Traduzione. Questa settimana, prendiamo una pausa dai discorsi tecnici sulla traduzione, per riflettere su una domanda che ricorre frequentemente quando si parla di tradurre in sardo la Bibbia: "Ma in fin dei conti a chi serve?". Non entro, per ora, nei particolari della discussione, e, prima di dare la mia risposta, premetto le parole del Documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, della Pontificia Commissione Biblica. Siccome penso che chi legge queste letture "domenicali" sia abbastanza motivato da non avere bisogno di mediazioni cosiddette "giornalistiche", riporto la citazione completa e senza commenti (aggiungo soltanto dei neretti di evidenziazione). Alle pag. 108-109 si legge:
"Allo sforzo di attualizzazione, che consente alla Bibbia di conservare la sua fecondità anche attraverso i mutamenti dei tempi, corrisponde, per la diversità dei luoghi, lo sforzo di inculturazione, che assicura il radicamento del messaggio biblico nei terreni più diversi. Questa diversità non è del resto mai totale. Ogni autentica cultura, infatti, è portatrice, a suo modo, di valori universali fondati da Dio.
Il fondamento teologico dell'inculturazione è la convinzione di fede che la Parola di Dio trascende le culture nelle quali è stata espressa e ha la capacità di propagarsi nelle altre culture, in modo da raggiungere tutte le persone umane nel contesto culturale in cui vivono. Questa convinzione deriva dalla Bibbia stessa, che, fin dal libro della Genesi, assume un orientamento universale (Gen 1,27-28), lo mantiene poi nella benedizione promessa a tutti i popoli grazie ad Abramo e alla sua discendenza (Gen 12,3; 18,18) e lo conferma definitivamente estendendo a "tutte le nazioni" l'evangelizzazione cristiana (Mt28,18-20); Rm 4,16-17; Ef 3,6).
La prima tappa dell'inculturazione consiste nel tradurre in un'altra lingua la Scrittura ispirata..." (Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993, pp. 108-109).
Questa convinzione "teologica" deve essere il punto di partenza di ogni seria discussione sulla traduzione della Bibbia in sardo. Tradurre la Bibbia in sardo, prima che a tzia Maria o a tziu Srabadoi, serve anzitutto a Dio, alla piena manifestazione della ricchezza della sua parola. Il Verbo, la Parola fatta carne, non ha ancora detto pienamente tutto e in tutti i toni, finché non avrà parlato anche la nostra lingua.
Il sardo manca all'incarnazione. E, se vi sembra un'eresia, diciamo che il sardo manca alla storia dell'incarnazione.
Nei tempi biblici, l’anno giubilare era un tempo dedicato alla lettura completa delle Scritture. Queste pagine di traduzione che noi abbiamo cominciato a pubblicare alla fine di questo anno giubilare (non più evidentemente nel senso che aveva ai tempi biblici), vanno inquadrate all’interno di questa teologia dell’incarnazione.A questo punto la domanda iniziale potrebbe trasformarsi in altre domande un po’ più pericolose. Ad esempio: Se la traduzione è il primo passo di una inculturazione della fede, non avendo noi ancora una traduzione "accurata, chiara, naturale" della Bibbia in sardo, che tipo di "inculturazione" la Chiesa ha promosso in Sardegna? Ma ne ha mai veramente promosso una? Il clero oggi può essere diviso in due gruppi d’età: quello formato prima del 1970, a Cuglieri, e quello formato dopo il 1970, a Cagliari. Con tutto la riconoscenza che abbiamo per i gesuiti, non possiamo dimenticare che la lingua sarda e i canti sardi erano proibiti, fin dal seminario minore. E così abbiamo un clero che nella maggior parte è cresciuto cantando "Vorrei ch’io fossi un fiore, un fiore dell’altar", invece che crescere come pianta radicata sul terreno solido della tradizione locale. La domanda dunque: da questo punto di vista, c’è una differenza tra il clero prima di Cuglieri, il clero di Cuglieri, e il clero dopo Cuglieri? Non sarebbe senza interesse cercare di rispondere. Per vedere se e come il clero può contribuire oggi con la gente sarda a "inculturare" la propria fede. Al di là delle facili gratificazioni giubilari, che purtroppo ci lasceranno da questo punto di vista esattamente al punto in cui eravamo prima. Celebrando l’incarnazione "altrove", la dimentichiamo "a casa".
Capita sovente di sentire, anche da responsabili pastorali della chiesa sarda, l’opinione secondo cui le traduzioni in sardo della Bibbia sono una "curiosità". È un’opinione fondata certo su considerazioni legittime, ma proprio da un punto di vita ecclesiale e religioso un tale apprezzamento sembra poco coerente con il fatto che "la prima tappa dell’inculturazione consiste nel tradurre in un’altra lingua la Scrittura ispirata" (cfr. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1993). Data l’autorevolezza dell’affermazione del documento pontificio è inevitabile la domanda se la mancata traduzione della Bibbia in una determinata lingua implichi anche una mancata inculturazione del cristianesimo in quella cultura. A prima vista, nel nostro caso, una tale conclusione sembrerebbe azzardata, visto che il cristianesimo in Sardegna è presente fin dai primi secoli di questo millennio. Eppure, ci sembra che la domanda non possa essere elusa. Certo, un breve articolo di giornale non è il luogo adatto per approfondirla. Possiamo però, almeno, avanzare il dubbio se ciò che si dà per scontato lo sia poi davvero, o non faccia parte di quei luoghi comuni in cui ci accomoda per non pensare e per continuare a non fare ciò che finora si è trascurato di fare.
Per impostare il problema da un punto di vista positivo, partiamo ancora dal documento della Pontificia Commissione Biblica, documento che fin dal suo apparire risultò quanto mai trascurato nel contesto di una sensibilità ecclesiastica che privilegia sempre più gli argomenti immediati della morale sessuale e familiare rispetto a quelli, come l’uso della Bibbia, meno immediati, ma anche più fondamentali e più specificamente cristiani. Ma tant’è, non vale lamentarsi: così va il mondo, diceva il Manzoni, o almeno così va questo mondo religioso a cavallo del millennio.Dunque, il documento pontificio prosegue, anzitutto, mettendo in evidenza che tutti i testi biblici che leggiamo, e non solo i testi evangelici, sono da leggere all’interno di questa tappa di inculturazione:
"Questa tappa ha avuto inizio fin dai tempi dell'Antico Testamento quando il testo ebraico della Bibbia fu tradotto oralmente in aramaico (Ne 8,8.12) e, più tardi, per iscritto in greco. Una traduzione infatti è sempre qualcosa di più di una semplice trascrizione del testo originale. Il passaggio da una lingua a un'altra comporta necessariamente un cambiamento di contesto culturale: i concetti non sono identici e la portata dei simboli è differente, perché mettono in rapporto con altre tradizioni di pensiero e altri modi di vivere.Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaicoellenistica il messaggio palestinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico" (pag. 109).
Nel corso della presentazione e della discussione delle traduzioni in sardo del vangelo, abbiamo già dato e daremo degli esempi di questa prima "trasposizione culturale" messa in atto nelle prime comunità cristiane, ponendola alla base della domanda di come una traduzione in sardo debba ripercorrere il medesimo cammino, se vuole evitare di essere una semplice "traslitterazione" di un frasario cultuale che non ha niente da vedere né con la lingua né con la tradizione culturale sarda.Il seguito del documento pontificio è però quanto mai importante in vista della riflessione sulla nostra domanda iniziale sull’inculturazione del cristianesimo in Sardegna. Esso afferma (pag. 109):
"La traduzione dei testi biblici, tappa fondamentale, non può però essere sufficiente ad assicurare una vera inculturazione. Questa deve costituirsi grazie a un'interpretazione che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito con i modi di sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale. Dall'interpretazione si passa poi ad altre tappe dell'inculturazione, che portano alla formazione di una cultura locale cristiana, che si estende a tutte le dimensioni dell'esistenza (preghiera, lavoro, vita sociale, costumi, legislazione, scienza e arte, riflessione filosofica e teologica). La Parola di Dio è infatti un seme che trae dalla terra in cui si trova gli elementi utili alla sua crescita e alla sua fecondità (cf Ad Gentes, 22).
In conseguenza di queste affermazioni, la domanda iniziale si trasforma dunque in altre. Conosciamo, e quanto e come, "i modi di sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale"? Quali strumenti, ad esempio quali studi antropologici, abbiamo per avere una conoscenza riflessa e critica di questi modi di sentire e di pensare? Nella riflessione dei cosiddetti "uomini di chiesa", ad esempio, nei documenti dei vescovi o in altre pubblicazioni teologiche, è presente e in che modo "un’interpretazione che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito" con questi modi culturali locali? Esiste una riflessione su quali di questi modi potrebbero essere considerati "utili alla crescita e alla fecondità" del messaggio evangelico? Se si facesse un excursus storico su come la chiesa sarda ha cercato lungo i secoli di "inculturare" il cristianesimo, ho il sospetto che gli ultimi cento anni si rivelerebbero da questo punto di vista ben al di sotto di altri periodi storici. Se leggiamo la frase del documento pontificio che conclude il paragrafo che stiamo citando, forse ne possiamo elencare uno dei motivi principali:
"Di conseguenza, i cristiani devono cercare di discernere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore » (Ad Gentes, 11)".
Domanda finale, per tornare all’inizio: chi fra i cosiddetti uomini di chiesa apprezza come "curiosità" i tentativi di esprimere in sardo i testi biblici o evangelici, può dirsi davvero d’accordo con questo testo conciliare che valuta le caratteristiche dei popoli come "ricchezze" della munificenza di Dio? Se non si ha una valutazione positiva della cultura sarda o della sua identità, quali "ricchezze" si pensa di "illuminare" e di fecondare? Ma, si dirà, queste cose il Concilio le diceva per i territori di missione, non per l’occidente di antica tradizione cristiana, di cui la Sardegna fa parte. E poi, siamo ormai in una fase di "deculturazione" avanzata. Perché fare un’operazione di retroguardia? Forse, il testo del documento pontificio ha ancora qualche elemento utile per riflettere su queste due obiezioni:
"Nell'Oriente e nell'Occidente cristiano l'inculturazione della Bibbia si è effettuata fin dai primi secoli e ha manifestato una grande fecondità. Non può, tuttavia, mai essere considerata conclusa; al contrario, deve essere ripresa costantemente, in rapporto con la continua evoluzione delle culture. Nei paesi di più recente evangelizzazione il problema si pone in termini diversi. I missionari, infatti, portano inevitabilmente la Parola di Dio nella forma in cui si è inculturata nel loro paese di origine. È necessario che le nuove chiese locali compiano sforzi enormi per passare da questa forma straniera di inculturazione della Bibbia a un'altra forma, che corrisponda alla cultura del proprio paese"(pag. 110).
Se il linguaggio è una spia valida di certe cose, allora a giudicare dai tanti cultismi, italianismi o traduzionismi in genere presenti nei testi religiosi sardi più recenti, viene davvero da pensare che forse vale anche per noi la necessità di uno sforzo "per passare da una forma straniera di inculturazione" a un’altra forma che corrisponda maggiormente alla cultura del nostro paese.