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09/12/2004 Dibbatu in ammentu de Mario Melis

Fu vera gloria? Ma non per il sardismo diffuso

de Michele Pinna

Il recente convegno promosso dalla “fondazione Sardinia”, ad una anno dalla morte del leader sardista Mario Melis, suggerisce alcune considerazioni in proposito. Il tono celebrativo, a tratti persino commovente, degli interventi che hanno commemorato l’uomo, l’oratore, il patriarca della politica sarda degli ultimi vent’anni, lo stile di una personalità carismatica, il fascino di un uomo originale e indipendente, dai comportamenti simpaticamente “sopra le righe” che ne hanno fatto il presidente dei sardi per antonomasia, non ha lasciato spazio, però, ad un’analisi più interna e più diffusa del suo pensiero e della sua azione politica.

Il sardismo diffuso. 

Una delle intuizioni più note del pensiero di Mario Melis è stata quella del “sardismo diffuso”. Con questo sintagma egli intendeva sostenere che in Sardegna gli ideali del sardismo erano diventati, ormai, un patrimonio condiviso nella coscienza dei sardi. Un patrimonio d’idee e di valori che doveva essere trasformato in progetto politico e in azioni concrete di governo da parte delle forze politiche e delle classi dirigenti isolane. Se questo postulato fosse stato vero si sarebbe dovuta costruire una leadership politica e intellettuale profondamente caratterizzata in tal senso dove certamente il partito sardo d’azione e lo stesso Melis avrebbe dovuto avere un ruolo trainante. 

Ma all’azione postulativa non fece seguito tutto quanto sarebbe stato necessario perché “il sardismo diffuso” desse i suoi risultati. 
Melis frequentatore delle piazze isolane, amante dei bagni di folla, nel percepire il fascino e l’affetto che la sua presenza e la sua persona emanava tra le popolazioni sarde, attratte dalla sua parola risuonante e dal gesto ampio delle sue mani, accompagnato da uno sguardo che pareva ispirato da una luce divina, proiettava questo effetto comunicativo in un possibile, quanto necessario, consenso elettorale. Ma le proiezioni di questi sondaggi, di questo marketing fatti al microfono, nelle piazze e nei convegni, parallelamente ad una costante e favorevole presenza mediatica, non si rivelarono, alla luce dei fatti, veritiere. Il postulato non resse alla prova quando dovette fondare i teoremi della politica che implicano una loro dimostrazione di verità elettorale, alleanze di governo, ruoli politici, leaderschip.


Il “sardismo diffuso”, in tal senso, non poté essere dimostrato razionalmente, e, come tutte le fondazioni indimostrate e indimostrabili, valide, certo, nelle mitologie e nelle religioni, per spiegare accadimenti fantastici o per asserire divinità poté, dalle minoranze che vi credettero, essere accettato solo per fede. E se Mario Melis è stato, di questa fede, il sacerdote massimo ed il partito sardo d’azione la somma chiesa ed i sardisti, tutti bravi ed eccellenti, sono stati i sacerdoti e i chierici di questa chiesa, i sardi non ne sono stati, almeno in questi ultimi quindici anni, fedeli osservanti e devoti. In nome del sardismo, e delle confusioni ingenue e in mala fede, anzi, hanno fatto le scelte politiche più disparate e le classi dirigenti che si sono susseguite alla guida della regione, sempre in nome del sardismo, hanno consumato e dissolto quanto di più vivo e vitale vi era al fondo di questo pensiero: la diversità e la specificità della Sardegna.

Questione sine qua non del sardismo interpretato e diffuso, forse non bene e non a sufficienza, dal partito sardo d’azione, dalla sua nascita fino ad oggi.
L’idea melisiana del “sardismo diffuso”, in realtà, nella sua autoreferenzialità rappresentatività, tipica di tutti i miti e di tutte le religioni, ha prodotto un equivoco di fondo costituitosi nella convinzione arbitraria dell’equazione sardi, sentimento di sardità, uguale sardismo, senza tener conto, invece, delle mediazioni che sarebbero state necessarie per transitare da una ipotetica sardità, dal sapersi sardi, cioè nati, giunti, cresciuti o comunque vissuti in un’isola chiamata Sardegna, al sardismo.
Un transito che, nella coscienza delle popolazioni, avrebbe dovuto fare i conti con una forte azione di diffusione e di propaganda del pensiero del partito sardo d’azione; di un’azione pedagogica e di un’azione di codificazione e di rappresentazione chiara dello stesso. 

Ma anche con una diversa coscienza delle classi dirigenti sarde e dei ceti intellettuali. Così che, in Sardegna, tutti possono definirsi sardisti: quelli che credono nella tutela del muretto a secco e quelli che credono che il modello turistico isolano debba essere lo stesso di Rimini. Qual’ è il sardismo che è stato diffuso Sul piano politico istituzionale, tra le forze politiche sarde che hanno governato l’isola dal secondo dopoguerra ad oggi si è voluto confondere il sardismo vero con i surrogati sardisti di un generico autonomismo. Ovvero con l’autonomismo sancito da quel monumentale monolite che è la Costituzione italiana da cui poi è nato quel topolino dello Statuto regionale. Uno Statuto confezionato a Roma dai costituzionalisti democristiani servito ad avvalorare tutti i fatti e i misfatti della politica italiana in Sardegna fino alla fine della cosiddetta “prima repubblica” ; per non dire poi di quelli degli albori della seconda. I fiumi di denaro pubblico elargiti dallo Stato e dall’America in funzione anticomunista, allora, hanno trovato nell’autonomismo le condizioni istituzionali per alimentare un ceto politico che all’ombra dei piani di rinascita e di anacronistiche industrializzazioni fuori da ogni contesto antropologico e da ogni prospettiva seria di sviluppo ha fatto della Sardegna il ricettacolo di tutte le aberrazioni della politica e dell’economia italiana.

Onestamente e per amore di verità storica non possiamo nascondere, se non la diretta complicità, la pacifica convivenza di alcuni ambienti del sardismo con le scelte politiche fatte in quegli anni dalle classi dirigenti democristiane. Nei congressi sardisti le parole d’ordine delle origini si erano sempre più confuse con le parole d’ordine della retorica autonomistica, veicoli di una politica piagnona, rivendicazionista, all’insegna di un economicismo assistenzialista e sprecone nobilitato da un sociologismo coloniale che additava programmazioni e piani di sviluppo tra una campagna elettorale e l’altra. Il sardismo dei fratelli Melis perdeva consensi e si riduceva, ormai, ad un partito senza rappresentanze in consiglio regionale. Era il frutto di una politica prona alla democrazia cristiana e ad un autonomismo che aveva perso di vista l’orizzonte storico-culturale, caro invece al sardismo di Bellieni e Carta Raspi, che individuava nel principio di sovranità nazionale della Sardegna l’asse portante di un progetto politico che propugnasse una riforma profonda della Regione in grado di risarcire l’isola da quell’aborto istituzionale e politico che si era rivelata la fusione perfetta della Sardegna con il Piemonte, nel 1847. Quell’aborto che le classi dirigenti isolane avevano voluto e consumato rinunciando alle se pur minime prerogative autonomistiche dell’antico Regnum Sardiniae.


“La Sardegna come nazione abortiva” di Bellieni non è, come molti hanno voluto intendere, una presa d’atto consenziente della inderogabilità di quel fatto storico ma una denuncia lucida e tragica dell’impotenza delle classi dirigenti isolane, che hanno preferito rinunciare a se stesse accettando i benefici coloniali e gli onori riservati dai Savoia ai sudditi fedeli. Il sardismo degli anni sessanta aveva rinunciato al nazionalismo sovranitario di Bellieni che implicava una profonda revisione dello Statuto regionale e la riscrittura del patto tra la Sardegna e l’Italia, dinanzi, anche, alle parole aurorali della nascente Comunità Economica Europea. Ma la sindrome assistenzialista dello Stato aveva ormai pervaso tutto e tutti per cui era più comodo stare dentro un quadro politico accomodante e rassicurante che portare avanti una battaglia politica di riforme statutarie e di indipendenza della Sardegna, quali presupposti fondamentali per lo sviluppo dell’isola. Il partito sardo d’azione pagò a caro prezzo quella rinuncia e le classi dirigenti democristiane divennero le uniche depositarie del discorso autonomista dove qua e la trapelava qualche venatura sardista di sapore nostalgico per le tradizioni agropastorali dell’isola. Anche se i risultati della Commissione Medici che individuavano nel mondo delle campagne il germe della delinquenza e della criminalità isolana preparavano le condizioni per la legittimazione della grande truffa ai danni della Regione sarda che aveva dilapidato i soldi dei Piani di rinascita nelle voragini della SIR. Distruggendo quel mondo, quell’economia e determinando quella catastrofe culturale e quegli scempi voluti dal turismo e dalla speculazione edilizia che ha distrutto coste, città e paesi della Sardegna. 

Questo è il sardismo che si è diffuso. 

Il sardismo che ha sempre sbeffegiato l’uso della lingua sarda nelle scuole e negli uffici, che ha sempre temuto una riforma radicale dello Statuto sardo in senso sovranitario che conferisse alla Regione sarda, ai comuni e alle province poteri legislativi forti in materia fiscale, scolastica, sanitaria, nella politica dei trasporti, nel governo delle banche, nelle trattative internazionali per l’uso ed il controllo del territorio, dell’ambiente ecc. Mentre sul piano culturale ciò che le classi dirigenti di quegli anni hanno diffuso e strumentalizzato come sardismo, cosi come continuano a fare oggi, con l’aiuto interessato dei giornali e delle televisioni, è il flolclorismo da baraccone, è la letteratura di cassetta che in appendice alla letteratura italiana si spaccia per letteratura sarda che, partendo magari da Gavoi, vorrebbe conquistare il mondo con un gusto oscillante tra il grottesco e il provincialismo delirante che crede di essere il centro dell'universo. Questo è il sardismo che si è diffuso. Il partito sardo d’azione di quegli anni, e Mario Melis, forse anche in buona fede, ne ha ereditato tutti i limiti, è venuto meno ad un’azione critica nei confronti di un sardismo che invece sardismo non era. Ad una seria azione di analisi e di denuncia nei confronti di una politica che, mascherata da sardismo, apriva le porte ad un processo inarrestabile di neo colonialismo. Ad una politica istituzionale che ha spacciato,- ma non in buona fede o per ingenuità,- un vetero regionalismo manieroso e suddito delle scelte politiche che dai bacini elettorali delle regioni italiane più forti, ipotecavano lo Stato e le politiche governative italiane riversandone in Sardegna gli avanzi e le scorie,- per una politica istituzionale che desse ai sardi dignità e sovranità.


Bene! Il sardismo che si è diffuso non è sardismo e perciò molto di quello che in molti ora chiamano sardismo, identità, o altro a noi non piace. E l’ideologia che vorrebbe legittimare l’ennesima truffa ai danni dei sardi e noi non ci stiamo. Lo abbiamo detto recentemente ad Arborea presentando la mozione maggioritaria che ha vinto il XXIX congresso nazionale del P.S.d’Az. Quel sardismo che si è voluto diffondere ad arte scimmiottando alcune parole d’ordine del sardismo vero, autentico, storico, onesto, del sardismo di Bellieni, va tolto dalla circolazione. E speriamo che i sardi se ne rendano conto e non ne facciano uso neanche nel nome di Mario Melis e dei tanti meriti che comunque egli ha avuto. Il sardismo che vorremmo diffondere E’ quello della denuncia storica nei confronti delle classi dirigenti isolane che non hanno saputo e voluto affermare l’indipendenza e la sovranità della nazione sarda costruendo dal di dentro della sua storia istituzionale i presupposti della sua sovranità, e che propugna, oggi, un nuovo patto costituente per la riscrittura del nuovo Statuto regionale della Sardegna in chiave sovranitaria, che coinvolga le popolazioni sarde, le associazioni, i lavoratori, gli intellettuali. 

E’ quello che indica lo sviluppo economico dell’isola a partire dalla valorizzazione delle sue risorse e delle sue potenzialità imprenditoriali individuando nei “produttori” sardi, come diceva Bellieni, la spinta propulsiva di un nuovo modello di sviluppo che valorizzi il lavoro e crei ricchezza diffusa nel rispetto dell’ambiente e del tessuto culturale della nazione sarda. E’ quello che pone la lingua sarda, in tutte le varietà locali, al centro della moderna educazione dei giovani sardi. Un’educazione plurilingue e multiculturale aperta al mondo, ai nuovi linguaggi, alle nuove dinamiche della comunicazione, alla ricerca e alla tecnologia. E’ quel sardismo che rifiuta la mercificazione del folclore e della tradizione popolare. E’ quel sardismo che rivendica una scuola e un’università fortemente legata al territorio, alle esigenze dei sardi, che sia in grado di cogliere unitamente ai saperi scientifici e tenologici, il valore aggiunto dei saperi antropologici della tradizione, in grado di costituire ancoraggi certi realistici e concreti nel lavoro, nella ricerca, nella formazione umana dei giovani sardi. E’ quel sardismo attento alle nuove professionalità uscite in questi anni dalle università e dalle scuole sarde, alle produzioni artistiche, artigianali e manifatturiere in genere, che potrebbero davvero caratterizzare la Sardegna nel mondo e diventare fonti di reddito e di vita buona per i sardi. E’ quel sardismo liberale, laico e riformista di tradizione europea, moderno, civile e progressista, fondato sull’etica del lavoro, della libertà, del rispetto delle minoranze e delle diversità. 

Un sardismo europeo contributivo e caratterizzante nella la battaglia per il riconoscimento delle molte nazioni ancora senza sovranità, nuova frontiera del liberalismo e della democrazia. E’ un sardismo certo non facile che necessita di intelligenze nuove, di strumenti e di supporti comunicativi di cui il partito sardo d’azione dovrà dottarsi. E’ il sardismo con cui le forze politiche sarde dovranno misurarsi, confrontarsi e lealmente riconoscere, al Partito sardo d’azione quel ruolo che la storia e la passione civile dei suoi militanti gli hanno dato. Un partito certamente desideroso di rinnovarsi, di liberarsi in un dibattito franco, aperto alla collaborazione dei sardi, di vecchi stereotipi e di vecchi fondamentalismi ideologici ma altrettanto intransigente nel rivendicare la propria dignità e il ruolo importante, anche attraverso la memoria ed il ricordo dei suoi uomini migliori, dei loro pregi e dei loro limiti, che ancora ritiene di avere nel lungo e difficile cammino della libertà e della sovranità del popolo sardo. 


Michele Pinna 
Istituto Cammillo Bellieni - Sassari 

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