© LimbaSarda 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

06/04/2006 Fèminas de su mundu

Su sanguni de is fèminas de Ciutad Juarez


Saludi a totus, 
seus unas cantu amigas chi anti pigau su pensamentu de agiudai is familiaris de is femminas chi ant' 'ociu, e funt' 'ocendu, in Ciutad Juàrez, in su Messicu. Finzas a-immoi funti prus de 600 is femminas chi funti sparessias, de custas nd'ant agatau 430 mortas, bocias malamenti. Nemus ndi scidi nudda. Totu custu de su 1993: est ora de d'accabbari!
Su 9 de arbili in su Tiatru Akròama de Pauli fieus un'arrexionada e unu spetaculu po agiudai s'assoziu Nuestras Hijas de Regreso a Casa. 
Bosi preguntaus po praxeri a biri podeis scriri in sa revista de 'osatrus custa notissia. Bos eus mandadu su materiali po informazioni.
Po immoi grazias meda, de coru,
chi possais o no possais fairi calencuna cosa

Gisa Dessì
Francesca Fois
Amina Garau
Valentina Ghiglieri 
Carla Porcu
Cristina Secci
e ateras ancora
saludus a totus










Cagliari, 20 marzo 2006

In considerazione dell’importanza della denuncia dei fatti attraverso la stampa internazionale si prega di pubblicare il seguente 
COMUNICATO STAMPA

Sono già più di 430 donne le donne assassinate a Ciudad Juarez nello stato di Chihuahua in Messico e più di 600 quelle scomparse dal 1993 secondo lo stesso rituale: rapimento, tortura, sevizie sessuali, mutilazioni, strangolamento. Il clima di violenza e impunità continua a crescere senza che al momento si siano fatte azioni concrete per mettere fine e chiarezza a questa situazione. Il femmicidio è una questione di lesa umanità e riguarda tutto il mondo, soprattutto quando è il prodotto del crimine internazionale organizzato e coinvolge autorità del governo.

Domenica 9 aprile a partire dalle ore 19:00 presso il Teatro Akròama di Monserrato in via 31 Marzo 1943, 20 Monserrato Cagliari, Tel. 070 580241, si terrà l’iniziativa ¡NI UNA MÁS! NON UNA DI PIÙ, a sostegno di Nuestras Hijas de Regreso a Casa, una associazione che riunisce i familiari delle donne uccise e scomparse a Ciudad Juarez.

Il programma della serata prevede un dibattito sul tema della violenza contro le donne di Ciudad Juarez con lo scrittore Massimo Carlotto e Sivia Giletti Benso docente presso l’Università di Torino, e la proiezione di due cortometraggi ispirati ai fatti di Ciudad Juarez: “El otro sueño americano” di Enrique Arroyo, e “Ni una más” di Alejandra Sánchez. Uno spazio verrà dedicato al reportage della fotografa Lina Pallotta “Basta: lavorare e morire a Ciudad Juarez”. Dopo il dibattito è previsto uno spazio dedicato alla musica messicana con il gruppo Mexla in “Le notti della Llorona” e un reading di Luca Cocco, Emiliana Gimelli, Tiziana Martucci e Luca Sorrentino. 

Durante la serata verranno raccolte firme a favore della petizione le cui risoluzioni possono essere lette in italiano nella pagina web http://www.mujeresdejuarez.org/listresolucit.htm e firmata on line http://www.petitiononline.com/NiUnaMas/petition-sign.html?

I fondi raccolti verranno destinati all’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa.

Importante: qualora venissero pubblicate le foto allegate si prega di citare la fotografa Lina Pallotta, che le ha gentilmente concesse.

Per ulteriori informazioni si prega si mettersi in comunicazione con il comitato cagliaritano via mail NHDRC_Cagliari@yahoogroups.com e Telefono: 349/8434961

Teatro Akròama di Monserrato
Via 31 Marzo 1943, 20
Monserrato (CA)
Tel. 070 580241




http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=o&idCategory=4817&idContent=1321390

Annali di Enzo Biagi, Le croci rosa di Ciudad Juarez 

In Messico sono centinaia le donne sparite e uccise per il traffico di organi, videotape estremi, giochi sessuali 

Ho sempre pensato al Messico come a una terra romantica, dentro di me c'erano le letture dei disperati di Traven, o i buffi e tragici eroi di Steinbeck, gli affamati 'campesinos' e i guerrieri di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, i mascalzoni di Cortez, che arrivarono lì con gli archibugi e i primi cavalli, i grandi vulcani, le miniere d'oro e d'argento, e i templi aztechi e le intelaiature metalliche che pompano greggio, le tortillas, le papaie, i manghi, le orchestre di 'mariaquis', e la faccia splendida e indimenticabile di Dolores Del Rio. Ho visto una foto con una grande croce su cui sono conficcati più di 500 chiodi, è una foto che mi ha sconvolto, perché ogni chiodo rappresenta una giovane donna rapita e riapparsa in mezzo al deserto seviziata, violentata, poi uccisa. 

Questa croce è a Ciudad Juárez, la quarta città del Messico, circa un milione e mezzo di abitanti, al confine con gli Stati Uniti, a quattro chilometri da El Paso, Texas. Ne sentii parlare solo una volta, quando nel 1957 Sophia Loren e Carlo Ponti risolsero lì i loro problemi coniugali con un matrimonio messicano. È una zona di passaggio, di emigranti, di gente povera che insegue il sogno americano. Oggi Ciudad Juárez viene chiamata dalle donne messicane la città della morte; solo nell'ultimo anno le rapite sono state 200. Delitti che non hanno mai visto una condanna, ma neanche una vera e propria indagine. 

Si racconta che le cause di questo orrore siano il traffico di organi, videotape estremi, giochi sessuali con morte annessa. Quello che è più grave, raccontano alcuni giornalisti disposti a sfidare la vendetta, è che il governo tollera questa situazione. Sono pochi cronisti che cercano di portare luce in una zona d'ombra. Elena Rivera Morales aveva 16 anni, come Elena Chavez Caldera; Claudia Yvette Gonzales 20 anni, è stata assassinata nel 2001 e il suo corpo fu rinvenuto in un campo di cotone accanto ai resti di altre sette ragazze. Lilia Alejandra Garcia Andrade aveva 17 anni, mentre Elena Guadian, 26 anni, lasciò due bellissimi bambini e di lei non si è mai più saputo nulla. Sono alcuni chiodi di quella croce.


Sono stato in Messico una sola volta, nel 1981, al seguito del presidente Sandro Pertini in visita ufficiale, un viaggio che l'avrebbe portato poi in Costarica e in Colombia. A Città del Messico incontrai per la prima volta Gabriel García Márquez, il grande scrittore colombiano autore di 'Cent'anni di solitudine' e 'Cronaca di una morte annunciata' che nel 1982 avrebbe ricevuto il Premio Nobel. Me lo presentò Gianni Minà. 

Márquez viveva in Messico da molto tempo e dal 1976 aveva chiesto asilo politico. Già allora conosciuto in tutto il mondo, voleva spiegare che cosa stava accadendo nel suo paese e perché l'aveva lasciato. Mi disse: "Io non dico tutta la verità, ma quella che saprete a Bogotà è di sicuro molto meno". L'incontro avvenne in un bar: il Camino real. Ebbi l'impressione di essere di fronte a un uomo forte, dalla faccia leale, con baffi e capelli grigi. Allora aveva poco più di 50 anni, parlava con misura e con umore, le sue parole erano chiare, si capiva che la sua terra, e soprattutto la sua gente, gli era rimasta nel cuore. Ogni pausa, un sorso di whisky annacquato, io bevevo Margherita, che è un miscuglio di tequila, Cointreau e limone, sembrava niente, ma si faceva sentire. 
Mentre mi parlava, io rivedevo quello che lui aveva scritto nei suoi libri: sperduti villaggi con l'alcade, le guardie, il giudice, il parroco e il dottore, case con pareti di fango o di canna selvatica, il tetto di paglia o di zinco, piazze desolate, mosche, aria che sapeva di sonno o odorava di caffè o di cuoio, giovani donne mulatte scatenate nell'amore, zanzare e formiche volanti, rumori di stivali e di armi, un senso di immobilità e di putredine, campane che battevano invano le ore, un popolo povero. 
Márquez mi disse: "La vergogna ha memoria debole". Nel 1981 la Colombia stava passando da una situazione feudale al capitalismo, ma la corruzione non era seconda neanche a quella messicana, assai notevole: "Ma almeno qui in Messico c'è ricchezza, c'è da prendere", diceva Márquez, "laggiù invece stanno impoverendo ancora di più i poveri. Non sono partito perché mi sentivo in pericolo, ma per tentare di fare qualcosa per la mia gente. Chi governa ha l'esercito, io la penna". In quella lunga chiacchierata parlammo tanto anche del Messico che lo aveva accolto come un figlio. E adesso, guardando quella croce di Ciudad Juárez , penso al nostro mondo 'civile' che si batte per le quote rosa e non si accorge di quelle giovani donne che vengono uccise perché qualcuno ha il piacere di ucciderle. Dall'altra parte del mondo, in Iran, c'è una ragazza che sta per essere lapidata perché ha ucciso l'uomo che la stava violentando.


http://www.carta.org/rivista/settimanale/2002/36/36ciudad.htm
Ciudad Juárez la fetida, grazie alle "maquiladoras"
reportage di Saul Landau *
DOPO AVER INVESTIGATO per settimane sulle condizioni del lavoro e ambientali alla frontiera degli Stati uniti con il Messico, arrivo alla conclusione che al sistema di produzione che ci inonda di merci - la "globalizzazione" - manca un cervello umano, però possiede una eccellente calcolatrice. Benché i gestori delle fabbriche multinazionali e gli urbanizzatori delle enormi zone industriali delle città di frontiera dal lato messicano abbiano importanti titoli universitari e parlino con coerenza di bilanci, non ho trovato prove di una intelligenza sensibile.
Il "sistema" funziona su una base razionale: possiede misure per valutare l'efficienza, ma è carente di ragione umana. Il sistema globale ha bisogno di risorse adeguate, aria, acqua e terra buoni per continuare a produrre le merci che promuove implacabilmente nei confronti di tutti i compratori potenziali. Ciò nonostante, al fine di rendere "competitivi" i suoi prodotti distrugge sistematicamente l'acqua, l'aria e la terra e distrugge prematuramente la gente che deve lavorare nelle sue fabbriche. Insomma, sfida la saggezza del vecchio detto arabo che dice: "Non cagare nel piatto in cui mangi".

Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua, è un caso evidente. Alla fine di giugno mi trovavo sul margine sud di un canale di acque nere di otto metri di larghezza che attraversa la città. La nostra telecamera metteva a fuoco Osvaldo Aguinaba, un vecchio contadino, che si trovava sul lato opposto. Cercavo di far sì che il fetore che saliva dalla corrente rapida non interferisse con i miei pensieri. "Dica - gridai attraverso il canale fetido - questa acqua appestata ha corso sempre da queste parti?".

"Sì, però erano solo acque di scarico, scarichi di esseri umani". Vestito con abiti bianchi da lavoro assentì con la testa e indicò la corrente putrida: "Ma adesso questi rifiuti sono mischiati con i residui chimici delle fabbriche. Questa fabbriche sono le responsabili di quasi tutta la porcheria, e stanno rovinando i campi".
I rifiuti, l'acqua, il grano. Un altro vecchio agricoltore in jeans, camicia rossa e berretto da baseball si accostò al primo. Mosse la testa: "Il governo sta lasciando morire l'agricoltura", disse mentre indicava il canale.

Se uno si arrampica su una scala, può vedere il Texas a mezzo miglio. Dal lato messicano, a circa 25 miglia a sud-est di Juárez si coltivano sorgo e altri alimenti per il bestiame, insieme a cotone. "Non ci lasciano usare l'acqua per irrigare i frutteti', mi disse il vecchio ["Grazie a Dio", mormorai, ma che cosa possono vigilare le autorità del Chihuahua rurale?]. Osvaldo aggiunse che però ancora coltiva un po' di frumento. "Se le acque si infiltrano nei campi, noi che possiamo fare? C'è stata una lunga siccità. E noi dobbiamo mangiare. E anche gli animali. Dobbiamo curare i nostri campi e vendere il raccolto, con qualunque tipo di acqua riusciamo a trovare".
Si suppone che la gente mangi il frumento, la carne e il latte delle vacche che mangiano le granaglie irrigate con queste acque tossiche. A pochi chilometri a sud del canale, una fabbrica trasforma i rifiuti solidi in barre che poi vendono agli agricoltori come fertilizzante. Non sono uno scienziato, però il mio olfatto dice che bisogna che mi allontani dalle acque nere e che non mangi nulla che sia stato in contatto con esse.

"I peggiori contaminanti sono i residui della lavorazione dei metalli", dice Federico de la Vega, che ha studiato ingegneria chimica al Mit [Massachussets institute of technology, ndt.] ed è tornato a Ciudad Juárez per dirigere una impresa di distribuzione di birre e bibite e ad affittare capannoni industriali alle "maquiladoras" straniere. "La pulizia di metalli per serrature e altri prodotti industriali implicano l'uso di cloro, bromo e altri elementi davvero tossici, e io so che alcuni dei direttori delle 'maquiladoras' non si disfano dei residui velenosi in maniera adeguata. Mi preoccupa specialmente la salute delle donne incinte che entrano in contatto con composti pericolosi".
Perfino Jaime Bermúdez, padre e principale promotore delle zone industriali di Juárez, ha ammesso che i problemi ambientali sono gravi. "Però possiamo risolvere questi problemi. Le 'maquiladoras' portano posti di lavoro, e senza lavoro non siamo niente". Mi ha ricordato la litania dei sindacati statunitensi alcuni decenni or sono, quando i loro iscritti pretendevano di affrontare i pericoli chimici, nucleari e altri, nel posto di lavoro: "Cos'è più importante, un po' di porcheria nell'acqua o nell'aria, o l'opportunità di guadagnarsi la vita e di mantenere la famiglia? Comportatevi da lavoratori duri. L'ambiente è roba da effeminati".
In città di frontiera come Juárez l'inquinamento ti colpisce agli occhi, alle orecchie, a naso, alla gola, ai polmoni. "In primo luogo, ci sono gli autobus vecchi - dice Félix Pérez, attivista locale per l'ambiente - I veicoli molto usati cono il mezzo di trasporto fondamentale della città. Non sono solo molto scomodi, ma emettono quantità enormi di vapori nocivi". 
Pérez mi mostra i vecchi autobus scolastici statunitensi che vanno e vengono carichi di operai tra i quartieri dove vivono e le fabbriche dove lavorano. Alcuni non hanno più gli ammortizzatori e procedono a salti sulle strade senza pavimentazione e piene di buche, al termine delle quali vi sono le casette sfasciate, e lì vivono alcuni di quelli che producono articoli per l'arredamento, pezzi per auto eleganti e nuovi accessori per i computer. Un viaggio medio dal quartiere alla fabbrica dura un'ora.
"Quel che è certo è che non abbiamo un sistema che rispetti l'ambiente. Se si aggiunge la contaminazione prodotta dalle misure di sicurezza dopo l'11 settembre messe in pratica dalle autorità di frontiera degli Stati uniti, l'aria si fa veramente irrespirabile". Pérez allude al tempo supplementare richiesto ora per attraversare i tre ponti che collegano Ciudad Juárez con El Paso, Texas. Il tempo di attesa è pressoché raddoppiato, così che i residenti di Juárez e El Paso assorbono il doppio di emissioni dalle auto e dai camion che aspettano il loro turno con il motore acceso che la Dogana statunitense permetta loro di passare. Va da sé che i veicoli messicani non hanno subito i controlli sulle emissioni.
"Poi c'è il problema della scarsità di acqua - continua Pérez - Quel che un tempo era il potente Río Bravo è ridotto a un rigagnolo in diverse parti di Juárez e quel che resta di acqua è una sfida alla salute umana. A Juárez resta acqua per cinque anni. I funzionari municipali hanno scoperto una fonte d'acqua nel deserto, a qualche miglio da qui, che però è in nel mezzo di un cimitero nucleare, dove hanno seppellito, tra altre cose, cobalto radioattivo, che potrebbe essersi infiltrato nell'acqua". Nessuno sa con certezza se l'acqua sarà adatta al consumo. I ricchi, va da sé, comprano acqua imbottigliata.
La mano d'opera a basso costo in luoghi come il Messico sarà abbondante per molti decenni. Però le multinazionali abbandonano i loro lavoratori più anziani in favore degli adolescenti, la maggior parte dei quali avrà sufficienti salute ed energia per le necessità produttive dei prossimi cinque anni. All'arrivo dei quarant'anni spuntano i tumori, le malattie polmonari e le sindromi associate a movimenti ripetitivi.
Giusto mentre ce ne andavamo da Juárez, la compagnia Scientific-Atlanta, secondo fabbricante statunitense di telai di televisione, ha annunciato di aver eliminato 1.300 posti di lavoro in Messico, a causa della diminuzione della domanda. Un portavoce della compagnia, Paul Sims, ha detto che vi saranno altre riduzioni di posti. Così che gli ultimi arrivati a Juárez si trovano ora alle prese con la disoccupazione senza alcuna sicurezza e in un contsto fisico che pare insostenibile. Perché, mi sono retoricamente domandato, le brillanti persone che hanno ideato le maquiladoras come base economica non hanno pensato alla possibilità di situazioni estreme? È questa la natura stessa del nuovo ordine mondiale, un corporativismo globale che impone la prosperità a breve termine e il disastro nel futuro?
*Docente alla Università politecnica statale di California, a Pomona. 
Questo articolo è comparso su Ojarasca, supplemento mensile de La Jornada.

http://www.ilmanifesto.it/ricerca/ric_view.php3?page=/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2003/0309lm24.01.html&word=ciudad;juarez







IN MESSICO TRECENTO DELITTI PERFETTI 
La strage di donne a Ciudad Juárez 

È forse il caso più abominevole della storia criminale di tutti i tempi. A Ciudad Juárez, città di frontiera nel nord del Messico, gemellata con El Paso, in Texas, oltre 300 donne sono state assassinate secondo lo stesso rituale: rapimento, tortura, sevizie sessuali, mutilazioni, strangolamento. Da dieci anni, al ritmo di due cadaveri al mese, nei quartieri della città maledetta vengono scoperti corpi di donne, adolescenti e bambine, nude, martoriate, sfigurate. Gli investigatori più seri ritengono che si tratti dell'opera di due serial killer psicopatici, ancora introvabili dopo tanti anni. 

Sergio Gonzáles Rodriguez 
Uno dei racconti più terrificanti della letteratura contemporanea racconta la storia di un vampiro che, in un campo di concentramento, dissanguava a morte uno dopo l'altro i suoi compagni di sventura.
Si intitola Dal regno dei morti e i suoi autori, Gardner Dozois e Jack Dann, dovettero battersi a lungo per riuscire a farla pubblicare negli Stati uniti nel 1982: nessuna rivista di fantascienza osava proporla ai propri lettori, ritenendola frutto di una immaginazione troppo morbosa, atroce fino all'eccesso.
Se questo racconto di vampiri ci turba, probabilmente è perché viviamo in un mondo quasi normale in cui tali orrori non si verificano spesso.
Una storia che, però, ci sembrerebbe banale se vivessimo in un universo in cui fossero accettati i peggiori delitti: sequestri di persona, stupri, torture, assassini... Un mondo in cui i poliziotti proteggessero gli assassini, fossero i loro complici, godessero ad accusare gli innocenti e minacciassero, o addirittura eliminassero, qualsiasi investigatore... Un mondo alla rovescia in cui le autorità chiudessero gli occhi, i criminali fossero liberi e gli innocenti martirizzati.
Insomma, un autentico incubo. Solo che questo mondo dell'orrore esiste, fa parte della realtà del Messico. È vero quanto sono vere le vittime, le prove e le testimonianze che ho accumulato nell'arco di tanti anni.
La scena di uno dei più raccapriccianti misteri criminali di tutti i tempi ha un nome preciso: Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua, alla frontiera con gli Stati uniti. La sua popolazione, 1.300.000 abitanti, è ostaggio di assassini senza volto. Quanto avviene qui è un insulto ai diritti umani. Dal 1993, oltre 300 donne sono state rapite, violentate e assassinate. In maggioranza avevano caratteristiche comuni: almeno un centinaio erano di umili origini, quasi sempre operaie, tutte di struttura minuta, brune e con i capelli lunghi.
Tutte sono state vittime di violenze sessuali e strangolate. Moltissime rimangono ancora senza nome.
Alcuni cadaveri sono stati ritrovati nei quartieri del centro cittadino, altri scoperti in zone incolte della periferia, ma una cosa è certa: tutte le donne sono state uccise da qualche altra parte, a volte dopo esser state sequestrate per intere settimane... Il modus operandi degli assassini è identico a quello dei serial killer. Gli omicidi si ripetono, si assomigliano, le sevizie sono le stesse e riguardano non solo donne adulte ma anche adolescenti, e addirittura bambine di 10 o 12 anni.
Per tutte le donne, Ciudad Juárez è diventato il luogo più pericoloso del mondo. Da nessuna parte, neppure negli Stati uniti dove pure i serial killer non mancano, le donne sono così gravemente minacciate.
Nel resto del Messico, su dieci vittime di assassini una sola è donna.
A Ciudad Juárez, su dieci persone assassinate quattro sono donne...
E la serie dei delitti non s'interromperà di certo visto che, secondo le Nazioni unite, il tasso di impunità in Messico è quasi del 100%.
Per combattere un simile flagello non esiste altra arma se non la memoria, la testimonianza. Non mi sono mai sentito così sconvolto come quando mi sono recato sui luoghi in cui sono stati scoperti i cadaveri: era come entrare in una quarta dimensione, con un sentimento di terrore sospeso tra realtà e allucinazione.
Direttrice di un'associazione contro la violenza tra le pareti domestiche, Esther Chávez Cano pensa che gli omicidi continueranno: l'incompetenza delle autorità balza agli occhi. E tuttavia, la polizia ha arrestato un individuo, di nome Jesus Manuel Guardado Márquez, alias «El Tolteca», come pure la banda di «Los Choferes», accusati di essere gli assassini.
Ma tali arresti non hanno convinto affatto Esther Chavez: «È una trappola. Non modifica affatto la situazione, i delitti continueranno come dopo l'arresto della banda di "Los Rebeldes". All'epoca ci era stato detto che erano loro i colpevoli. Credevamo che questo incubo fosse finito. Guardi un po', si continuano a trovare cadaveri di donne violentate, torturate...».
Secondo Esther Chávez si ripete la situazione del 1995: la polizia all'epoca aveva arrestato un chimico di origine egiziana, Abdel Latif Sharif Sharif, e l'aveva accusato dei delitti. Poco dopo aveva catturato una banda di giovani malviventi, «Los Rebeldes», presunti complici di Sharif Sharif.
Sharif Sharif è tuttora detenuto in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Chihuahua, capitale dello stato. Accusato dell'assassinio di un'adolescente, Elisabeth Castro García, è stato condannato a trent'anni di reclusione, dopo un processo pieno zeppo di irregolarità, ora in fase di revisione. Per quanto riguarda i suoi legami con «Los Rebeldes», le autorità non sono mai riuscite ad accertarli.
Dal telefono del carcere, Sharif Sharif nel 1999 ha avuto il coraggio di interpellare il procuratore generale che partecipava a una trasmissione televisiva in diretta. Ha gridato a gran voce la sua innocenza, ha affermato la sua certezza di essere soltanto un «capro espiatorio» e ha sfidato il procuratore a sottoporlo alla macchina della verità.
Furiose, le autorità hanno messo l'egiziano in isolamento ancora più stretto... La sua avvocatessa, Irene Blanco, è stata minacciata di morte, ma non si è lasciata intimidire. Il figlio, Eduardo, è stato oggetto di un attentato a cui è sopravvissuto miracolosamente.
Irene Blanco ha dovuto rinunziare alla difesa di Sharif Sharif, e ha abbandonato la città.
Secondo il criminologo Oscar Máynez, almeno 60 omicidi commessi tra il 1993 e il 1999 sono stati concepiti «secondo uno stesso modello».
Egli ritiene che si tratti di assassini eseguiti da due distinti «serial killer»: nel 1998, il celebre super-detective americano Robert K. Ressler, asso dell'Fbi, l'inventore dell'espressione «serial killer» e della tecnica di «elaborazione» del profilo degli assassini in serie (1), che lavorò come consulente per il film Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, è venuto a Ciudad Juarez per indagare su quei 300 delitti. Nel suo rapporto, Ressler afferma che la maggior parte degli assassinii sono opera di due serial killer che non sarebbero messicani, ma probabilmente spagnoli... o chicanos degli Stati uniti.
Nel 1999, una delle massime esperte mondiali di criminologia, Candice Skrapec (2) dell'università di California, confermò che circa 90 degli assassini erano verosimilmente stati commessi da uno o due serial killer. Candice riteneva che Angel Maturino Reséndez (3), il famoso «assassino delle ferrovie», potesse essere uno degli autori.
Perché i cadaveri sono stati sfigurati e mutilati? Perché tanto accanimento sulle vittime, tanto barbaro sadismo? Si tratta di rituali satanici?
Di orge perverse di narcotrafficanti? Di venditori di organi? Di sacrifici umani per girare snuff movies in cui la vittima viene violentata, torturata e uccisa di fronte alla macchina da presa? Gli interrogativi si susseguono all'infinito, senza che nessuna inchiesta seria sia in grado di fornire risposte. Diverse testimonianze indicano che gli assassini sarebbero stati protetti, in un primo tempo, dai poliziotti di Chihuahua. Successivamente avrebbero beneficiato di appoggi negli ambienti del potere legati al traffico di droga.
Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari. Ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista.
Dal 1998 la Commissione messicana dei diritti umani (Cmdu) ha formulato raccomandazioni riguardo a queste centinaia di assassinii di donne, a cui lo stato presta scarsissima attenzione. Tra i sospetti torna spesso un nome, quello di Alejandro Máynez, che avrebbe fatto parte di una banda di criminali, ricettatori, trafficanti di droga e di gioielli, anch'egli esponente di una ricca famiglia proprietaria di night club. Non è mai stato disturbato.
Máynez, come altri sospetti, tra il 1992 e il 1998 godeva della protezione del governatore dello stato di Chihuahua, Francisco Barrio Terrazas, del Partito Acción Nacional (Pan). Durante il suo mandato, gli assassinii di donne si sono moltiplicati, aggiungendosi agli abituali crimini di questo stato, il più violento del Messico. All'epoca, Barrio Terrazas dichiarava che questi assassinii non avevano nulla di sorprendente, perché le vittime passeggiavano in luoghi bui e indossavano minigonne o altre mises provocanti... Nonostante questo, il presidente Vicente Fox (4), eletto nel dicembre del 2000 con l'appoggio determinante del Pan, ha posto Barrio Terrazas a capo del ministero della funzione pubblica e del controllo dei conti, che ha il compito di «combattere la corruzione e rendere trasparente la gestione dell'amministrazione pubblica».
Una caratteristica di Ciudad Juárez sono le numerose fabbriche di subappalto con manodopera a buon mercato addetta al montaggio di prodotti per l'esportazione. Si tratta di manodopera prevalentemente femminile, proveniente essenzialmente dall'interno del paese. Sono le donne che danno da vivere alla famiglia, cosa che turba non poco le tradizioni maschiliste e patriarcali del paese. Immergendosi nel lavoro, le donne tentano di sfuggire alla povertà.
La maggior parte delle vittime erano operaie, e sono state colte di sorpresa mentre si recavano al lavoro o rientravano a casa. Le attendevano al varco bande di delinquenti e di tossicomani. A partire dagli anni 1920 la città ha conosciuto un boom di attrazioni notturne e di turismo. Proprio qui, nel 1942, è stato creato il famoso cocktail «Margarita». I dintorni del vecchio ponte internazionale sono completamente dedicate al piacere: giochi, sesso, alcol. Questa atmosfera, in cui le radio delle macchine che urlano a tutto volume le canzoni americane si confondono con il rock heavy metal, il rap o la techno, incoraggia il consumo di stupefacenti. A quanto pare, induce anche all'assassinio.
Perché l'ondata di omicidi ha generato una sorta di emulazione misogina, trasformando queste uccisioni sporadiche in una vera e propria ossessione criminale: individui che stanno in agguato nell'ombra e commettono gli assassinii per puro desiderio di emulazione. È il regno dei bruti, dei pervertiti, degli psicopatici. Molti giovani «macho» ritengono che la violenza contro le donne sia un obbligo. La notte si aggirano in macchina come belve in cerca di una preda.
Hester van Nierop, una studentessa olandese di 18 anni, è stata rapita così, il 20 settembre 1998. Dodici ore più tardi, il suo cadavere è stato ritrovato sotto il letto di una camera dell'hotel Plaza.
Era stata violentata, torturata e strangolata.
Lilia Alejandra García Andrade, 17enne, madre di due bambini, scomparve il 14 febbraio 2001, uscendo dalla fabbrica. Il suo cadavere è stato ritrovato sette giorni dopo in un terreno incolto di fronte al centro commerciale di Plaza Juárez. Il corpo seminudo era avvolto in una coperta. L'autopsia accertò che l'adolescente era morta il 19 febbraio.
Era stata violentata, torturata, mutilata per cinque giorni, e alla fine strangolata.
Violeta Mabel Alvidrez Barrio, 18 anni, è stata rapita il 4 febbraio 2003. Il suo cadavere è stato ritrovato quindici giorni dopo assieme a quelli di altre due ragazze, di 16 e 17 anni. Ma la sua morte risaliva soltanto a tre o quattro giorni prima, il che vuol dire che era rimasta per oltre dieci giorni alla mercé di carnefici sadici e psicopatici.
Il procuratore della repubblica ritiene che tutti questi omicidi siano delitti comuni o legati forse a trafficanti di organi (5).
Due anni fa, un deputato di Ciudad Juárez mi confidava preoccupato: «Non mi stupirebbe se il governo avesse dato ordine a un gruppo della polizia giudiziaria di occuparsi di occultare gli assassinii di queste donne». Alludeva all'attuale governatore, Patricio Martínez, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che nel gennaio 2001 era stato vittima di un attentato e aveva accusato la mafia locale.
La donna che aveva tentato di ucciderlo era un'ex funzionaria della polizia giudiziaria.
Maria Sáenz, del Comitato di Chihuahua Pro Derechos Humanos, mi ha proposto un'osservazione interessante: prima del 2001, i cadaveri delle vittime violentate e strangolate venivano sempre ritrovati, ma da quando le inchieste si sono moltiplicate, i corpi hanno cominciato a scomparire nel nulla. Le associazioni hanno calcolato che le donne scomparse sono circa 500, mentre i cadaveri ritrovati sono poco più di 300.
Far scomparire i corpi delle donne assassinate è diventata una specialità della mafia locale. Il sistema abituale si chiama «lechada», un liquido corrosivo composto di calce viva e di acidi, che scioglie rapidamente la carne e le ossa senza lasciare traccia. «Nessuna traccia», è la parola d'ordine. Ridurre al nulla, cancellare, far scomparire completamente, sono le parole chiave.
Il 6 novembre 2001 i corpi nudi di tre giovani donne sono stati scoperti in campo di cotone alla periferia della città. Una era minorenne, aveva le mani legate dietro la schiena, ed era stata sgozzata. Il giorno dopo, allargando il raggio delle ricerche, sono venuti alla luce i resti di altre cinque vittime. Messa sotto pressione, la polizia di Chihuahua arrestò due individui che, sotto tortura, confessarono di essere gli autori degli otto delitti. Il procuratore, Arturo González Rascón, annunziò che il caso era stato risolto. Senza neppure svolgere una vera inchiesta, sottopose i due imputati a un procedimento penale.
Il 14 novembre, in flagrante disprezzo di ogni norma giuridica, sotto la pressione della piazza, un giudice complice delle autorità locali emise un mandato di carcerazione. Fra la scoperta dei cadaveri e l'atto giudiziario era trascorsa appena una settimana. Intanto, i veri colpevoli rimanevano in libertà. La serie nera è continuata.
Quello stesso giorno, il 14 novembre, venivano ritrovati altri due cadaveri di giovani donne: uno al Motel Royal, l'altro nel villaggio di Guerrero. Cinque giorni dopo, nei sobborghi della città, si scopriva il corpo seminudo di un'altra donna di 21 anni, Alma Nelly Osorio Bejarano, che era stata torturata e strangolata.
Non esiste nessun registro per repertoriare le centinaia di assassinii di donne commessi a Ciudad Juarez. Le autorità hanno l'abitudine di abbandonare in fretta le ricerche: più di tre mesi dopo la scoperta dei cadaveri delle 8 donne in un campo di cotone, alcuni viandanti hanno ritrovato indumenti e oggetti appartenenti alle vittime...
Il che rivela l'incredibile disinvoltura dei poliziotti. Il governatore Patricio Martínez ha deplorato l'inerzia del suo predecessore Francisco Barrio Terrazas, che avrebbe lasciato soltanto «qualche sacco di ossa» e «nessun dossier sui casi di assassinio». Ma lui ha forse fatto di meglio?
Le autorità sostengono che dal 1992 al 1998, sono stati «risolti» dodici casi di «assassinii seriali» e 99 casi di «delitti comuni» contro le donne (delitti passionali, sessuali, familiari, vendette, regolamenti di conti legati al traffico di droga, commessi durante furti, risse, o per cause non identificate). Dall'ottobre 1998 al febbraio 2002 sono stati commessi 20 «assassini in serie» e 71 «assassini comuni». Dei primi, 15 sarebbero «praticamente risolti» e 5 sotto inchiesta; dei secondi, 53 sarebbero stati «chiariti» e 18 «saranno chiariti quanto prima».
Ma è possibile credere alle autorità? È doveroso ricordare che le espressioni «assassinii risolti» o «in fase di risoluzione» sono semplici inganni, perché si tratta soltanto di interrogatori a persone «messe sotto inchiesta». La strategia dei diversi governatori per «risolvere» gli assassinii seriali di donne a Ciudad Juárez ha portato a una sequela di manipolazioni e dissimulazioni, che in sostanza incolpavano degli innocenti - come è avvenuto appunto per i due imputati degli 8 omicidi del 6 novembre 2001.
Altro metodo delle autorità: far assassinare chi prende le difese dei falsi colpevoli. L'avvocato Mario César Escobedo Anaya è stato assassinato da un commando reo confesso, che tuttavia è stato rilasciato con il pretesto che «difendeva» alcuni agenti di polizia giudiziaria dello stato di Chihuahua. Il loro capo, il comandante Alejandro Castro Valles, aveva l'abitudine di arrestare senza mandato degli innocenti e di torturarli.
Avvocati, giudici, procuratori, giornalisti hanno ricevuto minacce di morte per costringerli ad abbandonare le inchieste sugli omicidi delle donne. Alcuni oppositori del governatore Patricio Martínez sono stati anch'essi minacciati perché sospendessero le loro proteste: le militanti Esther Chávez Cano e Victoria Caraveo, e anche il criminologo Oscar Máynez.
Negli assassinii in serie di Ciudad Juárez s'intrecciano l'atmosfera torbida della frontiera e le sue migliaia di migranti, le sue industrie di subappalto, il fallimento delle istituzioni, e anche la violenza patriarcale, l'ineguaglianza, le negligenze del governo federale, ed altro ancora. Ma, più di tutto, questa vicenda oscura rivela l'onnipotenza dei narcotrafficanti e la robustezza delle loro reti d'influenza.
I legami tra ambienti criminali e potere economico e politico costituiscono una minaccia per tutto il Messico.
I documenti e le testimonianze di cui dispongo sono schiaccianti per le autorità. Dimostrano che alcuni omicidi di donne sono commessi durante orge sessuali da uno o più gruppi di individui, fra cui alcuni assassini protetti da funzionari di diversi corpi di polizia, in combutta con personaggi altolocati, a capo di fortune acquisite per lo più illegalmente, grazie alla droga e al contrabbando, e la cui rete d'influenza si estende come una piovra da un capo all'altro del paese. Per questo motivo questi crimini efferati godono della più completa impunità.
Secondo alcune fonti federali, sei importanti imprenditori di El Paso, del Texas, di Ciudad Juárez e di Tijuana assolderebbero sicari incaricati di rapire le donne e di consegnarle nelle loro mani, per poterle violentare, mutilare e infine uccidere (6). Il profilo criminologico di questi omicidi si avvicinerebbe a quello che Robert K. Ressler ha definito «assassini per divertimento» (spree murders). Le autorità messicane sarebbero da molto tempo al corrente di tali attività e rifiuterebbero di intervenire. Questi ricchi imprenditori sarebbero vicini a certi amici del presidente Vicente Fox e avrebbero contribuito ai finanziamenti occulti della campagna elettorale che ha portato Fox alla presidenza del paese, mentre Francisco Barrio Terrazas, ex governatore di Chihuahua diventava suo ministro. Questo spiegherebbe perché nessun vero colpevole ha mai avuto fastidi con la polizia dopo la morte di quasi 300 donne.
E gli omicidi continuano. In questo stesso istante, forse un'altra donna sta morendo sotto tortura a Ciudad Juárez.



note:

* Scrittore e giornalista messicano, autore tra l'altro di La Noche oculta, Cal y Arena, Città del Messico, 1990, e Huesos en el desierto, Anagrama, Barcellona, 2002.

(1) Leggere Robert K. Ressler, Whoever Fights Monsters, St. Martin's Press, New York, 1992.

(2) www.fresnostatenews.com/2001/December/RecognitionTech.htm#BIO.

(3) Angel Maturino Reséndez, nato nel 1960, e soprannominato dalla stampa degli Stati uniti «the Railroad Killer», è autore di almeno undici assassinii in serie. È stato arrestato in Texas nel luglio 1999 e condannato a morte nel maggio 2000. Si recava spesso a Ciudad Juárez, la città dove viveva sua madre.

(4) Il presidente Fox ha chiesto nuovamente, l'8 marzo 2003, di fare piena luce sugli omicidi delle donne a Ciudad Juárez, e di punire i colpevoli. Cfr. www.almargen.com. mx/ pdi/homicidios/peticionfox.htm.

(5) Cfr. www.siliconvalley.com/mld/nuevomundo/5817861.htm.

(6) Cfr. old.clarin.com/diario/2002/09/23/i-02201.htm.
(Traduzione di R. I.) 


Messico - 08.3.2004
La città della morte
Trecento delitti perfetti. La strage di donne a Ciudad Juarez















http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=2&ida=&idt=&idart=2016 

scritto per noi da 
Manuela Castellani 

A Ciudad Juárez, città di frontiera nel nord del Messico, gemellata con El Paso, in Texas, oltre 300 donne sono state assassinate secondo lo stesso rituale: rapimento, tortura, sevizie sessuali, mutilazioni, strangolamento. 

Da dieci anni, al ritmo di due cadaveri al mese, nei quartieri della città maledetta, vengono scoperti corpi di donne, adolescenti e bambine, nude, martoriate, sfigurate. Gli investigatori ritengono che si tratti dell'opera di due serial killer psicopatici, ancora introvabili. 

Sergio Gonzáles Rodriguez, scrittore e giornalista messicano commenta questi fatti così: "Uno dei racconti più terrificanti della letteratura contemporanea racconta la storia di un vampiro che, in un campo di concentramento, dissanguava a morte uno dopo l'altro i suoi compagni di sventura. Si intitola Dal regno dei morti e i suoi autori, Gardner Dozois e Jack Dann, dovettero battersi a lungo per riuscire a farla pubblicare negli Stati uniti nel 1982: nessuna rivista di fantascienza osava proporla ai propri lettori, ritenendola frutto di una immaginazione troppo morbosa, atroce fino all'eccesso. Se questo racconto di vampiri ci turba, probabilmente è perché viviamo in un mondo quasi normale in cui tali orrori non si verificano spesso. Una storia che, però, ci sembrerebbe banale se vivessimo in un universo in cui fossero accettati i peggiori delitti: sequestri di persona, stupri, torture, assassini. Un mondo in cui i poliziotti proteggessero gli assassini, fossero i loro complici, godessero ad accusare gli innocenti e minacciassero, o addirittura eliminassero, qualsiasi investigatore. Un mondo alla rovescia in cui le autorità chiudessero gli occhi, i criminali fossero liberi e gli innocenti martirizzati. Insomma, un autentico incubo. Solo che questo mondo dell'orrore esiste, fa parte della realtà del Messico". 

Rodriguez non usa mezzi termini: "È vero quanto sono vere le vittime, le prove e le testimonianze che ho accumulato nell'arco di tanti anni. La scena di uno dei più raccapriccianti misteri criminali di tutti i tempi ha un nome preciso: Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua, alla frontiera con gli Stati uniti. La sua popolazione, 1.300.000 abitanti, è ostaggio di assassini senza volto. Quanto avviene qui è un insulto ai diritti umani. Dal 1993, oltre 300 donne sono state rapite, violentate e assassinate. In maggioranza avevano caratteristiche comuni: almeno un centinaio erano di umili origini, quasi sempre operaie, tutte di struttura minuta, brune e con i capelli lunghi. Tutte sono state vittime di violenze sessuali e strangolate. Moltissime rimangono ancora senza nome. Alcuni cadaveri sono stati ritrovati nei quartieri del centro cittadino, altri scoperti in zone incolte della periferia, ma una cosa è certa: tutte le donne sono state uccise da qualche altra parte, a volte dopo esser state sequestrate per intere settimane". 

Il modus operandi degli assassini è identico a quello dei serial killer. Gli omicidi si ripetono, si assomigliano, le sevizie sono le stesse e riguardano non solo donne adulte ma anche adolescenti, e addirittura bambine di 10 o 12 anni. Per tutte le donne, Ciudad Juárez è diventato il luogo più pericoloso del mondo. "Da nessuna parte, neppure negli Stati uniti dove pure i serial killer non mancano, le donne sono così gravemente minacciate - precisa lo scrittore - Nel resto del Messico, su dieci vittime di assassini una sola è donna. A Ciudad Juárez, su dieci persone assassinate quattro sono donne. E la serie dei delitti non s'interromperà di certo visto che, secondo le Nazioni unite, il tasso di impunità in Messico è quasi del 100%. Per combattere un simile flagello non esiste altra arma se non la memoria, la testimonianza. Non mi sono mai sentito così sconvolto come quando mi sono recato sui luoghi in cui sono stati scoperti i cadaveri: era come entrare in una quarta dimensione, con un sentimento di terrore sospeso tra realtà e allucinazione". 

Direttrice di un'associazione contro la violenza tra le pareti domestiche, Esther Chávez Cano pensa che gli omicidi continueranno. L'incompetenza delle autorità balza agli occhi. E tuttavia, la polizia ha arrestato un individuo, di nome Jesus Manuel Guardado Márquez, alias El Tolteca, come pure la banda di Los Choferes, accusati di essere gli assassini. Ma tali arresti non hanno convinto affatto Esther Chavez: "È una trappola. Non modifica affatto la situazione, i delitti continueranno come dopo l'arresto della banda di Los Rebeldes. All'epoca ci era stato detto che erano loro i colpevoli. Credevamo che questo incubo fosse finito. Guardi un po', si continuano a trovare cadaveri di donne violentate, torturate". 

Secondo Esther Chávez si ripete la situazione del 1995: la polizia all'epoca aveva arrestato un chimico di origine egiziana, Abdel Latif Sharif Sharif, e l'aveva accusato dei delitti. Poco dopo aveva catturato una banda di giovani malviventi, Los Rebeldes, presunti complici di Sharif Sharif. Questi è tuttora detenuto in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Chihuahua, capitale dello stato. Accusato dell'assassinio di un'adolescente, Elisabeth Castro García, è stato condannato a trent'anni di reclusione, dopo un processo pieno zeppo di irregolarità, ora in fase di revisione. Per quanto riguarda i suoi legami con Los Rebeldes, le autorità non sono mai riuscite ad accertarli. Dal telefono del carcere, Sharif Sharif nel 1999 ha avuto il coraggio di interpellare il procuratore generale che partecipava a una trasmissione televisiva in diretta. Ha gridato a gran voce la sua innocenza, ha affermato la sua certezza di essere soltanto un capro espiatorio e ha sfidato il procuratore a sottoporlo alla macchina della verità. 

Furiose, le autorità hanno messo l'egiziano in isolamento ancora più stretto. La sua avvocatessa, Irene Blanco, è stata minacciata di morte, ma non si è lasciata intimidire. Il figlio, Eduardo, è stato oggetto di un attentato a cui è sopravvissuto miracolosamente. Irene Blanco ha dovuto rinunziare alla difesa di Sharif Sharif, e ha abbandonato la città. 

Secondo il criminologo Oscar Máynez, almeno 60 omicidi commessi tra il 1993 e il 1999 sono stati concepiti "secondo uno stesso modello". Egli ritiene che si tratti di assassini eseguiti da due distinti serial killer: nel 1998, il celebre detective americano Robert K. Ressler, asso dell'Fbi, l'inventore dell'espressione serial killer e della tecnica di elaborazione del profilo degli assassini in serie, che lavorò come consulente per il film Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, è venuto a Ciudad Juarez per indagare su quei 300 delitti. Nel suo rapporto, Ressler afferma che la maggior parte degli assassinii sono opera di due serial killer che non sarebbero messicani, ma probabilmente spagnoli o chicanos degli Stati Uniti. 

Nel 1999, una delle massime esperte mondiali di criminologia, Candice Skrapec dell'università di California, confermò che circa 90 degli assassini erano verosimilmente stati commessi da uno o due serial killer. Candice riteneva che Angel Maturino Reséndez, il famoso «assassino delle ferrovie», potesse essere uno degli autori. 

Perché i cadaveri sono stati sfigurati e mutilati? Perché tanto accanimento sulle vittime, tanto barbaro sadismo? Si tratta di rituali satanici? Di orge perverse di narcotrafficanti? Di venditori di organi? Di sacrifici umani per girare snuff movies in cui la vittima viene violentata, torturata e uccisa di fronte alla macchina da presa? Gli interrogativi si susseguono all'infinito, senza che nessuna inchiesta seria sia in grado di fornire risposte. 

Diverse testimonianze indicano che gli assassini sarebbero stati protetti, in un primo tempo, dai poliziotti di Chihuahua. Successivamente avrebbero beneficiato di appoggi negli ambienti del potere legati al traffico di droga. Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari. Ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista. 

Dal 1998 la Commissione messicana dei diritti umani (Cmdu) ha formulato raccomandazioni riguardo a queste centinaia di assassinii di donne, a cui lo stato presta scarsissima attenzione. Tra i sospetti torna spesso un nome, quello di Alejandro Máynez, che avrebbe fatto parte di una banda di criminali, ricettatori, trafficanti di droga e di gioielli, anch'egli esponente di una ricca famiglia proprietaria di night club. Non è mai stato disturbato. Máynez, come altri sospetti, tra il 1992 e il 1998 godeva della protezione del governatore dello stato di Chihuahua, Francisco Barrio Terrazas, del Partito Acción Nacional (Pan). Durante il suo mandato, gli assassinii di donne si sono moltiplicati, aggiungendosi agli abituali crimini di questo stato, il più violento del Messico. All'epoca, Barrio Terrazas dichiarava che questi assassinii non avevano nulla di sorprendente, perché le vittime passeggiavano in luoghi bui e indossavano minigonne o altre mises provocanti. 

Nonostante questo, il presidente Vicente Fox, eletto nel dicembre del 2000 con l'appoggio determinante del Pan, ha posto Barrio Terrazas a capo del ministero della funzione pubblica e del controllo dei conti, che ha il compito di «combattere la corruzione e rendere trasparente la gestione dell'amministrazione pubblica». 

Una caratteristica di Ciudad Juárez sono le numerose fabbriche di subappalto con manodopera a buon mercato addetta al montaggio di prodotti per l'esportazione. Si tratta di manodopera prevalentemente femminile, proveniente essenzialmente dall'interno del paese. Sono le donne che danno da vivere alla famiglia, cosa che turba non poco le tradizioni maschiliste e patriarcali del paese. Immergendosi nel lavoro, le donne tentano di sfuggire alla povertà. La maggior parte delle vittime erano operaie, e sono state colte di sorpresa mentre si recavano al lavoro o rientravano a casa. Le attendevano al varco bande di delinquenti e di tossicomani. 

A partire dagli anni 1920 la città ha conosciuto un boom di attrazioni notturne e di turismo. Proprio qui, nel 1942, è stato creato il famoso cocktail «Margarita». I dintorni del vecchio ponte internazionale sono completamente dedicate al piacere: giochi, sesso, alcol. Questa atmosfera, in cui le radio delle macchine che urlano a tutto volume le canzoni americane si confondono con il rock heavy metal, il rap o la techno, incoraggia il consumo di stupefacenti. A quanto pare, induce anche all'assassinio. 

Perché l'ondata di omicidi ha generato una sorta di emulazione misogina, trasformando queste uccisioni sporadiche in una vera e propria ossessione criminale: individui che stanno in agguato nell'ombra e commettono gli assassinii per puro desiderio di emulazione. È il regno dei bruti, dei pervertiti, degli psicopatici. 

Il procuratore della repubblica ritiene che tutti questi omicidi siano delitti comuni o legati forse a trafficanti di organi. Due anni fa, un deputato di Ciudad Juárez mi confidava preoccupato: «Non mi stupirebbe se il governo avesse dato ordine a un gruppo della polizia giudiziaria di occuparsi di occultare gli assassinii di queste donne». Alludeva all'attuale governatore, Patricio Martínez, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che nel gennaio 2001 era stato vittima di un attentato e aveva accusato la mafia locale. 

La donna che aveva tentato di ucciderlo era un'ex funzionaria della polizia giudiziaria. 

Maria Sáenz, del Comitato di Chihuahua Pro Derechos Humanos, mi ha proposto un'osservazione interessante: prima del 2001, i cadaveri delle vittime violentate e strangolate venivano sempre ritrovati, ma da quando le inchieste si sono moltiplicate, i corpi hanno cominciato a scomparire nel nulla. Le associazioni hanno calcolato che le donne scomparse sono circa 500, mentre i cadaveri ritrovati sono poco più di 300. 

Far scomparire i corpi delle donne assassinate è diventata una specialità della mafia locale. Il sistema abituale si chiama «lechada», un liquido corrosivo composto di calce viva e di acidi, che scioglie rapidamente la carne e le ossa senza lasciare traccia. «Nessuna traccia», è la parola d'ordine. Ridurre al nulla, cancellare, far scomparire completamente, sono le parole chiave. 

Il 6 novembre 2001 i corpi nudi di tre giovani donne sono stati scoperti in campo di cotone alla periferia della città. Una era minorenne, aveva le mani legate dietro la schiena, ed era stata sgozzata. Il giorno dopo, allargando il raggio delle ricerche, sono venuti alla luce i resti di altre cinque vittime.Messa sotto pressione, la polizia di Chihuahua arrestò due individui che, sotto tortura, confessarono di essere gli autori degli otto delitti. Il procuratore, Arturo González Rascón, annunziò che il caso era stato risolto. Senza neppure svolgere una vera inchiesta, sottopose i due imputati a un procedimento penale. 

Il 14 novembre, in flagrante disprezzo di ogni norma giuridica, sotto la pressione della piazza, un giudice complice delle autorità locali emise un mandato di carcerazione. Fra la scoperta dei cadaveri e l'atto giudiziario era trascorsa appena una settimana. Intanto, i veri colpevoli rimanevano in libertà. La serie nera è continuata. Quello stesso giorno, il 14 novembre, venivano ritrovati altri due cadaveri di giovani donne: uno al Motel Royal, l'altro nel villaggio di Guerrero. Cinque giorni dopo, nei sobborghi della città, si scopriva il corpo seminudo di un'altra donna di 21 anni, Alma Nelly Osorio Bejarano, che era stata torturata e strangolata. 

Non esiste nessun registro per repertoriare le centinaia di assassinii di donne commessi a Ciudad Juarez. Le autorità hanno l'abitudine di abbandonare in fretta le ricerche: più di tre mesi dopo la scoperta dei cadaveri delle 8 donne in un campo di cotone, alcuni viandanti hanno ritrovato indumenti e oggetti appartenenti alle vittime. Il che rivela l'incredibile disinvoltura dei poliziotti. Il governatore Patricio Martínez ha deplorato l'inerzia del suo predecessore Francisco Barrio Terrazas, che avrebbe lasciato soltanto «qualche sacco di ossa» e «nessun dossier sui casi di assassinio». Ma lui ha forse fatto di meglio? 

Le autorità sostengono che dal 1992 al 1998, sono stati risolti dodici casi di assassinii seriali e 99 casi di delitti comuni contro le donne(delitti passionali, sessuali, familiari, vendette, regolamenti di conti legati al traffico di droga, commessi durante furti, risse, o per cause nonidentificate). Dall'ottobre 1998 al febbraio 2002 sono stati commessi 20 assassini in serie e 71 assassini comuni. Dei primi, 15 sarebbero praticamente risolti e 5 sotto inchiesta; dei secondi, 53 sarebbero stati chiariti e 18 saranno chiariti quanto prima. 

Ma è possibile credere alle autorità? È doveroso ricordare che le espressioni "assassinii risolti" o "in fase di risoluzione" sono semplici inganni, perché si tratta soltanto di interrogatori a persone "messe sotto inchiesta". 

La strategia dei diversi governatori per «risolvere» gli assassinii seriali di donne a Ciudad Juárez ha portato a una sequela di manipolazioni e dissimulazioni, che in sostanza incolpavano degli innocenti - come è avvenuto appunto per i due imputati degli 8 omicidi del 6 novembre 2001. Altro metodo delle autorità: far assassinare chi prende le difese dei falsi colpevoli. L'avvocato Mario César Escobedo Anaya è stato assassinato da un commando reo confesso, che tuttavia è stato rilasciato con il pretesto che «difendeva» alcuni agenti di polizia giudiziaria dello stato di Chihuahua. 

Il loro capo, il comandante Alejandro Castro Valles, aveva l'abitudine di arrestare senza mandato degli innocenti e di torturarli. Avvocati, giudici, procuratori, giornalisti hanno ricevuto minacce di morte per costringerli ad abbandonare le inchieste sugli omicidi delle donne. Alcuni oppositori del governatore Patricio Martínez sono stati anch'essi minacciati perché sospendessero le loro proteste: le militanti Esther Chávez Cano e Victoria Caraveo, e anche il criminologo Oscar Máynez. Negli assassinii in serie di Ciudad Juárez s'intrecciano l'atmosfera torbida della frontiera e le sue migliaia di migranti, le sue industrie di subappalto, il fallimento delle istituzioni, e anche la violenza patriarcale, l'ineguaglianza, le negligenze del governo federale, ed altro ancora. 

Ma, più di tutto, questa vicenda oscura rivela l'onnipotenza dei narcotrafficanti e la robustezza delle loro reti d'influenza. I legami tra ambienti criminali e potere economico e politico costituiscono una minaccia per tutto il Messico. I documenti e le testimonianze di cui dispongo sono schiaccianti per le autorità. Dimostrano che alcuni omicidi di donne sono commessi durante orge sessuali da uno o più gruppi di individui, fra cui alcuni assassini protetti da funzionari di diversi corpi di polizia, in combutta con personaggi altolocati, a capo di fortune acquisite per lo più illegalmente, grazie alla droga e al contrabbando, e la cui rete d'influenza si estende come una piovra da un capo all'altro del paese. Per questo motivo questi crimini efferati godono della più completa impunità. Secondo alcune fonti federali, sei importanti imprenditori di El Paso, del Texas, di Ciudad Juárez e di Tijuana assolderebbero sicari incaricati di rapire le donne e di consegnarle nelle loro mani, per poterle violentare, mutilare e infine uccidere. Il profilo criminologico di questi omicidi si avvicinerebbe a quello che Robert K. Ressler ha definito "assassini per divertimento" (spree murders). Le autorità messicane sarebbero da molto tempo al corrente di tali attività e rifiuterebbero di intervenire. 

Questi ricchi imprenditori sarebbero vicini a certi amici del presidente Vicente Fox e avrebbero contribuito ai finanziamenti occulti della campagna elettorale che ha portato Fox alla presidenza del paese, mentre Francisco Barrio Terrazas, ex governatore di Chihuahua diventava suo ministro. Questo spiegherebbe perché nessun vero colpevole ha mai avuto fastidi con la polizia dopo la morte di quasi 300 donne. 

E gli omicidi continuano. 

In questo stesso istante, forse un'altra donna sta morendo sotto tortura a Ciudad Juárez. 


Liberazione – 5 Dicembre 2004 
Il Paginone

LAVORARE E MORIRE A CIUTAD JUAREZ
Confine Messico-Usa, da 11 anni una carneficina di donne continua impunita. A colloquio con una madre

Lo sguardo che Ramona Morales ti pianta addosso è difficile da sostenere. Dentro c’è una sofferenza inimmaginabile insieme all’insanabile offesa di un’ingiustizia protratta, arrogante e crudele. Gli occhi sono lucidi ma la voce è ferma mentre racconta, seduta all’aperto
in un mite autunno romano, la sua tragedia. «Era il 7 luglio del 1995. Come ogni mattina mia figlia,
Come ogni mattina mia figlia, Silvia Elena, stava uscendo insieme al fratello maggiore che l’accompagnava a scuola. Aveva sedici anni, era preoccupata per gli esami della scuola preparatoria
(equivalente alle nostre superiori) perché aveva poco tempo per studiare, visto che il pomeriggio lavorava in una fabbrica di scarpe. Ci salutammo sulla porta. Fu l’ultima volta che la vidi».
Ramona, come altre madri di desaparesidas, è stata minacciata e insultata. A nessuna sono state risparmiate pesanti insinuazioni sul comportamento delle figlie, in buona parte bambine. Del resto
anche avvocati, giudici, procuratori e giornalisti che si occupavano delle inchieste hanno ricevuto minacce e pressioni. 














Immagini dal confine
Le foto di Lina Pallotta
Le fotografie di queste pagine sono di Lina Pallotta, fotografa e giornalista italiana che vive e lavora a NYC dove
ha studiato e conseguito il diploma in Fotogiornalismo e Documentazione a “International Center of Photography”. La mostra fotografica dedicata ai casi e alle donne di Ciudad Juarez è in visione in questi giorni a Roma presso la Casa delle donne, via della Lungara 19. La mostra fa parte dell’iniziativa “Rome for women” per i diritti umani della donna nel mondo promossa dal comune della capitale insieme ad Amnesty International e grazie al sostegno dall’assessore delle politiche del Lavoro Luigi Nieri e da Mariella Gramaglia assossore alle
pari Opportunità.

Ramona Morales racconta la storia della figlia Maria Elena rapita e uccisa nel 1975: «Chiediamo giustizia e verità su quanto sta accadendo»

Così, insieme alle altre madri dell’associazione “Por nuestras hijas de regreso
a casa” (Per far tornare a casa le nostre figlie), Ramona ha cominciato a salire nella scala gerarchica del potere. Dalle autorità comunali a quelle provinciali, dal governatore dello Stato al presidente della nazione. Per ben due volte è stata ricevuta dal presidente Fox in un tripudio di telecamere
davanti alle quali ha potuto mostrare la foto di sua figlia e raccogliere vaghe promesse mai mantenute. Ma Ramona non si è data per vinta. I suoi viaggi hanno fruttato l’appoggio di Amnesty International, l’interesse del giudice spagnolo Garzon e ora, forse, l’interessamento di qualche
deputato del Parlamento italiano. Tutto pur di arrestare la mattanza che, anche nel novembre scorso, ha preteso il suo tributo di vittime. «Quel giorno» continua Ramona «visto che non tornava, andai ad aspettarla per strada, vicino alla fermata dell’autobus. Quando sono tornata a casa, perché ormai era buio, mio marito e i miei altri quattro figli cercavano di rassicurarmi, ma quando la notte è trascorsa senza che Silvia Elena tornasse, hanno cominciato a spaventarsi anche loro, perché non aveva mai passato la notte fuori. Tutti, parenti e vicini, cercavano di farmi coraggio. Dicevano: “vedrai che è andata a ballare con un’amica”. Dicevano: “è venerdì, anche lei ha diritto di divertirsi”.
Ma io lo sentivo, sentivo che era successo qualcosa di brutto a mia figlia. La mattina dopo siamo andati alla fabbrica di scarpe, e a scuola, per parlare con le amiche. Tutte le compagne dicevano che erano uscite insieme, come sempre, ma poi lei era sparita. Così andammo a fare la denuncia. Le autorità ci dissero: “vedrete che torna. Sarà scappata con un ragazzo, e magari ha paura di venire punita”. Noi sapevamo che c’erano stati casi di donne scomparse a Ciudad Juarez, ma la televisione li aveva presentati come una faccenda di prostitute, e non mi era nemmeno passato per la testa che mia figlia potesse implicata in qualcosa del genere. Così mi aggrappai all’idea della fuga d’amore anche se ricordavo benissimo quello che diceva mia figlia: prima voglio finire gli studi, poi penserò ai ragazzi e al matrimonio. Ci teneva molto, alla scuola. Però, pensavo, magari ha cambiato idea, magari si è innamorata, sai come vanno queste cose…». Ramona deve fermarsi. Scava nella borsa per cercare un fazzoletto. Tira fuori invece la fotografia di una bellissima ragazza in abito da comunione: una foto plastificata, completa di spago per appenderla al collo, con scritta una parola
sola: “giustizia! ” «La polizia», riprende Ramona, «ci disse che bisognava aspettare 72 ore e poi avrebbero cominciato a cercarla. Non fecero niente del genere. Quando tornavamo a chiedere qualcosa ci dicevano che le indagini erano in corso, e non potevano divulgare informazioni.
Andò avanti per due mesi, finché non venne trovata. La trovò un uomo che aveva un allevamento poco fuori città. Era irriconoscibile: della faccia non rimaneva praticamente più niente, soltanto il
cranio. La pelle del corpo era secca, come bruciata. L’avevano violentata, torturata, e poi
strangolata». 

La fabbrica del serial killer

Quattrocento donne, dai cinque ai trentacinque anni. Queste le cifre di una carneficina che va avanti, impunita, da undici anni. Cifre sottostimate, visto che le desaparesidas sono molte di più: duemila, secondo fonti ufficiali, almeno il doppio secondo i gruppi di familiari coalizzati nell’associazione “Por nuestras hijas de regresso a casa”, la stessa che sta portando in giro per il mondo Ramona Morales, la madre di Silvia Elena. In realtà, sono numeri impossibili da verificare. Ogni settimana El Diario pubblica nel paginone centrale decine di foto di desaparesidos, uomini
e donne, che sono stati risucchiati dal deserto o dalle vendette incrociate di uno dei sottoboschi criminali più violenti del mondo. Perché Ciudad Juarez, situata esattamente sul confine con gli Stati Uniti, modello economico basato sullo sfruttamento e sulla criminalità, sul traffico della droga
e dei migranti. Esplosa dopo il varo dell’accordo di libero scambio delle americhe (Nafta), Ciudad Juarez è ormai una città che sfiora i due milioni di abitanti, dei quali ben pochi sono destinati
a rimanere. Vengono per lavorare nelle maquilladoras, le fabbriche statunitensi trasferitasi
oltre confine a caccia di manodopera economica e di norme permissive, aspettando di “passare dall’altra parte”, oltre il muro che separa l’intero continente dal paese del Bengodi. Perché “dall’altra parte” - come ormai vengono chiamati gli Stati Uniti – potranno costruirsi una nuova
vita e guadagnare abbastanza da riuscire a mantenere anche le famiglie lasciate indietro, nei più sperduti villaggi di questo paese immenso che è il Messico.
Le ragazze assassinate dopo essere state violentate e torturate come Silvia Elena hanno
questo in comune: fanno parte degli strati più bassi della popolazione. Quella sterminata 
massa di persone che abita le periferie fatiscenti della città dove gli unici trasporti pubblici sono i bus delle fabbriche che vanno a prendere all’alba, le lavoratrici della periferia. Sono vittime perfette. Nella maggior parte dei casi nessuno le reclama perché spesso sono arrivate a Ciudad Juarez sole e, anche se lavorano
duramente, hanno dovuto abituarsi a trattare con le organizzazioni criminali che le porteranno “dall’altra parte”. E quando ci sono, le famiglie sono isolate, sradicate dalle loro terre d’origine, totalmente prive della coesione sociale necessaria per organizzare delle reti di auto-difesa e in
balìa di una delle polizie più corrotte. Sul confine i narcotrafficanti governano con pugno di ferro e con le milizie armate, piccoli eserciti privati o pubblici ufficiali al soldo della criminalità organizzata. 


Indiziate eccellenti

Povere, donne e per la maggior parte indigene. Facile capire perché dal 1993, da quando cioè è stato commesso il primo omicidio, le autorità continuino a brancolare nel buio. Non è che non abbiano
fatto proprio niente, anzi. Quando la storia è cominciata a circolare al di fuori dei ristretti confini cittadini – per merito appunto delle associazioni familiari – la polizia si è mossa con mano pesante.
Nel 1995 viene arrestato un chimico di origine egiziana, Abdel Latif Sharif Sharif, che è stato torturato e condannato a trent’anni dopo un processo sommario. Il tentativo di riabilitare Sharif,
visto che, dopo il suo arresto, gli omicidi continuavano, è servito solo a esporre la sua avvocatessa, Irene Blanco, a minacce e attentati, segno che alla base degli omicidi c’è un’organizzazione potente e ben ramificata.
Per il criminologo Oscar Máynez, almeno 60 omicidi commessi tra il 1993 e il 1999 sono stati concepiti «secondo uno stesso modello». Nel 1998, il celebre super-detective americano Robert K. Ressler, asso dell’Fbi, indagò sui delitti e ipotizzò l’esistenza di due serial killer. Anche Candice Skrapec, una delle massime esperte mondiali di criminologia, confermò che circa 90 degli assassinii erano verosimilmente stati commessi da uno o due serial killer. Una spiegazione plausibile che non rende però conto del numero impressionante di vittime e della protezione di cui godono gli assassini. Si fa largo l’ipotesi che si tratti di qualche affare estremamente redditizio, come 
il traffico d’organi o, peggio, la produzione su larga scala di “snuff movies”, come vengono
chiamati quei film basati sulle riprese dal vero di torture, supplizi e uccisioni. Un mercato ovviamente illegale ed estremamente redditizio. Certo gli assassini sono più che protetti. In undici anni nemmeno un corpo è stato scoperto dalla polizia. I cadaveri sono stati rinvenuti casualmente
da privati cittadini oppure dai volontari, squadre di parenti e amici che, armati di pale, sono andati a scavare nel deserto. Diverse testimonianze indicano che gli assassini sarebbero stati protetti in un primo tempo dai poliziotti di Chihuahua e successivamente avrebbero beneficiato di appoggi negli ambienti legati al traffico di droga. Alla fine del 1999 vennero trovati alcuni cadaveri di donne e bambine vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina, una coincidenza che sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari. Le autorità si rifiutarono di seguire questa pista.
Tra i sospetti torna spesso un nome, quello di Alejandro Máynez, che avrebbe fatto parte di una banda di criminali, ricettatori, trafficanti di droga e di gioielli, anch’egli esponente di una ricca famiglia proprietaria di night club. Máynez, come altri sospetti, tra il 1992 e il 1998 godeva della
protezione del governatore dello stato di Chihuahua, Francisco Barrio Terrazas, del “Partido Acción Nacional” (Pan). Durante il suo mandato, gli omicidi si sono moltiplicati, aggiungendosi agli abituali crimini che rendono questo stato il più violento del Messico. All’epoca, Barrio Terrazas
rilasciava dichiarazioni Morales sul presunto comportamento equivoco delle vittime, che le
avrebbe esposte all’assalto di qualche isolato maniaco. Malgrado i sospetti, il presidente Vicente Fox, eletto nel dicembre del 2000 con l’appoggio del Pan, ha assegnato a Barrio Terrazas il ministero della Funzione pubblica e del controllo
dei conti, con il compito di «combattere la corruzione e rendere trasparente la gestione dell’amministrazione pubblica».

SABINA MORANDI



Le vittime sono quasi sempre operaie delle famigerate “maquilladoras”
LA DENUNCIA DI AMNESTY: «IL GOVERNO FA POCO E NIENTE»

Una volta rapite a casa non fanno più ritorno. Centinaia di giovani messicane sottratte alla loro vita torturate, stuprate e infine uccise. A Ciudad Juàrez, più di 4mila fabbriche impiegano per l’80% manodopera femminile, senza garanzie. Le stesse operaie al di là del fiume, negli Usa, guadagnano 10 volte di più. Il nome di queste strutture tessili, maquilladoras viene da “maquilla”, la parte di farina che il mugnaio trattiene per sé, lavorando nel mulino di altri. Troppo costoso pagare operai negli States, così le multinazionali si spostano oltre confine dove è facile trovare manodopera a basso costo. Solo che è proprio da queste fabbriche che molte donne scompaiono. Secondo le organizzazioni locali di diritti umani, sarebbero «oltre 400 le donne scomparse senza lasciar traccia», il tutto nell’arco di questi ultimi undici anni e con una terribile puntualità. «Ogni settimana - denuncia l’organizzazione Nuestras Hijas de regreso a Casa - almeno una donna scompare e di lei non si sa più nulla a meno che il rapitore non decida di lasciarla da qualche parte senza vita, brutalmente mutilata, bruciata o uccisa». Le lavoratrici delle maquilladoras sono donne che vivono nella precarietà e pertanto sottoposte a un rischio ancor maggiore di subire violenza. Spesso abitano distanti dal luogo di lavoro e sono costrette ad attraversare in piena notte le campagne deserte. E’ in questo tragitto che rischiano la vita.
Da tempo, Amnesty International sta lavorando ad un’inchiesta per documentare i casi irrisolti
ma, per ora, ha potuto ben poco. Lo scoglio principale è il governo del Paese che «in merito
alla questione ha fatto poco e niente». Le morti di queste donne non hanno un prezzo politico
per le autorità locali e in più di un’occasione la colpa del rapimento e del brutale assassinio è
attribuita alle stesse vittime: «Vestivano in modo sconveniente». Sta di fatto, però, che dietro le
sbarre sono finiti davvero in pochi e non si sa neppure se gli uomini arrestati siano i veri assassini.
Dure le parole di Amnesty: «Non essere riusciti a fermare dieci anni di sequestri e omicidi
la dice lunga sulla capacità del governo messicano di tradurre in realtà la sua retorica sui diritti umani». Di fronte a tutto ciò anche le proteste delle famiglie non hanno sortito alcun effetto. Al
contrario, in varie occasioni, sono state messe a tacere. «Non ci meritiamo il trattamento e il dolore che stiamo provando ogni giorno - ha detto la madre di una vittima - quello che chiedo è che trovino mia figlia e che giustizia sia fatta». Delle centinaia di donne solo di alcune è stato ritrovato il cadavere, mentre delle altre si è persa ogni traccia. Resta fitto il mistero su settanta corpi rinvenuti
visto che, date le condizioni, non è stato possibile identificarli. Quel che è certo è che i corpi ritrovati raccontano chiaramente le sofferenze patite. «Quando la trovammo, il corpo di mia figlia
diceva tutto ciò che le era stato fatto», dice Norma Andrade, la madre di Lilia Alejandra, il cui
cadavere fu ritrovato nel febbraio del 2001 in un terreno abbandonato a pochi passi da una
maquilladora. Strazianti i referti dei medici legali: «Una donna non identificata è stata trovata alle pendici del Cerro Bola (…) in posizione supina e con la cerniera dei pantaloni aperta tirati giù fino alle ginocchia (…).Abrasioni sul seno, sulla mandibola e sul mento. Morte per asfissia o soffocamento».
Secondo gli inquirenti sarebbero molte le ipotesi sui moventi ma anche sulle possibili coperture
garantite agli assassini. Sta di fatto che dietro a questo inquietante mistero criminale, potrebbero
esserci orge, compravendite di organi, sacrifici umani. Il tutto mentre diverse testimonianze 
indicano che gli assassini potrebbero aver beneficiato di appoggi negli ambienti legati al traffico
di droga o a quelli delle politica locale. Secondo il famoso investigatore dell’Fbi, Robert K.
Ressler, inventore dell’espressione “serial killer” e consulente del film “Il silenzio
degli innocenti”, dietro le uccisioni ci sarebbero almeno due assassini, forse neppure messicani.
E’ evidente che qualsiasi inchiesta, al momento, sia costretta a naufragare perché – dicono gli inquirenti - «dietro la vicenda si profilano strane trame e un gioco gestito dall’alto». Il che alimenta
i dubbi di coloro che dicono: «Questi arresti non convincono ». Esther Chavez Cano, direttrice 
di un’associazione contro la violenza tra le pareti domestiche, spiega: «E’ una trappola. Non modifica affatto la situazione, i delitti continueranno». Così, mentre questi “spree murders” (assassini per divertimento), definiti così dal criminologo Ressler, si muovono indisturbati,
continua la serie di rapimenti. E forse, in questo stesso istante a Ciudad Juarez, una donna sta morendo tra atroci sevizie.

GIADA VALDANNINI

A segus