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22/04/2005 Parres libberos 

Literadura in sardu: unu presìdiu seguru

de Frantziscu Cheratzu

Da tempo, un fantasma si aggira nei meandri culturali della Sardegna: la produzione letteraria in lingua sarda. Presente nei secoli, si è costantemente adattata alle dominazioni linguistiche succedutesi nell’isola. È sempre esistita come una sorte di “presidio”, a sua volta ben controllato, sempre osteggiata nel suo verificarsi, per poi magari essere rivalutata nell’epoca “culturale” successiva quale elemento forte d’identità.

In questi ultimi decenni, oltre alla ben nota produzione poetica, ecclesiale e teatrale, si è aggiunto un elemento nuovo: la prosa in limba. Com’è tradizione, il tutto è avvenuto in sordina, lontano dall’esaltazione dei media. Eppure, almeno quantitativamente parlando, il fenomeno non può essere liquidato in due battute. Secondo una ricerca di Giuseppe Tirotto (scrittore con all’attivo tre romanzi in castellanese) le opere originali in prosa ammontano a 58, mentre, se aggiungiamo le traduzioni di classici italiani e della letteratura mondiale, andiamo oltre i 100. Ciò significa che un “forte lettore” impiegherebbe, leggendo un libro al mese, ben 9 anni. Se poi si considera che il tutto è avvenuto nel ventennio appena trascorso (precursore fu Larentu Pusceddu con S’arvure de sos tzinesos pubblicato nel 1982) e che la produzione è andata aumentando col passare del tempo, possiamo affermare che siamo di fronte a un evento di notevole portata. Anche la scelta è varia: andiamo dal romanzo di fantapolitica di Gianfranco Pintore Su Zogu, al racconto ironico di Albino Pau Sas gamas de Istelai, alle novelle di Franciscu Carlini S’omini chi bendiat su tempus, al romanzo storico di Paola Alcioni e Antonimaria Pala Addia, alla denuncia della violenza in Su cuadorzu di Nanni Falconi, alle fiabe di Ivo Murgia Contus africanus. Nel campo delle traduzioni troviamo, oltre al libro per eccellenza Sa Bibbia Sacra curata da Salvatore Ruju, autori del calibro di Ernest Hemingway S’omini becciu e su mari, Joseph Conrad Coro de iscurigore, Emilio Lussu Sa Brigata Tatari, e poi Orwell, Collodi, Deledda e altri. Se i numeri sono di tutto rispetto, rimane aperto il problema della qualità dei lavori, in particolare delle opere originali. Per valutare le opere bisogna però conoscerle e quindi si deve sapere della loro esistenza. Allora perché non se ne parla? E dove sono i critici letterari e gli studiosi nostrani? Facile occuparsi dell’“eccellenze” magnificate dalla stampa. Con quale serietà possiamo parlare di “civiltà letteraria” se tralasciamo fenomeni così macroscopici? Ci viene difficile accettare come normali le cose normalmente fatte altrove? Una lingua normale che ha pretese culturali come tutte le altre?! è un problema psicologico come quello del carcerato che, pur trovando la porta della cella aperta, non osa varcare la soglia? Sottrarre questa fetta della nostra cultura dai normali circuiti informativi e formativi equivale a un sequestro. Se l’amore per il libro dev’essere universale, perché non dobbiamo essere “rapiti” anche da questi?



A segus