Bisognerà aspettare anni per verificare i risultati dell’insegnamento precoce di tre lingue nelle scuole dell’Alto Adige (le lingue sono tre - quattro per i ladini - non due, perché moltissimi bambini non padroneggiano ormai la propria lingua madre). Temo che saranno negativi, poiché pochissimi fra coloro che appoggiano il trilinguismo precoce operano sul campo, e quindi spesso ignorano la realtà scolastica come si manifesta nelle classi.
Eccola.
Fino ai primi anni Settanta chi usciva dalla quinta elementare conosceva bene la propria lingua e poteva quindi dedicarsi all’approfondimento dei rudimenti di tedesco già appresi e allo studio d’altre lingue, magari anche attraverso l’immersione. Una buona base grammaticale appresa a scuola, qualche mese a lavorare e/o a studiare all’estero, l’abbonamento a una rivista tedesca o inglese, l’ascolto di programmi radiotelevisivi stranieri, ed ecco acquisite conoscenze più che accettabili. Così hanno imparato le lingue straniere quegli adulti (abbastanza numerosi) che le conoscono: studiando le regole e il lessico essenziale, e poi andando ad applicare sul campo quel che avevano appreso a scuola, molto o poco che fosse.
Oggi le cose sono diverse. Chi vive nelle aule, e non chiuso in un ufficio, sa perfettamente che nelle prime classi delle superiori molti ragazzi non conoscono affatto la propria lingua. Non parlo delle regolette di grammatica, c’è di peggio: diversi “primini” contano su un vocabolario limitatissimo, non riescono a comprendere i testi scolastici ma nemmeno una guida turistica o un manuale, non sono capaci di parlare di un argomento qualsiasi per più di qualche secondo. Più d’uno (quasi tutti maschi, il che merita una riflessione) non sa letteralmente leggere! Chi non ci crede vada nelle scuole a prendere visione - privacy permettendo - degli scritti svolti, in qualunque materia, dagli studenti, o ad assistere agli orali della maturità. O semplicemente a parlare con i professori di italiano ma anche di altre discipline, che non riescono a veicolare i concetti scientifici più semplici a causa di carenze lessicali e logiche (attenzione: è un problema gravissimo) degli studenti. Come si può ad es. attendersi risultati positivi da una classe in cui il 25% degli allievi non comprende la differenza, più razionale e logica che grammaticale, fra “gli” e “li”?
La povertà lessicale è fonte d’incomunicabilità. I ragazzi non comprendono (o comprendono alla rovescia) quel che dicono i docenti, e viceversa. Un discreto vocabolario italiano comprende ottantamila lemmi, e molti studenti non arrivano a possederne cinquemila: che cosa possono capire di fisica, di filosofia, di biologia, di matematica, di diritto, materie che, fino a prova contraria, si insegnano in italiano? E, divenuti magari docenti, che cosa trasmetteranno ai loro poveri allievi?
Non è il caso di andare qui a rintracciare le responsabilità di questa situazione, che del resto ha rilevanza planetaria, né di insistere sulle colpe, se così vogliamo chiamarle, che sono equamente distribuite fra famiglia (dove spesso si parla poco e male, non si legge, ci si nutre solo di suoni e immagini…) e scuola (dove, ahimè, molti colleghi parlano a loro volta un pessimo italiano, lingua che invece un tempo si apprendeva da tutti gli insegnanti, di qualunque disciplina); potremmo poi naturalmente chiamare in causa la decadenza dei mass media, l’appiattimento culturale conseguente alla globalizzazione e così via.
Tralasciamo le cause e vediamo invece le conseguenze, i fatti: è certo che l’adolescente medio di oggi non sa l’italiano. E questo soprattutto a Bolzano, perché qui chi studia è danneggiato dalla mancanza di una lingua locale - l’italiano parlato a Bolzano è piatto e incolore - e innegabilmente anche dallo studio precoce, spesso mal praticato, di un’altra lingua, per di più ostica come il tedesco; e quindi, come e più di tutti i giovani italiani, non è in grado di seguire un ragionamento che comporti il possesso di un buon patrimonio razionale-linguistico-lessicale, o di capire sul piano logico-intuitivo, al volo, la differenza fra “dem” e “den”, fra “das” e “dass”, fra “wenn” e “wann”.
Ma supponiamo che, in un modo o nell’altro, i nostri studenti si impadroniscano di un discreto Hochdeutsch.
Che utilità ne trarranno sul piano sociale? La capacità di conseguire il cosiddetto patentino, di viaggiare e lavorare nei paesi di lingua tedesca e di servirsi dei loro mass media. Non è poco, sia chiaro.
Ma in sede locale a che cosa serve l’Hochdeutsch? Ci sono occasioni reali per spenderlo? Con chi, visto che quasi tutti i sudtirolesi parlano il dialetto? Una mia amica germanica quando entra in un bar o in un negozio di Bolzano gestito da sudtirolesi parla italiano, se vuole capire e farsi capire, perché i sudtirolesi a scuola studiano l’italiano standard, lo stesso che parlano tutti gli italiani. Non c’è reciprocità: gli uni studiano un italiano valido per tutti gli usi, gli altri un tedesco valido per lo più in Germania, ma perfettamente inutile a Bolzano sul piano dei rapporti sociali e della creazione di una società multiculturale e multilingue. Che infatti non esiste e, temo, non esisterà per molto tempo.
Torniamo all’italiano. Che, se si è fortunati, s’impara bene soprattutto a casa, prima di metter piede nelle aule scolastiche, o nei primissimi anni di scuola, se è insegnato in modo sistematico, efficace, coinvolgente e intensivo. Se a dieci anni le difficoltà sono ancora rilevanti il recupero è possibile, ma difficile. A quindici è rarissimo.
E noi vogliamo, senza sviluppare l’insegnamento dell’italiano (o comunque della lingua madre), senza aver creato una generazione di genitori e insegnanti che lo usino disinvoltamente e correttamente, che si rendano conto della sua importanza (perché la lingua madre serve poi per apprendere quasi tutte le discipline e anche e soprattutto per ragionare), noi vogliamo dare il via a una scuola dove si insegnino le varie materie in tre lingue, partendo magari dall’età di quattro, cinque anni?
Non ne uscirà una scuola classista in senso culturale? Una scuola in cui le situazioni descritte da Don Milani decenni fa si aggraveranno anziché risolversi? Nella quale otterranno risultati brillanti solo i bambini che avranno alle spalle una famiglia aperta, preparata, sensibile, colta nel senso più nobile del termine (e quindi non necessariamente una famiglia benestante), capace di trasmettere ai figli un uso corretto della lingua materna, mentre il destino degli altri, immersi in una sorta di babele linguistica, sarà quello di parlare male tre lingue: peggio di oggi (il che è tutto dire) la lingua materna - per l’interferenza delle altre due - e in modo molto approssimativo la seconda e la terza, perché è difficile impadronirsi di altri idiomi se non si conosce bene il proprio.
Quest’ignoranza dell’italiano (assieme a resistenze di altro genere, magari di tipo nazionalistico, più o meno consapevoli) forse spiega perché le 1200 ore circa di tedesco della nostra scuola non siano sufficienti per parlarlo discretamente (ma anche molti studenti tedeschi non sanno più parlare l’italiano). In tutto il mondo chi vuole imparare una lingua si iscrive a un corso della durata di cinquanta, cento ore: con duecento ore di corso e un breve soggiorno all’estero si raggiunge quasi sempre una conoscenza più che accettabile. Qui da noi non bastano più di 1000 ore, con insegnanti di madrelingua. Perché? Se consideriamo che una simile incompetenza si verifica anche nella lingua madre, forse siamo vicini a capirlo.
Chiedete agli insegnanti di tedesco: difficile che chi ottiene buoni voti in italiano vada male nella seconda lingua.
Per chi aspira al bilinguismo perfetto c’è sempre la rischiosa soluzione estrema di una vera immersione linguistica: qualche anno nelle scuole dell’altro gruppo. Ma si tratta di esperimenti osteggiati dalle autorità scolastiche e proponibili solo quando in classe vi sia spirito di accoglienza e, a casa, una famiglia culturalmente e linguisticamente preparata: altrimenti, quante sofferenze e quanti fallimenti.
Ultima possibilità: una vera scuola mistilingue. Ma qui si entra nel regno di Utopia…
La conclusione? Per imparare bene le altre lingue occorre conoscere perfettamente la propria: e domani, fra vent’anni, in una scuola babelizzata (e caotica, e vivacizzata da episodi sempre più gravi di bullismo e inciviltà), in cui si insegneranno materie appariscenti ma di scarsa utilità trascurando la padronanza della lingua materna, in cui saranno in cattedra docenti che, usciti da questa scuola, non padroneggeranno loro stessi la propria stessa lingua, in cui mancheranno le occasioni d’incontro con l’altro gruppo etnico per capirne più la civiltà che la lingua (forse - perché no - attraverso il dialetto sudtirolese, che per lo meno facilita una vera multiculturalità), che risultati avremo sul piano linguistico e soprattutto su quello della reciproca comprensione e conoscenza?
Nelle ex scuole elementari (o come diavolo si chiamano ora) andrebbe incrementato potentemente il monte orario dedicato all’italiano e alla logica matematica, conservando per il resto solo l’insegnamento di elementi base della lingua tedesca e di materie di formazione umana (educazione civica, musica, arti figurative, uso moderato e prudente di strumenti multimediali, ed. fisica... ). Tutto il resto, via.
Sarei disposto a scommettere che l’apprendimento di seconde e terze lingue migliorerebbe in maniera clamorosa, perché supportato dalla conoscenza ineccepibile della prima.
Vox clamantis in deserto, diranno i pochi lettori che si ricordano un po’ di latino: la riforma polilinguistica andrà avanti. Mi dispiace solo l’idea che fra vent’anni con ogni probabilità non sarò più in questo mondo per vedere se avrà funzionato. +
Io però penso di no.
Articolo che mi ha mandato un professore di un Liceo di Bolzano, per tenermi informata su quanto accade nelle scuole del capoluogo e per diffondere la cultura, che non va tenuto solo per se stessi.