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29/04/2005 Rassigna de s'imprenta/ Unione sarda de su 28.04.05

Sa die, la festa fallita perché non celebra l'autonomia culturale

Eduardo Blasco Ferrer

Sa die de sa Sardinna (questa è la unica forma sarda autentica, le altre sono latinismi o forme "porcheddinas") non viene più venerata come prima. C'è chi la dimentica, chi ritiene che non deve esistere, chi, a ragione o a torto, facendo i conti considera che deve costare meno. Insomma, si comincia a riflettere sull'opportunità d'una festività sui generis, e forse qualche piccolo spunto argomentativo ci vuole, per sviscerare appunto le cause del disagio. A un fautore della festa che agisca da osservatore esterno piuttosto che da animal politicum basterebbe rammentare il fatto che quasi ogni comunità autonoma ne ha una, dalla Catalogna all'Occitania, dalla Moldavia alla Frisonia e al Galles. In tutti questi casi, e in tanti altri, la motivazione principale della festa è il ricordo di una autonomia culturale ripristinata dopo oscuri passaggi politici. E qui risiede già una differenza non piccola fra la nostra festa e quelle altre. Se i Catalani possono celebrare dopo la morte del Generalissimo Francisco Franco il recupero d'una autonomia gestionale anche linguistica, e gli Occitani festeggiare con entusiasmo l'obliterazione della Loi Deixonne dopo la prima metà del Novecento, i Sardi non hanno nessun fatto politico recente che possa fungere da connessione con una data che somiglia piuttosto a un logos astratto. Gli avvenimenti angioini sono troppo distanti, ideologicamente, culturalmente e politicamente, da ogni realtà che ci circonda. E come un taglio cesareo, l'Unità nel 1861 e la Liberazione nel 1945 ci rendono meno consapevoli di appartenere a una comunità che rivendica una propria facies. Nell'ideologia degli ispiratori de Sa Die c'era, e continua ad esserci certamente, un senso di "identità culturale" preminente, un invito a fare una sosta e riflettere su una cultura comunitaria che ha radici e storia peculiari. Purtroppo, nelle manifestazioni degli anni precedenti, mi sento di dire senza ambagi, ci sono stati due approcci ben diversi da quello auspicato da chi ha introdotto la festa nel calendario. Un primo approccio, assai velleitario, ha cercato di sensibilizzare le masse popolari mediante una sorta di strumentalizzazione politico-culturale: autonomia dai Piemontesi allora, dunque autonomia dagli Italiani ora. E' un discorso che si è sentito tra le righe, che investendo la cultura locale asfittica o la lingua etnica soffocata indirettamente chiedeva un risarcimento di voti, o quantomeno un ripensamento sulla politica vera e propria. A mio umile avviso un grande errore, che peraltro ha allontanato i giovani e le persone meno attente all'evento culturale. E che può favorire giuste censure da parte di chi amministra i fondi culturali. Anche perché, ad essere sinceri, un clima passatista patriottico non lo si respira in nessuna contrada, né può contare su combattenti reduci da lotte per la salvaguardia del territorio, considerato ancora a quanto pare da qualcuno come nell'Ottocento una Nazione-Stato. Il secondo approccio, molto scolastico e dilettantesco, è quello di offrire al "popolo" una miriade di ricorrenze culturali minuscole, senza un tessuto connettivo solido: discorsi sulla poesia che cala da lombi magnifici, ma che continua a non essere capita dalla stragrande maggioranza dei liceali; panegirici su episodi storici tanto sublimati da oscurare il vero intreccio delle componenti storiche sarde precedenti e successive; insomma lezioni improvvisate a platee che dimenticheranno tutto ciò che hanno ascoltato in pochi minuti. I due approcci sono anche deleteri perché ci fanno pensare alla data scelta dal Legislatore per la festa: troppo vicina al 25, che senz'altro potrebbe rappresentare davvero la festa "anche" dei Sardi per il recupero della libertà e rammentare i prodromi del successivo Statuto di autonomia; ma anche vicina al 1 maggio, quando si celebra allora sì un personaggio storico sardo che raccorda il passato al presente, perché come ogni santo Efisio non ha tempi limitati. Il pensiero di fondo che emerge da queste mie riflessioni iconoclastiche è che non ha molto senso investire troppe energie in un solo giorno. Altrove s'investe in una acculturazione progressiva, in un insegnamento della lingua e della cultura che possano far apprezzare, anche a quei ragazzi che passano il sabato sera al Charlie, la peculiarità della loro Isola, dai nuraghes ai campi seminati o pascolati ai murales fino alla poesia a tenores. Il miracolo che si aspettano gli "ultras" de Sa Die non esiste, ci vuole un lavoro certosino, un'attività educativa competente e continuativa. Se deve invece prevalere l'idea di una semplice celebrazione senza effetti perduranti, allora tanto vale dedicare, come i Romani, un giorno a una Dea, ad esempio a Diana: almeno Lei ci ha lasciato davvero una traccia costante, senza soluzioni di continuità (sas domos de janas). Eduardo Blasco Ferrer


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