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02/03/2005 Parres libberos

Eutanasia di una lingua

de Marcello Moro

Ho preso da un po’ a interessarmi alla lingua sarda, curiosando fra le più svariate iniziative che proliferano sulla materia.

Non ho capito ancora bene quante di queste siano solo una fonte di facile profitto senza essere per niente meritorie e quante siano meritorie e interessanti ma con poca fortuna a livello istituzionale. Fra le tante mi sono imbattuto nel “Sotziu Limba Sarda”, che mi pare si ponga in antitesi con la scuola di pensiero che si rifà alla “LSU” dei varie Corraine e soci, che ci viene proposta (imposta) in tutte le salse.

E’ ormai tutto un proliferare di iniziative sull’uso di questa lingua sarda unificata, appunto da parte del “Uffitziu de sa limba sarda”, che, seppur molto sostenute a livello istituzionale, non mi sembra suscitino grandi entusiasmi fra la gente. A questo fenomeno bisognerebbe guardare invece con preoccupazione.

Qualche tempo fa “La Nuova” pubblicò un intervento del Direttore dell’ULS della Provincia di Nuoro, Diego Corrine, nel quale egli (sintetizzo al massimo) scriveva che la lingua sarda costituisce una ricchezza per la nostra cultura e come tale da valorizzare.

Ebbene, partendo da una premessa – la valorizzazione della lingua sarda in quanto ricchezza in termini di cultura e di saperi – si conduce un’operazione che va nella direzione opposta: una vera e propria eutanasia della nostra lingua.

La lingua sarda è costituita da molteplici varianti, tante quanti sono i comuni della Sardegna, con differenze talvolta minime (fra paesi e zone vicine), talvolta notevoli al punto da costituire una vera e propria lingua a sé (basta pensare al catalano di Alghero).

Tale diversità non ha di certo impedito, negli anni e nei secoli passati, che i sardi delle diverse zone comunicassero fra di loro compiutamente e per le più disparate esigenze, ben prima della diffusione dell’italiano come lingua comune. Oggi, rischiare di perdere questa varietà (che è la nostra cultura e la nostra storia) in nome della presunta esigenza di avere una lingua sarda unificata, mi sembra un’assurdità.

In un convegno organizzato a Sorgono il 13 febbraio scorso sull’argomento, il Prof. Maurizio Virdis, Ordinario di Filologia e linguistica sarda della Facoltà di Lettere di Cagliari, afferma fra le altre cose “… non bisogna pensare allo standard e costruire una lingua a tavolino, ma capire la vitalità della lingua stessa, nei vari contesti geografici e poi applicarla al concreto”. Da parte sua il Prof. Duilio Caocci, Docente di Filologia romanza dell’Università di Sassari dice fra l’altro “…oggi imporre un sardo che nella realtà non esiste è nient’altro che un artificio”.

Ecco, è proprio questo artificio che si vuole imporre, con la complicità o il colpevole silenzio di istituzioni, compresa la Scuola, che senza riflettere né dibattere, dovrebbe anch’essa promuovere l’uso di una lingua nata di fatto solo qualche anno fa.

Tutto questo quando in ogni paese spariscono dalla memoria collettiva decine e decine di parole in sardo, che ricordano (e peraltro ormai non usano) solo i nostri vecchi.

Usare questo sardo unificato mi sembra abbia prodotto niente di utile né interessante dal punto di vista linguistico.

Ricordo i nostri vecchi alle prese con l’italiano: un italiano maccheronico, frutto spesso di traduzioni letterali di parole con accezioni diverse, e con la costruzione di frasi che risultavano spesso di significato diverso da quanto si voleva affermare. Un italiano che tutto sommato faceva sorridere ma che aveva mille giustificazioni.

Secondo me sta succedendo la stessa cosa a chi oggi vuole imporre questa lingua nuova, alle prese con improbabili traduzioni “letterali” dall’italiano al sardo, fatte in tutta evidenza da persone che parlano, scrivono e soprattutto pensano in italiano: il risultato non può che essere un sardo appunto maccheronico, che suscita risolini imbarazzati (e oltretutto costa anche un bel po’ di soldi al contribuente).

E’ tutto un proliferare in ogni luogo (negozi, uffici, ecc.) di etichette con i vari “tira”, “ispinghe” “non pippes”, “intrada”, “essia”, “prima ‘e di c’andare conta bene su dinare” e altre amenità di questo genere, che a leggerle, diciamoci la verità, ci si sente un po’ ridicoli.

Ma produce anche traduzioni che cambiano il significato originale: un esempio? Comunità Montana del Nuorese: tradotto diventa “Comunidade Montana de su nugoresu”, che ha però un significato diverso: il nuorese in italiano indica un luogo, una zona, “su nugoresu” indica una persona, per cui può capitare di scoprire che quell’istituzione ha ora un padrone, che è un tale di Nuoro. . . “nugoresu” appunto.

Oppure: “L’incontro si terrà ….” che viene tradotto “S’incontru s’atta a tennere”, quando” tennere” significa invece acchiappare, “…. Dalle h 9:00 alle 17:00” che viene tradotto“…. Dae oras nove a oras deghessette …”, anziché dae sas nove a sas chimbe (de sero, o de bortaudie, diverso a seconda che si sia d’estate o d’inverno).

Si potrebbe andare avanti a lungo perché c’è abbastanza materiale per farlo.

Quindi da una premessa lodevole -il recupero e la valorizzazione dalla lingua sarda- è nata un’idea sbagliata –quella di creare un artificio linguistico da imporre con tutti i mezzi- messa in pratica ancora peggio. Non bisogna dimenticare che c’era già una variante della lingua sarda, quella del “Logudoro”, riconosciuta e accettata quale lingua per la poesia, che si poteva tentare di utilizzare anche per altre eventuali esigenze. 

A questo punto si potrebbe, con realismo, prendere atto che l’esperimento è un fallimento (vi ricordate quando si parlava di “esperanto”?) e imboccare una nuova strada, che, utilizzando le strutture ormai già messe in moto, si occupi, per esempio con opportuni collegamenti con le Scuole, di recuperare in ogni paese la lingua locale originaria e in questa tradurre, ammesso che ve ne sia davvero la necessità, documenti, atti, e quant’altro.

Ad essere sincero mi lascia perplesso il fatto che il sardo si possa utilizzare per argomenti complessi, di carattere tecnico, scientifico, filosofico, ecc., in quanto sarebbe necessario per forza “contaminarla” con vocaboli nuovi che non gli appartengono. Ma se si ritiene che tale operazione sia fattibile, non sarebbe meglio evitare le traduzioni improbabili di parole nuove utilizzando i termini originari? Ad es. “su computer” e non s’elaboradore elettronicu”, su “telefono” e non su “faeddatesu”.

Voglio cogliere l’occasione per chiedere anche se ritenete che si possa in qualche (e in quali) modo contrastare la diffusione di questa lingua sarda unificata: io scrivo da Oniferi, e oggi alle 18da noi ci sarà un incontro con la partecipazione appunto di Corraine e soci, per promuovere la diffusione di questo mostro linguistico. So per certo che c’è tanta gente che non condivide affatto queste iniziative, che però difficilmente prenderà posizione.

E’ preferibile snobbare l’evento, o partecipare e dibattere?

E’ possibile che qualcuno del Sotziu Limba Sarda vi partecipi per illustrare una scuola di pensiero diversa? In caso contrario è ipotizzabile una iniziativa in futuro?

Posso contare su una risposta a breve?



Marcello Moro

Oniferi

A segus