive libri ed innumerevoli articoli sulle nazionalità; Gigi Marsico, della RAI -TV, realizza documentari sul "mondo dei vinti", tanto onesti da meritare la censura dei poteri centralisti e la mancata trasmissione in onda; Massimo Olmi, anch'egli giornalista della RAI, membro della Lega Italiana per i Diritti delle Minoranze - sezione del Minority Right Group, direttore responsabile della rivista CIEMEN "Minoranze", accetta addirittura di essere candidato al Parlamento Europeo nella lista delle nazionalità presentata nel 1984.
Altri mutamenti stanno nella cultura (nasce il cinema, rinasce la musica, si rafforza il teatro e cresce l'associazionismo culturale delle nazionalità) e nel modo del lavoro: in Italia e in Europa è ormai vivo, organizzato, anche il sindacalismo delle nazionalità.
La voce di Alexander Langer .: su :.
Le nazionalità perdono in questa fase un'occasione di crescita politica e culturale: nell'area della nuova sinistra fa sentire la proprie voce il sudtirolese Alexander Langer, il quale intravede nel movimento nazionalitario o, almeno in alcune sue componenti, le negative caratteristiche del nazionalismo e delle sue chiusure; la sua voce alternativa è forte, ma il suo dialogo con le nazionalità, iniziato in un convegno a Milano, è troppo difficile per avere un seguito immediato: le nazionalità sono in piena fase di rivendicazione e di contrapposizione, Langer - invece - è uomo di dialogo e di confronto.
Gli anni 80
Gli anni 80 si aprono con un nuovo e più radicale impulso per le nazionalità. Sono gli anni della rinascita sardista: il PSd'Az. torna al Parlamento italiano con un deputato e un senatore, conquistando più di 100 mila voti. Sono gli anni della crescita valdostana: l'UV si conferma partito di maggioranza relativa in Valle d'Aosta, superando le divisioni interne. Sono gli anni del proporsi in modo nuovo della questione sudtirolese: la SVP non risponde appieno a tutte le istanze sud tirolesi, in Sud Tirol nascono nuovi gruppi politici, ma la consistenza del movimento sud tirolese è complessivamente ancora abbastanza forte da potersi contrapporre al fronte "italiano" capeggiato dal Movimento Sociale Italiano. Sono gli anni del superamento della "depressione" slovena: la S.S., il MF e gruppi spontanei spingono perché la tutela degli Sloveni non sia limitata alla zona di Gorizia, ma si attui in tutte le zone di lingua slovena. Sono gli anni del boom friulano di cui il MF non raccoglie, però, gli effetti elettorali potenziali: animati da una volontà di ricostruzione e di valorizzazione della propria identità dopo il terremoto che ha sconvolto il Friuli, 100 mila friulani rivendicano l'istituzione di una Regione Friuli a Statuto Speciale staccata dal territorio di Trieste. Sono gli anni del rilancio occitano, senza successi e clamori elettorali, ma con la riproposizione all'attenzione del governo italiano del problema della lingua occitana e dell'ipotesi di creare una Regione Occitana a Statuto Speciale. Sono gli anni anche di un nuovo fermento culturale nelle isole albanesi, grecaniche, croate, ladine, walser, ecc.
Anche le leghe ottengono risultati significativi. Alle elezioni politiche del 1983 la Liga Veneta consegue un risultato eccezionale superando i 100 mila voti e ottenendo l'elezione di un deputato e di un senatore.
Le nazionalità storiche, nel frattempo, rafforzano i loro rapporti ed allentano quelli con i gruppi leghisti, regionalisti, autonomisti, neocampanilisti che in Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia ecc. tentano di usare il fenomeno Liga Veneta come cassa di risonanza.
Le elezioni europee sono imminenti; nuove alleanze si costruiscono in vista di questo appuntamento del 1984.
Il federalismo in chiave sindacale
Il primo maggio del 1982, il SAVT, Sindacato Autonomo Valdostano dei Lavoratori, celebra 30 anni di vita invitando ad Aosta i sindacati dei lavoratori delle minoranze nazionali d'Europa: nasce così il CPSN, Comitato Permanente dei Sindacati Nazionalitari, che nel documento sostitutivo richiama l'importanza primaria dei problemi economici smentendo un'opinione diffusa che considera i movimenti nazionalitari portatori soltanto di una rivendicazione linguistica e culturale. I tre sindacati nazionalitari che operano in Italia (SAVT in Valle d'Aosta - ASGB in Sud Tirolo - SSS in Slovenia) cooperano con i collettivi sindaci occitano e friulano, mentre in Sardegna la nascita imminente di un sindacato sardista è imminente. Contrariamente a ciò che i sindacati italiani mostrano di temere, il sindacalismo nazionalitario rivendica la propria identità nel contesto dell'unità dei lavoratori, smentendo ancora l'opinione pubblica che considera le lotte nazionalitarie, lotte di campanile, grette e chiuse in se stesse. Il SAVT è tra i primi in Italia a capire che i problemi del sindacalismo non sono più soltanto interni ad ogni Stato; al suo Congresso del 1981 le tesi per un sindacalismo nazionalitario ripropongono i problemi dell'unità europea, contestando, anche in questa specifica occasione, l'Europa degli Stati.
Il Sindacalismo Nazionalitario è, quindi, maturo; nel 1985 in Sardegna si costituisce ufficialmente la Confederazione Sindacale Sarda (CSS), un altro tassello del Movimento Nazionalitario.
Il federalismo in chiave meridionale
In occasione delle elezioni europee del 1984 un appoggio spontaneo al movimento delle nazionalità arriva dal Movimento Politico Meridionale (MPM): gli intellettuali che da quasi 20 anni lavorano alla rivista "Quaderni del mezzogiorno" danno voce politica ad un'esigenza autonomista che travalica i limiti territoriali della Calabria dove il Movimento è nato, e ripropongono, in maniera del tutto diversa da ogni esperienza precedente, la questione meridionale.
"Il Meridione è stato ridotto ad un'area di disgregazione sociale e di camorrismo pubblico e privato", scrive il MPM; "gli uomini politici meridionali sono intrisi di cinismo fino al midollo. Tale situazione si protrae dai tempi del Risorgimento, quando, nel giro di 20 anni, il Meridione fu allegramente spogliato delle sue enormi risorse di oro; l'industria napoletana fu distrutta con mille trucchi finanziari; il gran processo di rinnovamento delle campagne, avviato sotto gli ultimi Borboni, fu bloccato nel 1887. Al popolo basso fu lasciata l'alternativa di emigrare o di darsi al brigantaggio. Quando sul finire del secolo nacquero i partiti di massa, essi furono naturalmente nordisti. Il fascismo cancellò la stessa espressione 'questione meridionale'. Anche la grande cultura fu sospinta ad emigrare. Caduto il fascismo, anche per il Partito Comunista Italiano i contadini meridionali non ebbero altra funzione che raccogliere voti da spendere a Torino, Milano, Bologna. E arrivò anche il momento che il paese era così ricco che non sarebbe stata impresa possibile riequilibrare le economie del nord e del sud. Ma all'industrializzazione del Meridione i comunisti vollero far precedere lo sviluppo dell'Emilia Romagna e i democristiani quello delle Regioni venete".
Il meridione, oltre ad avere una propria specifica identità che potremmo definire "nazionale", comprende nel suo territorio le nazionalità in assoluto meno tutelate dello Stato italiano: gli Albanesi, i Grecanici, i Croati, i Francoprovenzali. E' anche tutto ciò a rendere naturale l'inserimento della problematica meridionale nel contesto del Movimento Nazionalitario.
In questa stessa ottica si pone anche il problema siciliano. Il Movimento d'Azione Autonomista, con altre esperienze "progressiste" che si organizzano in Sicilia, si presenta, come il MPM, in quanto movimento politico progressista e autonomista. La mafia e la corruzione, la camorra ed il clientelismo non sono le uniche carte d'identità del Sud e delle isole.
Nazionalità e leghismi
Un documento dell'ufficio che a partire dal 1984 coordina UV, MAO, MF, SS e PSd'Az. evidenzia le ragioni della contrapposizione tra nazionalitari e leghisti.
Afferma il documento: "La crisi che investe lo Stato italiano non è soltanto il riflesso della più generale crisi economica che interessa il mondo intero; è, invece, una crisi strutturale ed istituzionale. Ed è la crisi di credibilità del regime democratico italiano che, dopo una tardiva creazione delle Regioni a Statuto ordinario, non ha saputo (o voluto) renderle realmente partecipi della vita del paese, tentando di assimilare alla loro realtà ristretta anche le 'autonomie speciali' concesse nell'immediato dopoguerra. E' stata, questa, la logica di un regionalismo inteso soltanto come decentramento burocratico di un potere consolidato sempre al centro. Il decentramento è, indubbiamente, uno strumento valido quando è reale, ma le istanze delle nazionalità vanno ben al di là del decentramento e della rinascita delle identità regionali.
Rinascono le culture popolari la cui presa di coscienza dà vita, spesso, a nuovi movimenti e partiti che agiscono negli ambiti locali e regionali; si diffonde in interesse (o è soltanto curiosità? o peggio, tentativi di strumentalizzazione?), generalizzato per le 'minoranze nazionali'; ci si preoccupa di tutte le situazioni di 'minoranza' nella condizione sociale, personale, culturale, culturale, religiosa.
Nessuno più delle nazionalità guarda con simpatia al nascere di una diffusa coscienza regionalista; solo un rinnovamento in senso regionalistico ed autonomistico dello Stato può garantire una vera tutela per le culture popolari, i dialetti, le tradizioni locali e salvare, nel contempo, l'identità nazionale di quelle comunità prive di un'omogenea territorialità (gli Albanesi, i Greci, e i Croati). Ma all'interno dello Stato sei nazionalità, la Valle d'Aosta, l'Occitania, il Friuli, il Sud Tirolo, la Slovenia e la Sardegna non sono soltanto individuabili etnicamente e linguisticamente, ma hanno una specificità territoriale e, talora, inglobano al loro interno piccole nazionalità o frammenti di nazionalità (i Walser in Valle d'Aosta, i Ladini in Sud Tirolo, i Catalani in Sardegna).
Sono queste le nazionalità che acquisiscono anche l'energia politica per contrapporsi alle forze politiche "italiane" rivendicando una riorganizzazione dello Stato su basi federali, facendosi portavoce delle nazionalità che non hanno voce, aprendo spazi per le più piccole nazionalità e per le rivendicazioni di tipo regionalistico. Il Movimento Nazionalitario si propone in questo modo: il suo senso di "indipendenza" è la memoria storica delle sue componenti".
Da questa posizione nasce una contrapposizione di carattere elettorale: per le elezioni europee del 1984, UV e PSd'Az. guidano una lista nazionalitaria, mentre la Liga Veneta promuove la lista "Unione per l'Europa dei Popoli" che raggruppa tutto il neoleghismo; la SVP, invece, ripropone l'accordo con la DC e ricorre al meccanismo dell'apparentamento.
Mentre le nazionalità eleggono al Parlamento Europeo Michele Columbu del PSd'Az. e la SVP è, ancora una volta, favorita dall'accordo di appartamento con la DC, le leghe raccolgono 165 mila voti, ma non ottengono nessun seggio europeo. Il risultato evidenzia che il leghismo sta cambiando leadership: dalla Liga Veneta la guida del leghismo passa alla Lega Lombarda di Umberto Bossi. Sta nascendo la Lega Nord.
Sempre più netta è, comunque, l'opposizione al leghismo portata avanti dal CIEMEN che ospita sulla rivista internazionale "Altres Nacions" commenti ed analisi evidenziando come, in buona sostanza, il fenomeno del leghismo sia interno al sistema politico italiano, ne sia un prodotto degenerativo; inoltre, afferma il CIEMEN, "il ricorso da parte della Lega ad una terminologia nazionalitaria inficia e danneggia il tentativo delle nazionalità vere di affermare i loro diritti che risultano confusi con il qualunquismo, la protesta, la xenofobia e l'antimeridionalismo di cui la Lega si fa portatrice".
La Lega rappresenta sedimentazioni storiche profonde della diversità tra il nord e il sud del paese, è l'espressione di un'opposizione alle istituzioni ed ai partiti dello Stato, si fa portavoce del disagio dei ceti medi produttivi; ma, osserva il CIEMEN, "all'interno dello Stato italiano, nelle dinamiche europee e nel diritto internazionale, ogni confusione su cosa sia una nazionalità e a chi si debba applicare il diritto alla autodeterminazione, risulta dannosa".
Il distinguo diventa presa di distanza e se alle elezioni europee del 1989 nazionalità e leghismi - di nuovo - non sono alleati, in altre scadenze elettorali la Lega si presenta con proprie liste anche là dove (in Valle d'Aosta e in Friuli, ecc.) l'esistenza di movimenti autonomisti storici l'aveva - fino ad ora - sconsigliata a presentarsi.
Alle "europee" del 1989, comunque, si ripete il successo della lista "nazionalitaria", rafforzata dall'adesione di un nuovo partito sudtirolese, la Sudtiroler Heimattbund (SH) ed il sardista Mario Melis è eletto nel Parlamento Europeo. La Lega che, nel frattempo, si è rafforzata, supera la prova delle elezioni europee ottenendo alcuni seggi; l'UV e il PSd'Az. le impediscono, tuttavia, di entrare a far parte dell'ALE, organizzazione dei partiti e movimenti autonomisti d'Europa.
Un convegno promosso a Bolzano da circoli culturali, mette in grave imbarazzo la SVP: senza mezzi termini valdostani, occitani, friulani, sloveni e sardi la accusano di scarsa solidarietà.
Un progetto federalista
Fino alla seconda metà degli anni 80 nessuno formalizza una proposta articolata e definita di trasformazione dello Stato italiano in senso federalista.
Nei discorsi e nei documenti delle nazionalità è chiaro che ciascuna ipotizza il riconoscimento della propria identità e del proprio territorio in un futuro assetto istituzionale federale; ma non c'è, non è pensata, una "cartina" che schematizzi visivamente la nuova articolazione territoriale cui le nazionalità guardano.
Il CIEMEN sta predisponendo due "carte" fondamentali, la mappa "l'Europa dei Popoli" e la Carta su "Le lingue nel mondo" che indicano, graficamente, il chi è ed il dove delle nazionalità.
All'interno della Lega si sentono i primi proclami su di un federalismo che preveda l'esistenza in una prima formulazione di tre Italie, in una seconda di due, ecc.
Nemmeno l'UV presenta una proposta definita, ma ospita sul suo settimanale "Le Peuple", una riflessione su come potrebbe articolarsi lo Stato federale: una rilettura delle specificità regionali, delle identità nazionali, delle autonomie già esistenti porta ad una schematizzazione ed alla seguente affermazione: "fin tanto che l'Italia esisterà, o se deve esistere come realtà federale, 10 sono le entità (lander, repubbliche, regioni o altro) che dovrebbero comporla:
ROMANDIE con la Valle d'Aosta e le Valli Francoprovenzali del Piemonte;
L'OCCITANIA;
LA SLOVENIA con le Valli intorno a Gorizia, l'est di Udine e l'hinterland della costa di Trieste;
IL SUD TIROLO;
LA LADINIA comprendente il Friuli (senza la Venezia Giulia) i territori di lingua ladina, la circoscrizione di Porto Gruaro Veneto attuale);
LA PADANIA comprendente la Liguria, il Piemonte (senza le zone Francoprovenzali ed Occitane), la Lombardia, l'Emilia Romagna, il Veneto;
LA TOSCANA senza la Romagna toscana e senza la provincia di Massa Carrara (Emilia);
IL MERIDIONE con una suddivisione sub-regionale articolata diversamente da ora e con autonomie cantonali per le varie piccole nazionalità;
LA SICILIA;
LA SARDEGNA.
La proposta è fortemente innovativa ed apparentemente utopistica: risponde, però, oggettivamente ad un criterio etnico e storico. Nessuno si accorge che il progetto formula un'identificazione della "Padania" che anticipa la stessa scelta in tal senso della Lega Nord che quando di Padania parlerà, di lì a poco, lo farà comprendendovi Valle d'Aosta, Friuli, Slovenia, Tirolo, Occitania, rendendo la sua proposta non compatibile con le istanze nazionalitarie.
Una Lega "nazionalitaria"
Quando lo scioglimento della sezione "italiana" dell'AIDLCM appare inevitabile per le ragioni prima ricordate, sono i friulani, gli occitani ed i valdostani a determinarlo: la ragione è l'incompatibilità nella rivendicazione di diritti specifici, tra lingue nazionalitarie e lingue o dialetti regionali; non perché sussista una scala di valori che indichi le une più importanti delle altre, ma soltanto perché i destinatari delle garanzie previste dall'articolo 6 della Costituzione vanno individuati proprio nelle nazionalità le quali osservano - tra l'altro - che applicare a loro favore norme concepite solo per loro, non impedisce interventi di diverso tipo a favore di altre problematiche culturali e linguistiche.
Allo scioglimento della sezione italiana dell'AIDLCM, comunque, le nazionalità decidono di dar vita ad un'altra organizzazione di base che rappresenti le istanze linguistiche: nasce la LELINAMI, Lega per le Lingue delle Nazionalità Minoritarie dello Stato italiano.
La Costituzione di questa "Lega" corrisponde ad uno dei momenti di maggior attesa della discussione in Parlamento di una Legge quadro per l'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione.
Nello statuto della "Lega" si leggono i seguenti propositi:
"1 - salvare l'identità linguistico - nazionale delle nazionalità minoritarie comprese nello Stato italiano;
2 - promuovere le condizioni per la valorizzazione e lo sviluppo delle stesse mediante il ricorso a tutte le iniziative democratiche di ordine culturale, politico e istituzionale ritenute possibili e necessarie; in particolare la Lega farà in modo che sia almeno applicato l'articolo 6 della Costituzione"
Gli aderenti alla Lega sono, in buona parte, gli stessi del CIEMEN, tanto che il problema viene posto: perché creare una "Lega" se un organismo di cooperazione e rivendicazione già c'è? Lo sdoppiamento non determina, comunque, problemi di nessun genere tra le due organizzazioni, tanto che CIEMEN e LELINAMI agiscono unitariamente in un frangente particolare: dopo l'approvazione da parte del Parlamento Europeo della "Carta Arfè" nasce il Bureau Europeo per le Lingue Meno Diffuse, organismo che si propone di rappresentare di fronte alle istituzioni e agli organismi europei le istanze delle lingue di minoranza; il Bureau si struttura attraverso Comitati che, nei singoli Stati, dovrebbero rappresentare le organizzazioni di difesa e di valorizzazione delle lingue; il Comitato che nasce in Italia, però, il COMFEMILI. (Comitato Federativo delle minoranze linguistiche) è gestito dal PSI; nessuna delle organizzazioni storiche della rivendicazione dei diritti linguistici delle nazionalità in Italia è nel COMFEMILI. che, nel frattempo, ottiene una sorta di legittimazione istituzionale ed opera con finanziamenti europei. CIEMEN e LELINAMI protestano insieme, richiedono dapprima una totale rivisitazione organizzativa del Comitato che dovrebbe rappresentare le minoranze linguistiche dello Stato italiano, poi la creazione di un'interassociazione che comprenda il COMFEMILI., la LELINAMI e il CIEMEN su un piano di parità, creando un più equo e rappresentativo Comitato. Nessuno dei due obiettivi è raggiunto e mentre la LELINAMI entra in crisi e resta presente solo in Friuli, il CIEMEN continua ad operare soprattutto in Valle d'Aosta, conservando l'ambizione di dare vasta eco in Italia al lavoro che la sue sede di Barcellona realizza in dimensione veramente internazionale: rappresentanti delle nazionalità dello Stato italiano partecipano, così, alla CONSEU (Conferenza delle Nazioni senza Stato) dove giocano un ruolo rilevante, alla manifestazione che porta all'approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti collettivi dei Popoli ed al complesso lavoro, questa volta su scala mondiale, che sfocia nell'approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti linguistici.
I successi leghisti e l'involuzione nazionalitaria (gli anni 90)
All'inizio degli anni 90 il movimento nazionalitario è ripiegato su se stesso: gli accordi di rotazione raggiunti dai partiti nazionalitari con il PSd'Az. per il Parlamento Europeo non hanno applicazione e questo toglie credibilità alla possibilità di continuare una cooperazione a livello politico, tanto che nelle successive edizioni delle elezioni del Parlamento Europeo (1994 e 1999), l'accordo tra partiti nazionalitari non si concretizza più; i sindacati non riescono ad andare oltre le dichiarazioni di solidarietà (e, del resto, sono esclusi dalle trattative che solo CGIL - CISL ed UIL intrattengono con il Governo e con le forze economiche e sociali sui grandi problemi); le organizzazioni culturali sono rimaste schiacciate, come abbiamo visto, dalla strategia politica italiana rispetto all'Europa.
Ad aggravare i problemi giungono anche i successi della Lega Nord che, nel frattempo si è strutturata dando nuovo impulso al leghismo; questo assorbe quasi per intero l'autonomismo friulano (che coglie attraverso la Lega Nord frutti che il MF non è mai riuscito a cogliere, tanto da giungere addirittura al governo della Regione Friuli Venezia Giulia!), recupera le simpatie del radicalismo sudtirolese (che non si riconosce nella SVP), schiaccia gli occitanisti, relega gli sloveni a poco convincenti alleanze elettorali; in vista di nuove scadenze elettorali il MPM ed il PSd'Az. (ripiombato in una crisi di consensi che lo ridimensiona notevolmente) scelgono accordi con il centrosinistra.
Eppure la Lega Nord ha accentuato, se possibile, le sue contraddizioni: va al governo dell'Italia a fianco di Berlusconi senza, però, far attribuire il Ministero delle Riforme Costituzionale al professor Miglio la cui visione del federalismo è, almeno, attenta alle problematiche delle nazionalità. Errori, l'andare al governo e non spingere per il federalismo, che farebbe perdere alla Lega tutta la sua credibilità di movimento alternativo allo Stato ed alle istituzioni, se Bossi non abbandonasse improvvisamente Berlusconi e non inventasse l'indipendentismo padano. In pratica Bossi sostiene che nessuno in Italia vuol fare davvero il federalismo e che, quindi, la parte produttiva del paese (il Nord, la Padania) deve liberarsi dal peso di un mezzogiorno sottosviluppato e improduttivo; Bossi assicura che quando la Padania sarà indipendente anche la Valle d'Aosta il Sud Tirolo, il Friuli, le nazionalità, potranno diventarlo: per quanto sia utopistica, questa proposta fa il suo effetto e - come abbiamo visto - avvicina al leghismo parte del consenso nazionalitario e delle stesse organizzazioni nazionalitarie.
Se la proposta di Bossi ha, comunque, una sua credibilità lo si deve ad un altro fatto: poiché per la nascita delle Regioni non sono stati la volontà popolare o il criterio democratico a valere, ma solo considerazioni politiche che hanno disegnato a tavolino i limiti territoriali di una mero decentramento (ed è ciò che Salvemini stigmatizzava); e poiché per la nascita delle stesse non è stato nemmeno il criterio etnico e linguistico a valere (tanto che gli occitani non hanno una Regione, i friulani nemmeno, ecc.), ci si chiede perché non può essere un criterio economico, come quello che ispira Bossi, a legittimare creazione, l'invenzione di una "patria" come la Padania. Perché no? Soprattutto se si pensa che mentre Bossi, considerato culturalmente grezzo, attribuisce alla sua Nazione Padana un'identità etnico - linguistica del tutto fittizia e solo presunta, ma comunque indicatrice del fatto che l'identità è considerata importante, la raffinata Fondazione Agnelli propone una riorganizzazione dello Stato attraverso la creazione di 12 Macroregioni, chiedendo la cancellazione le autonomie alle quali contesta spettino un'autonomia ed un trattamento finanziario e fiscale particolari, se pur in presenza di una loro specifica e storica identità.
Ha poco spazio in questa situazione l'iniziativa dell'UV il cui parlamentare, Luciano Caveri, presenta una proposta di legge per la trasformazione dello Stato italiano in senso federale secondo la quale le attuali Regioni diventerebbero Repubbliche dello Stato federale. Sull'opinione pubblica la proposta ha scarso effetto. Nelle aule romane ne ha ancor meno, poiché la Bicamerale, istituita da maggioranza e minoranza per riorganizzare le istituzioni, non la prende neppure in esame.
Negli ambienti nazionalitari la proposta è mal vista: la rinuncia al particolarismo delle attuali Regioni a Statuto Speciale, determinando l'omologazione dell'identità e il diritto di tutte le attuali Regioni, esprime una posizione regressista. Le autonomie speciali costituiscono, infatti, il riconoscimento implicito, quantunque non dichiarato, dell'esistenza nello Stato di nazionalità diverse da quella italiana; lo stesso articolo 6 della Costituzione rappresenta un riconoscimento in tal senso: i costituenti, infatti, sostituirono la dizione inizialmente prescelta "tutela delle minoranze etnico -linguistiche" con quella di "tutela delle minoranze linguistiche" proprio per evitare un esplicito riconoscimento identitario, formulando, invece, soltanto il principio di un generico diritto culturale. In sintesi la domanda ricorrente negli ambienti nazionalitari è: la seguente: "che ne è delle nazionalità nel progetto dell'UV?"
I risultati del movimento nazionalitario e la nascita dell'Associazione per i popoli minacciati
Il movimento nazionalitario è spento da questa sommatoria di negatività?
Prima di trarre questa o altre negative conclusioni è bene guardare ad alcuni risultati che le nazionalità hanno raggiunto.
Guardiamo, anzitutto, a due documenti già volte citati: la Dichiarazione Universale dei Diritti collettivi dei Popoli e la Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici. Benché buona parte delle Dichiarazioni Universali abbiano un valore puramente morale, in assenza di un Diritto Internazionale che ne sanzioni, ne punisca concretamente le violazioni, queste due Dichiarazioni hanno una caratteristica che le rende uniche: sono state volute, concepite, scritte dalle nazionalità stesse, dal movimento della nazionalità su scala addirittura extra - europea; tutte le altre Carte e Dichiarazioni sono state scritte e descritte per l'esigenza degli Stati e delle istituzioni internazionali da questi costruiti, di regolare i rapporti e il ruolo di etnie, minoranze, Nazioni alle quali non è, tuttavia, concesso rappresentarsi direttamente nel consenso internazionale; sono cioè - per quanto illuminati e democratici - documenti che sanciscono la dipendenza proprio nell'affermare diritti particolari.
E', quindi, importante che chi ha coscienza di questo sappia operare affinché, a tutti i livelli (politici, sindacali, culturali, internazionali), le nazionalità facciano riferimento a questi documenti, li legittimino, li rendano patrimonio diffuso della propria cultura, li considerino - cioè - davvero un risultato concreto del loro impegno.
Guardiamo, poi, alla situazione della tutela linguistica ai sensi dell'articolo 6 della Costituzione italiana: anzitutto vi è da dire che, negli ultimi anni, con apposite leggi regionali, il friulano e il sardo sono stati riconosciuti lingue di pari diritto rispetto all'italiano e, per quanto riguarda il friulano, oggetto di una standardizzazione e codificazione che lo rende lingua normale a tutti gli effetti: anche questo è un risultato atteso da decenni ed al cui raggiungimento hanno lavorato le migliori intelligenze, quelle più sensibili ed impegnate nel movimento nazionalitario.
Rispetto alle altre lingue l'attesa ha consumato le resistenze residue di alcune (un rapporto dell'Unione Europea evidenzia la profonda crisi di quelle più piccole, geograficamente polverizzate in un mezzogiorno in disfacimento socio - economico) e allentato la rivendicazione di altre. Per gli occitani, ad esempio, la cui identità è oggi ridotta ad una caratterizzazione turistico - culturale dell'area in cui sono stanziati; uno specifico progetto così caratterizzato, ha in sé aspetti negativi ed aspetti positivi: l'intervento speculativo punta a consentire - infatti - se non un rilancio linguistico, almeno uno sviluppo economico. Il controllo della propria economia e delle proprie ricchezze è stato uno degli obiettivi del federalismo alpino e del movimento nazionalitario: gli effetti della attuazione di questo progetto vanno, quindi, apprezzati e possono essere considerati il frutto di un lavoro.
Ma il risultato più positivo del Movimento Nazionalitario è l'aver seminato attese ed entusiasmi al punto che nuove energie, nuove organizzazioni si sono fatte avanti trovando una ricca eredità: a Bolzano si è costituita una sezione della Associazione per i Popoli Minacciati che si sta muovendo bene, trascinando dietro a se l'impegno delle altre sigle, delle altre organizzazioni: l'APM ha presentato a Roma vari documenti sulla applicazione dell'articolo 6 della Costituzione firmati anche dal CIEMEN, dalla FUEV e dal COMFEMILI.
Nuove dinamiche vengono attivate congiuntamente da esponenti valdostani, sloveni e friulani; con un incontro ad Aosta e Convegni a Milano e a Cagliari, sulla spinta particolare di Ferruccio Clavora, friulano - sloveno, le problematiche linguistiche sono state affrontate insieme al mondo della emigrazione e con un taglio innovativo: anche nella emigrazione, infatti, la lingua d'origine va preservata, pur tenendo in considerazione la lingua della comunità ospitante; i friulani che vivono in Sardegna, i sardi che vivono in Valle d'Aosta, ecc. rappresentano un grande potenzialità culturale ed un grande esempio di continuità nella preservazione delle identità originarie e nel rispetto delle lingue delle comunità ospitanti. Questa importante riflessione sul problema della conservazione delle identità anche a fronte del problema della emigrazione e della immigrazione, viene proposta mentre sardi e friulani sono già pronti ad attivare progetti e programmi di insegnamento informatico e telematico della lingua riservate ai loro emigrati. E mentre l'Europa, l'Italia e le nazionalità dello Stato italiano sono come invase da una massa di migranti terzomondiali.
Critica della ragion regionale
Dopo l'approvazione della Carta Europea per le Lingue Minoritarie e Regionali e dopo l'attivazione, in conseguenza del Trattato di Maastricht, del Comitato delle Regioni, il porsi del problema delle lingue pare orientativamente indirizzato verso la sola dimensione locale, regionale e comunale; in tal senso sembra indirizzarsi anche l'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione che, finalmente, è stata formalizzata con un'apposita legge dello Stato dopo più di 50 anni di attesa.
In Italia sono ormai numerose le leggi regionali che favoriscono, valorizzano, sostengono le diverse espressioni linguistiche; la legislazione rivolta ai Comuni, ha aperto, in materia strade nuove: la legge statale 142, quella che consente, e anzi obbliga, i Comuni ad approvare un proprio Statuto interno, consente agli stessi di formulare un riconoscimento dell'esistenza di lingue specifiche e di regolarne l'uso perfino nella attività istituzionali delle amministrazioni locali; ciò ha fatto scrivere ad illustri giuristi che, di fatto, è superata la stessa rivendicazione di una "tutela" da parte dello Stato attraverso una normativa quadro.
Le formule di decentramento regionale che paiono, ormai, predominanti nei progetti politici più avanzati, sembrano delegare la soluzione del problema linguistico ad una sorta di autotutela: là dove esistono, le lingue potrebbero, cioè, tutelarsi da sole ricorrendo alle istituzioni loro più vicine, Comuni, Comunità Montane, Regioni.
Non viene meno, tuttavia, il riferimento alla legge quadro dello Stato poiché i limiti della autotutela sono evidenti: tra questi ci sono quelli legati ai programmi scolastici ed alle necessità di utilizzare le lingue delle cosiddette minoranze come lingue di insegnamento e come lingue da insegnare.
La lingua sarda e la lingua friulana hanno incontrato non poche difficoltà ad essere riconosciute prima che la Regione Sardegna e la Regione Friuli Venezia Giulia ottenessero il visto governativo per specifiche (quantunque limitate) leggi regionali di tutela.
E permane una condizione di disparità di trattamento non tanto o non solo tra lingue diverse (il tedesco del Sud Tirolo è più favorito rispetto a tutte le altre...), ma all'interno delle stesse lingue: il ladino e lo sloveno hanno formule di tutela diversificata da una zona all'altra; il francoprovenzale, poco tutelato in Valle d'Aosta dove, comunque è valorizzato in quanto espressione dialettale, non lo è praticamente per niente in Piemonte; le isole germaniche delle Alpi costituiscono ormai, quasi solo una presenza folcloristica; gli albanesi sono suddivisi tra realtà regionali diverse che assicurano livelli difformi di tutela e nessuna forma di unità della lingua.
Il problema che si pone è molto delicato: è, ormai, chiaro che lo Stato italiano non diventerà una Repubblica Federale, il che chiude alle nazionalità la possibilità di guardare a questa ipotesi come ad un obiettivo valido per ciascuna o per tutte insieme; il massimo risultato ottenibile sembra essere la conservazione della situazione attuale, fortemente discriminatoria per alcune, minimamente garantista per le altre. Uno spazio aperto sembra esser anche quello culturale: musica e tradizioni - ad esempio- possono sopravvivere sull'onda (ma fin quando durerà?) di una moda di massa; la diffusione ed il successo della cultura etnica hanno consentito l'emergere di "testimonial" delle identità che si sono affermati al di fuori del ristretto territorio di appartenenza: un disco dei Troubaires de Coumboscuro (con De Andrè, Stivell, Yacoub e i Tazenda) il cinema sardo; gli scrittori mitteleuropei, sono esempi di un fenomeno che vede nelle riconosciuta caratterizzazione, nelle radici, nelle diversità culturali, elementi tanto rilevanti che la cultura dominante tenta addirittura di proporli come una sua intrinseca componente.
Questo è, quindi, un momento pericoloso: è stata pericolosa l'emarginazione; lo è stato il centralismo che ha attivato i processi di italianizzazione; lo è stato la negazione dei diritti fondamentali e di quelli costituzionali; lo è ancor più questa omologazione che vorrebbe rendere "italiana" la cultura e la lingua di cui sono portatrici le nazionalità, considerandole - tutto sommato - compatibili con un'identità altra, quella italiana. Se esistono variabili e varianti dell'identità italiana, queste vanno cercate nelle specificità di tipo regionale, di tipo dialettale che sono importanti ed arricchiscono la cultura italiana, mentre di essa si arricchiscono. Per le nazionalità, invece, il discorso è tutto un altro e neppure la più profonda crisi identitaria può fare di un tirolese, di un ladino, di un sardo, di un valdostano, ecc. semplicemente degli ... italiani.
La criminalizzazione delle rivendicazioni nazionalitarie
Per paradossale che sia è ancora necessario ribadire che una cosa è lo Stato ed un'altra la Nazione: ribadirlo è il compito delle intelligenze delle nazionalità operando, rispetto a quest'esigenza, ancora con la stessa sensibilità che è stata una caratteristica del movimento nazionalitario.
La stessa sensibilità deve consentire una lettura delle problematiche "europee" in chiave non statalista. L'esempio che evidenzia un fatto pericoloso per le nazionalità quale è la criminalizzazione delle rivendicazioni nazionalitarie, viene da quanto sta avvenendo nei Paesi Baschi. Sull'onda emozionale che ogni morte porta con se, nei Paesi Baschi e in Spagna, si ripetono con una certa frequenza le mobilitazioni popolari contro l'ETA e contro il movimento Herri Batasuna. Passata l'emozione bisogna chiedersi: "perché le mobilitazioni contro le violenze si siano avute solo adesso"? Per trovare una risposta bisogna analizzare a fondo la realtà: in Europa è in atto un processo di normalizzazione che vede nel raggiungimento di una vera unione politica ed economica, l'unica salvezza possibile per il capitale, per i mercati e per gli stessi Stati; questa normalizzazione è guidata dagli Stati che hanno disegnato per le nazionalità uno spazio ristretto, quello della dimensione e delle competenze regionali. Più o meno ampia che sia, l'autonomia delle nazionalità riconosciute in Europa solo come Regioni, è il risultato di una dipendenza; più o meno solida e consistente che sia la rappresentatività politica nazionalitaria di queste autonomie, essa ha uno spazio europeo sono nella dimensione regionale. La risposta all'interrogativo è tutta qui: anche il nazionalismo basco, va adattato a questa logica che, tuttavia, esso non accetta; Euskadi rappresenta la possibilità concreta che un'applicazione in un paese europeo Europeo del diritto alla autodeterminazione produca effetti significativi; un referendum sulla autodeterminazione, infatti, potrebbe alla nascita di uno Stato basco, sconvolgendo non solo i piani dello Stato spagnolo, ma le stesse dinamiche di costruzione dell'Europa degli Stati. Alla negazione del diritto alla autodeterminazione si accompagna il tentativo di invertire la scala dei valori identitari in modo che i baschi (e, con analoga procedura, tutte le nazionalità rispetto alla loro situazione) si considerino prima di tutto europei, poi spagnoli e solo infine, baschi, individuando ancora, un'ulteriore suddivisione della loro identità unitaria per contrapporre baschi francesi e baschi spagnoli, per distinguerli - ancora - in pirenaici e atlantici. La volontà di determinare una frammentazione identitaria e la lotta contro il diritto alla autodeterminazione sono le vere motivazioni delle mobilitazioni contro la violenza dell'ETA; si tratta, quindi, di ragioni molto meno nobile di quelle addotte formalmente e riferite al dramma delle vittime della lotta armata, dimenticando quante sono le vittime basche di una repressione spesso inspiegabile che colpisce anche chi è soltanto sospettato di essere un etarra (un militante nazionalista basco).
E', in sostanza, un tentativo di criminalizzazione della rivendicazione nazionalitaria e non solo della rivendicazione basca, tentativo accentuato al momento del conflitto tra serbi e kossovari, per dimostrare che le rivendicazioni nazionalitarie sarebbero foriere di conflittualità permanenti e drammatiche.
Le nazionalità in Italia devono capire quanto perversa sia questa "cultura" dell'integrazione europea a tutti i costi e partecipare, con questa coscienza, ad istituzioni quali il Comitato delle Regioni (che non ha poteri), o ad istituti quali la Cooperazione transfrontaliera., ecc. che solo apparentemente rappresentano spazi nei quali l'identità dei popoli ed i diritti ad essa connessi potrebbero trovare una collocazione. E devono respingere ogni tentativo di criminalizzazione delle istanze nazionalitarie, evitando le involuzioni politiche nelle quali - purtroppo - soprattutto valdostani e sudtirolesi, sono caduti spesso addirittura inducendo il sospetto che ci si trovi di fronte ad una fascistizzazione della loro rivendicazione politica identitaria.
Critica della ragion identitaria .
Nel 1992 il CIEMEN ha diffuso in Italia il testo di un intervento che l'intellettuale francese Félix Guattari tenne a Bilbao nel 1985, intervento allora contestato dai portavoce delle nazionalità dello Stato italiano, nel quale Guattari, morto prematuramente nel '92, parlò di "quinto mondo nazionalitario". Facendo proprie, a suo modo, le ragioni delle nazionalità, Guattari ne evidenzia i limiti e l'impreparazione rispetto ai "movimenti immigranti", figurati nel corteo della lotte "minoritarie", insieme ai nuovi movimenti di liberazione della donna della sessualità, insieme agli ecologisti; parla di "affinità elettive" e di un'imminente "rivoluzione senza precedenti, una rivoluzione molecolare" destinata o al successo o al fallimento o all'esplosione in un forma catastrofica, come successe in Italia negli anni '70. Vale la pena di ricordare l'amicizia di Guattari con l'intellettuale "rivoluzionario" Toni Negri.
Un particolare problema, secondo Guattari, è posto alle nazionalità dal fenomeno delle immigrazioni di terzomondiali e di disperati che dalle varie aree del mondo, fuggono la fame, l'oppressione, le dittature e il sottosviluppo e raggiungono i paesi europei: è il problema della cosiddetta cultura e della civiltà multietnica. Difficile possa essere risolto in una realtà come quella italiana nella quale lo Stato ha fatto di tutto per negare diritti ed identità a nazionalità radicate storicamente; ancor più difficile ipotizzare il rispetto e la valorizzazione delle culture migranti quando queste si sovrappongono ad identità radicate geograficamente e storicamente, ma ancora prive di riconoscimento e di tutela.
Un certo progressismo fa ritenere necessario - ad esempio - assicurare un sostegno linguistico, a partire dalla loro lingua materna, ai bimbi terzomondiali che devono inserirsi nella scuola italiana, mentre questo stesso diritto alla propria lingua è stato negato ai bimbi nati e cresciuti nel territorio dello Stato italiano, ma appartenenti alla diverse nazionalità. Di recente si sono ancora verificati episodi di discriminazione linguistica, ad esempio in Sardegna, dove lo strumento della bocciatura è stato adottato in una scuola elementare nei confronti di bimbi che non conoscevano l'italiano! Il caso ha sollevato un certo clamore, ma non è stato l'unico, anche se a conoscere solo la propria lingua materna sono sempre in meno nell'Italia che con il fascismo prima, e poi con i partiti, la Tv e il gioco del calcio è riuscita a sovrapporre la conoscenza della lingua italiana su tutte le altre espressioni linguistiche.
Il problema della società multietnica è legato ad una serie di fraintendimenti culturali e, quindi, ad un rischio: l'immigrato che giunge in Italia, ammesso che riesca a superare lo scoglio della clandestinità e trovi lavoro, ricrea - se possibile - una propria comunità: nelle metropoli questo tipo di aggregazioni è consueto e consente un miglioramento della qualità della vita di questi sfortunati migranti; tuttavia ne rallenta l'inserimento e/o l'integrazione nella comunità ospitante ed impedisce loro di comprendere i meccanismi di dominio- minoranza in atto che fanno di loro utili e poveri strumenti del dominio.
In molti casi, inoltre, l'aggregazione degli immigrati non avviene per comunanza di reale identità, ma solo per appartenenza ad una non meglio identificata area geografica.
Si produce in questa situazione qualcosa di analogo al fenomeno della emigrazione "italiana" nel mondo. Pensiamo a cosa sono state, a lungo, le organizzazione degli emigrati italiani: all'estero gli "italiani" si sono aggregati pur essendo - in realtà - sardi, friulani, meridionali o valdostani, avendo - cioè - un'identità solo apparentemente uniforme. Pensiamo, allora, a cosa avviene in una nazionalità dello Stato italiano, fortemente caratterizzata dal punto di vista culturale e linguistico: un corretto approccio multietnico vorrebbe che i locali e gli immigrati si confrontassero e si integrassero, ma gli immigrati non appartengono ad un solo popolo; se hanno caratteri simili tra loro li hanno così come li hanno i popoli dell'arco alpino in Europa, accomunati - cioè - solo dal fatto di vivere in ambienti geografici simili, o come li avevano gli "italiani" emigrati nel mondo, accomunati non nell'identità vera, ma solo nell'appartenenza ad uno stesso Stato. Il confronto, la comprensione culturale e l'integrazione sono, quindi, difficili... e rischia di diventarlo anche la convivenza umana. Le regole che richiedono, prioritariamente, il rispetto dell'identità delle comunità ospitanti da parte degli immigrati, non vengono da questi rispettate perché lo Stato è il primo a non rispettarle.
Purtroppo su questo tema i movimento delle nazionalità non ha ancora saputo riflettere. Si fa sentire, quindi, solo la voce degli xenofobi i quali, invece di cercare nuovi strumenti di dialogo che consentano di superare i problemi, accentuano i motivi di contrasto e di contrapposizione.
Gli intellettuali "italiani" e le nazionalità degli anni 2000
In Italia nella discussione su queste considerazioni scaturite dalle provocazioni di Guattari, si sono distinti in modo particolare due intellettuali: Domenico Canciani, già citato per la sua attenzione ed adesione alle rivendicazioni nazionalitarie degli anni 70 e 80 e Sergio De La Pierre, un sociologo "valdostano" che vive e lavora a Milano: insieme hanno pubblicato il libro "Le ragioni di Babele. Le etnie tra vecchi nazionalismi e nuove identità" (1993), mentre De La Pierre ha presentato le sue "Nuove riflessioni sul nazionalismo e sull'etnismo" (1996) nelle quali descrive la sua visione politica: "sotto i termini etnie e rinascita etnico nazionale vengono a raggrupparsi, a ben vedere, fenomeni assai diversi ma con indiscutibili elementi comuni:
1. I movimenti etnico-linguistici con base territoriale...;
2. I movimenti regionalisti, localisti e di federalismo centrifugo...;
3. I movimenti dell'etnicità urbana e delle comunità culturali senza una significativa base territoriale (immigrati, rom ed ebrei)..."
De La Pierre cita Pistoi che nella presentazione critica la volume di Hetcher "il colonialismo interno" (1994) aveva scritto:
"Negli ultimi anni una serie di fenomeni sociali altamente visibili hanno pubblicizzato l'emergere di elementi ideologici ... valori che prendono corpo nelle rivendicazioni di democrazia diretta, di decentralizzazione, di autonomie, nelle esigenze di appartenenza e di realizzazione intellettuale, sessuale, estetica e religiosa.
Non solo la rinascita del nazionalismo etnico in occidente è più o meno colma col manifestarsi di questi fermenti ideologici, ma con questi nuovi fermenti democratici, partecipativi e ispirati alle esigenze espressive dei gruppi sociali essa è indubbiamente coincidente".
La nazionalità dello Stato italiano hanno già affrontato negli anni 70 un dibattito analogo, quando il professor Guidubaldi, fondando un Movimento Europeo Minoranze, ne indicò come parte integrante il movimento giovanile e il proletariato dei non - nati, in posizione antiabortista.
L'analisi di De La Pierre è interessante perché propone modelli di convivenza etnica prima non considerata da nessuno studioso delle questioni nazionalitarie: evidenzia che la dimensione "comunitaria" rende possibili nuove reti relazionali complesse, possibili solo se si costruiscono tra "diversi ed identificati" ed osserva che la Svezia sarebbe un modello di convivenza interetnica, contrapposta al modello francese dell'assimilazione culturale e al modello tedesco del separatismo etnico. Ripensare le identità è, quindi, un'esigenza inderogabile per il movimento della nazionalità dello Stato italiano che deve individuare nuovi modi di essere e di proporsi.
Ma per le nazionalità la Nazione è una categoria globale che comprende al proprio interno le classi, le diversità sessuali, le "regionalità" ecc. non potendo - per questo - considerarsi assimilabile ad esse o posta sul loro stesso piano, neppure per fare una battaglia civile insieme, ma cercando - piuttosto - di conglobarle e chiedendo rispetto ai portatori di un'identità altra, gli immigrati, attivando processi di convivenza e/o di integrazione che si attuino dando continuità alla cultura della Nazione stessa. Le nazionalità respinsero, quindi, le posizioni di Guidubaldi, si sono contrapposte
a quelle di Guattari, faticano ad accettare le posizioni di Canciani e di De La Pierre, così come non capirono la cultura del dialogo tra le culture proposta da Langer.
T
uttavia la rivolta "molecolare" di Guattari si sta concretizzando nel variopinto movimento che si contrappone alle logiche della mondializzazione, attraendo anche parte delle spinte nazionalitarie.
Critica alla ragion federalista
Il crollo dell'Impero Sovietico, la caduta del muro di Berlino, la nascita dell'Unione Europea hanno determinato profondi e significativi mutamenti anche all'interno di uno Stato italiano squassato dagli scandali di tangentopoli.
Abbiamo, così, assistito in questi ultimi anni alla scomparsa di forze politiche che avevano caratterizzato la storia degli ultimi 50 anni, sostituite da nuovi partiti che si sono posti nell'ottica della necessità di operare una polarizzazione della politica, creando alleanze politiche e di governo: l'Ulivo (centro sinistra) e il Polo (centro destra) dovrebbero essere, negli intenti delle nuove strategie istituzionali, i protagonisti di un bipolarismo attraverso il quale lo Stato si dovrebbe dare una nuova struttura, nuove regole di governabilità e di democrazia, nuove prospettive di sviluppo.
Tra le "novità" introdotte in un clima di nuova solidarietà "nazionale", necessaria ad affrontare i sacrifici economici imposti e dalle logiche europee e dall'inderogabile urgenza di sanare il disastro economico ereditato dalla "prima repubblica", la nuova costituenda "seconda repubblica" ha proceduto a legittimare, in quanto forza politica democratica, Alleanza Nazionale; A.N. è il partito che vuol rappresentare la nuova destra italiana, ma che, ciò facendo, non può non considerarsi l'erede della vecchia destra fascista, benché sottolinei che "i tempi sono mutati" e che "fascisti e repubblichini" (quanti - cioè - combatterono nella Repubblica Sociale) in fondo "si preoccupavano del bene dell'Italia", pur militando "dalla parte che la storia ha evidenziato come sbagliata".
La storia italiana si ripete: alla fine della fine della seconda guerra mondiale, l'Italia - già democratica - non esitò ad utilizzare ciò che restava del disciolto esercito della Repubblica Sociale Italiana per presidiare i sacri confini della patria, a fronte dei molti "pericoli" che l'unità della stessa correva nei territori di lingua francese, slovena e tedesca.
Sono singolari non tanto il "perdono" o la "pacificazione" a 50 anni di distanza dalla fine della guerra che fu anche guerra civile, quanto il fatto che se le "autonomie speciali" sono state concesse dallo Stato italiano proprio per evitare l'aggravarsi dei conflitti ai confini dello Stato, questo si è preoccupato prima di legittimare i post - fascisti e solo dopo di completare l'applicazione della Costituzione nata dall'antifascismo e dalla Resistenza, Costituzione che aveva promesso - tra le altre cose - la tutela degli alloglotti e che ha approvato la legge di tutela con più di 50 anni di ritardo, quando la sussistenza di alcune di esse è, ormai, compromessa.
Mai come in questo momento, dietro ad apparenti aperture di tutte le forze politiche su temi come il regionalismo, il decentramento, le autonomie ed il federalismo, sussiste una totale confusione che nasconde - è palese - intenti centralisti.
Si colloca in una strana posizione, in questo frangente, la Lega Nord, la cui consistenza elettorale al Nord è considerevole; dapprima la Lega si pone come l'interprete di un sempre più ampio dissenso, di una sempre più ampia protesta fiscale, disegnando un'ipotesi secessionista improbabile ma pur rilevante sul piano dell'incidenza politica; poi sceglie di collocarsi di nuovo a fianco di Berlusconi, condividendo il progetto politico del centrodestra: presidenzialismo e federalismo.
Le forze politiche nazionalitarie non riescono a trovare uno spazio in questo confronto e molte delle loro energie, come abbiamo visto, sono assorbite dalla Lega; del resto, nel momento in cui ha proposto la "secessione e la costituzione della Padania", la Lega aveva affermato che lo Stato italiano non ha nessuna intenzione di trasformarsi davvero in senso federalista e questa si rivelata una verità, mentre rinunciando al secessionismo, la Lega sembrerebbe aver trovato nel Polo un alleato leale per ottenere una devolution di poteri a favore delle Regioni del Nord.
Le nuove forze politiche e la logica dei poli hanno trovato un terreno di confronto sul mutamento istituzionale da determinare in Italia, creando una Bicamerale, soluzione alternativa a quella di una "Costituente" che avrebbe legato ai risultati di una sola tornata elettorale la composizione di un'istituzione cui affidare il rinnovamento dello Stato: Ulivo e Polo la cui forza e consistenza parlamentare sono oggi equilibrate, hanno scelto il terreno difficile del compromesso interno, preferendolo al rischio di uscire da un'elezione "costituente" ciascuna indebolita rispetto all'altra; inscenando l'esistenza di insanabili contrapposizioni hanno, poi, affossato i lavori della bicamerale e rinviato le riforme.
I lavori della bicamerale hanno, comunque, dimostrato che lo Stato non solo non diventerà federalista ma che, addirittura, punta a ridimensionare il significato e le competenze delle "autonomie speciali"; federalisti e nazionalitari sono indiscutibilmente sconfitti.
Nella tradizione democratica italiana il federalismo non è mai riuscito ad affermarsi come una corrente importante della politica, pur vantando illustri difensori e pur lasciando sempre aperta la porta ad una lettura della storia italiana di cui si possa dire che ha avuto anche Cattaneo, Salvemini, Trentin, Olivetti e Altiero Spinelli; è sintomatico, però, il fatto che la storia italiana, che la cultura federalista italiana, non abbiano recepito l'ampiezza e il valore delle analisi di Chanoux, di Lussu, di Fontan e non perché la loro elaborazione fosse qualitativamente inferiore (è vero il contrario), ma per la loro estraneità alla cultura politica italiana che non ha potuto, per questo, recepirli; questo perché il federalismo italiano raramente è stato imperniato davvero sulle identità ma, piuttosto, sulla visione di un diverso modo per costruire l'unità dello Stato: sulla costruzione di una Federazione che consenta alla diversità di armonizzarsi, superando la centralità dello stesso Stato, e la stessa concezione dello Stato, continuano a prevale gli interessi dello Stato e dei suoi partiti.
Dal Veneto e precisamente da Venezia, il filosofo Cacciari, ex comunista, ha lanciato il Movimento Nord-Est, per trasformare lo Stato in senso federale, per aggregare in questa prospettiva i movimenti storici del federalismo e dell'autonomismo e, in definitiva per toglier spazio alla Lega.
Quanto la proposta sia da prendere con le dovute cautele da parte delle nazionalità è argomento da approfondire (le forze politiche nazionalitarie ancora non si avvedono del grande peso e ruolo che ancora hanno, se è vero che tutti, Lega e Movimento Nord Est, da un'alleanza con i partiti storici delle nazionalità sanno di poter trarre quella legittimazione storica che può aprir loro nuovi spazi di consenso e di rappresentatività); su di un punto, però, cade la nostra particolare attenzione.
Cacciari fa le sue osservazioni e illustra i suoi progetti proponendo un modello, il modello catalano.
E intanto l'economista Tremonti, liberista ed esponente del Polo di Berlusconi, propone con il suo Movimento "Federalismo e Libertà" l'attribuzione di uno Statuto Speciale alla Regione Veneto, quella che in questa fase storica, più di ogni altra ha espresso e sviluppato una radicale contrapposizione al centralismo dello Stato e dei suoi partiti, fin da quando Rocchetta fondò la "Liga Veneta", madre di un leghismo di cui fu padre l'autonomismo piemontese di Gremmo e di cui si è fatto erede Bossi; fino a quando, con un gesto tra il folcloristico e il rivoluzionario, alcuni esponenti dell'indipendentismo veneto, hanno compiuto il gesto clamoroso di occupare il campanile di San Marco a Venezia, pagando con una pesante carcerazione questo loro "attentato" all'unità dello Stato.
Il modello catalano: passaggio a Nord-est?
All'inizio degli anni 90 la Lega Nord propone ripetuti riferimenti al "modello catalano"; che di una bandiera e di uno slogan si trattasse lo ha dimostrato la presa di distanza espressa, rispetto al leghismo, dal leader del Governo Autonomo Catalano, Jordi Pujol.
Sfortunato destino, quello della politica internazionale della Lega: sostiene a spada tratta le posizioni di Herri Batasuna con cui afferma di avere affinità che - tuttavia - non giungono a farle ipotizzare il ricorso o il sostegno ad una lotta politica armata, ma quando Herri Batasuna giunge in Italia per far conoscere i problemi di cui è protagonista, è attraverso Rifondazione Comunista che concretizza gli appuntamenti con la stampa:
Quando esulta per i successi conseguiti da scozzesi e gallesi, presentati anche questi come "modello", la Lega non riesce a spiegare che non si tratta di successi che possano far parlare di esercizio dell'autodeterminazione, ma di modeste, quantunque estremamente significative, conquiste autonomiste, di portata comunque inferiore al livello d'autonomia di cui godono, ad esempio, i valdostani e i sudtirolesi in Italia.
Bossi ha tratto il suo primo modello politico, il suo primo riferimento internazionale dall'esperienza storica della Valle d'Aosta e dell'UV, ma è chiaro che neppure la Valle d'Aosta è un modello.
In uno dei libri di Umberto Bossi è citata la Dichiarazione Universale dei diritti collettivi dei Popoli, voluta dal CIEMEN, ma sono risultati chiari i limiti della concezione politica internazionale della Lega quando Bossi ha espresso solidarietà alla Serbia di Milosevic, venendo esclusa, a causa di questa scelta contraddittoria, da un cartello internazionale di partiti etnici e rimanendo isolata sul piano internazionale.
E' meno evidente da dove anche Cacciari tragga analogo riferimento per prendere a modello della sua proposta politica per l'Italia e, soprattutto per il suo Movimento Nord Est, la Catalogna; Se, infatti, una proposta federalista vuol avere una propria credibilità bisognerebbe che in tema di modelli i riferimenti non fossero quelli di una realtà tanto singolare, quale quella catalana (che se a posizioni positive è giunta non è perché lo Stato spagnolo sia federalista o sia particolarmente democratico, ma perché particolare è la posizione del partito catalano di Pujol negli equilibri su cui si regge il governo di Madrid e particolarmente forte è l'economia catalana nel quadro dello Stato spagnolo), realtà comunque non esportabile per diverse ragioni.
Se un modello catalano può essere intravisto è al pensiero politico di Pujol che possiamo guardare, alla sua visione di un "nazionalismo" fortemente caratterizzato culturalmente, ma più pragmatico dal punto di vista politico dove, comunque, la concezione di un "federalismo asimmetrico" corrispondente ad una visione plurinazionale dello Stato e a livelli diversi di autogoverno cui le singole comunità dovrebbero accedere: nella più classica delle visioni federaliste nulla di ciò che può esser fatto a livello locale (che lo si definisca "regionale" o "nazionale" a questo punto sarebbe secondario) deve esser fatto altrove, e ciò che non può esser fatto a livello locale, va delegato ad un altro livello decisionale; l'inverso del decentramento che conserva sempre e comunque ad un centro il potere di decidere quanto e cosa decentrare. Parlare di questo "modello catalano" dovrebbe portare a dire cosa è la Catalogna, una nazionalità, una Nazione senza Stato in uno Stato che è, comunque, plurinazionale; di partito catalano in Italia di potrebbe parlare, allora, solo quando questo principio della plurinazionalità (che il movimento nazionalitario ha sempre espresso) venisse formulato con tutto ciò che ne consegue e, cioè, con il riconoscimento delle identità nazionali oggi negate.
Questo Cacciari non lo fa, mentre lo fa Bossi, la cui Padania sarebbe uno Stato plurinazionale che accetta e formula, al proprio interno, il principio dell'autodeterminazione a cui le identità interne potrebbero, un domani, accedere.
Poiché, comunque, la Catalogna e il modello catalano sono, in Italia, un puro pretesto cui fanno ricorso forze politiche alla ricerca di spazi e consensi che non sanno conquistarsi altrimenti, è con ironia che ricordiamo l'esistenza in Italia di un "partito catalano" fin dal 1975; da allora opera in, Italia un Centro internazionale catalano, nato per ricordare la figura dell'abate di Montserrat, Aureli Escarrè, che il dittatore Franco costrinse all'esilio per il suo impegno in sostegno dell'identità catalana e dei diritti dei popoli. Alla morte dell'abate la Spagna era ancora sotto la dittatura franchista e costituire un centro internazionale in Spagna non era possibile! Il CIEMEN venne - così - costituito a Milano e subito attivò un segretario operativo ad Aosta, trovando nelle Valli Occitane, in Friuli, in Sardegna e nel Sud Tirolo le energie umane per iniziare un positivo lavoro, avendo per Presidente Sergio Salvi, come aderenti personaggi del peso di padre Davide Maria Turoldo, Alexander Langer e come spazio operativo tutte le nazionalità dello Stato italiano; ma mai - in 25 anni di attività - erano giunti al CIEMEN segnali di interesse per la Catalogna e per il "modello catalano" come quelli espressi in quest'ultimo periodo.
Modello per modello va, poi ricordato un episodio: negli anni 80 un gruppo di sindacalisti nazionalitari provenienti dallo Stato italiano venne ricevuto, a Barcelona, da Jordi Pujol, il quale s'intrattenne con il portavoce valdostano che gli si era rivolto in lingua catalana; Pujol raccontò alcuni episodi della sua vicenda politica, ricordando un personaggio di cui aveva conservato ricordo e grande stima, un personaggio conosciuto negli ambienti internazionali federalisti e che - disse - andava considerato un "modello" per la lucidità con cui sapeva porre nella dimensione europea la problematica dei popoli senza Stato, Severino Caveri, leader dell'UV e del governo autonomo valdostano, negli anni 50 e 60, zio dell'attuale deputato valdostano al Parlamento Italiano, Luciano Caveri.
Le prospettive degli anni 2000
Il Movimento Nazionalitario di cui si è qui tracciata una sintesi storica, non esiste più, frantumato dagli eventi, incapace di adattarsi ai mutamenti della storia; buona parte dei partiti politici che hanno contribuito a scriverla, sono ormai appiattiti su posizioni di mera gestione del potere locale; talora addirittura hanno stretto alleanze politiche ed elettorali con partiti italiani, scelta questa che per lungo tempo fu contestata alla SVP la quale, pragmaticamente, restava incollata alla DC. Luciano Caveri è diventato Parlamentare Europeo grazie all'accordo che l'UV ha sottoscritto con il partito italiano dei Democratici, parte integrante dell'aggregazione di centrosinistra.
Nessuno in Italia parla più di autodeterminazione e alcune battaglie politiche interne alla Valle d'Aosta e al Sud Tirolo, hanno messo in mostra una pericolosa involuzione culturale: per non perdere credibilità di fronte ai loro elettori che per 50 anni hanno sposato tesi quasi indipendentiste ed ora si ritrovano a dover votare partiti etnici legati più che mai ai partiti italiani, l'UV e la SVP sono scivolate da posizione di affermazione dei diritti delle nazionalità ad espressioni di nazionalismo revanscista e a modalità di esercizio del potere locale che hanno saldamente in mano, tanto discutibili da far parlare di situazioni di "regime".
Dopo che una legge è stata finalmente approvata dallo Stato, anche la tutela linguistica non è più argomento di lotta, neppure a fronte di un nuovo ritardo, quello relativo alle norme di applicazione della stessa.
All'interno dell'Unione Europea sembra che gli Stati europei riescano a trovare un equilibrio dei loro interessi economici e politici e, soprattutto, sembra che la scelta europea sia ineluttabile e lo sia nei modi e nei tempi voluti dagli Stati.
Il dibattito federalista è ridotto alla burletta di uno scontro elettorale tra due poli contrapposti, il centro - destra ed il Centrosinistra, nessuno dei quali è davvero federalista, anche se entrambi si proclamano tali.
Le forze politiche nazionalitarie più stabili sono impegnate più che a costruire il futuro, nel tentativo di conservare quanto più possibile delle conquiste del passato: gli stessi Statuti speciali di autonomia sono messi in discussione e rischiano di essere ridimensionati. Sembra, quindi, ci si trovi di fronte alla necessità di affrontare una nuova battaglia di retroguardia.
L'analisi storica dovrebbe comunque dimostrarci, senza fatica, che le nazionalità si troveranno ad essere europee nei modi e nei tempi decisi dagli Stati, così come a suo tempo si trovarono ad essere italiane nei modi e nei tempi decisi dallo Stato. La Carta dei Diritti europei sancisce la libertà di tutti ed i diritti linguistici, come la Costituzione e l'articolo 6 della Costituzione italiana, inapplicato per oltre 50 anni, sanciva libertà e diritti.
Urge una riflessione culturale: ripensare l'identità, anche alla luce dei fenomeni migratori; ripensare ai diritti linguistici, anche alla luce della realtà della globalizzazione; ripensare alla storia alla luce degli errori del Movimento Nazionalitario.
Nessuno Stato, nessuna Europa potranno - tuttavia - rappresentare una prospettiva davvero credibile per le nazionalità se non sanciranno e riconosceranno un diritto fondamentale: il diritto all'autodeterminazione che corrisponde ad una prospettiva così semplificabile: le nazionalità possono restare all'interno di Stati se possibile, all'interno dell'Europa se possibile, ma devono poterne restare all'esterno se necessario, senza che ciò rappresenti un reato; l'Europa dei Popoli non può esser costruita soltanto da alcuni popoli che si son dati, spesso con la forza, uno Stato, ma deve - se necessario - esser costruita da tutti i popoli, lasciando agli stessi la scelta se partecipare a costruirla.
Il problema dell'identità, dell'appartenenza, della singolarità e del divenire collettivo sono oggetto di nuova attenzione da parte degli intellettuali: sulla scia di Guattari, lo studioso francese Philippe Zarifian ha pubblicato, anche in lingua italiana, il saggio "L'emergere di un popolo mondo", un popolo frutto del "congiungersi di linee d'incontro tra culture differenti" che non assimila una cultura nell'altra, non determina la fusione delle culture, ma l'identificazione di prossimità e convergenze nell'affrontare il divenire comune.