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26/02/2005 Rassigna de s'imprenta - L'Unione Sarda

Giulio Paulis racconta Angius: è fondamentale per la limba

de Walter Falgio

«Vittorio Angius non era un linguista ma la sua grammatica sarda ha un importante valore storico». Giulio Paulis, preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliari, insegna glottologia da più di trent'anni e conosce bene il lavoro dello Scolopio pubblicato nel 1853: «Ho avuto modo di consultare le poche copie custodite nelle biblioteche cittadine e devo dire che non possiamo prescindere da questa trattazione se vogliamo capire come si sono sviluppate le idee sulla lingua sarda». L'opera dell'Angius ancora una volta sorprende perché anticipa tematiche che, a distanza di 150 anni, continuano ad essere al centro della ricerca linguistica. «L'idea di ipotizzare un dialetto medio "arborese" è tutt'altro che malvagia», spiega Paulis, «dato che è stata ripresa in tempi recenti dai linguisti Antonio Sanna e Maurizio Virdis». Ciò che non va bene è il metodo: «Il religioso cita e utilizza a più riprese i falsi d'Arborea. Sulla base di questi documenti la dimostrazione, naturalmente, è priva di valore». L'intellettuale cagliaritano esalta il sardo medievale di cui, per la prima volta, descrive le caratteristiche in modo non episodico. Ricerca una lingua "erudita e gentile", cercando di preservarla dalla "depravazione" che la trasformerebbe in una "favella idiotica". Per questo Angius è contrario a qualsiasi forma di contaminazione e innovazione e racchiuderà il suo ideale linguistico nel celebre inno sabaudo Conservet Deus su Re. Un esercizio letterario lontanissimo dall'idioma parlato quotidianamente nei borghi e nelle campagne della Sardegna. La grammatica dell'Angius è stata pubblicata nel 1853.
Allora in Sardegna quanto e come si parlava il sardo? 
«Certamente tutta la popolazione parlava il sardo nelle sue diverse articolazioni dialettali. La quasi totalità in condizioni di monolinguismo, soltanto un'esigua minoranza era bilingue, affiancando all'uso del sardo, lingua della socializzazione primaria, l'uso o la conoscenza dell'italiano. I bilingui appartenevano alle classi sociali più elevate e al ceto dei commercianti, ossia al segmento della società più incline all'integrazione nella cultura dominante. Il possesso della lingua di maggior prestigio, l'italiano, era strumento e simbolo di una posizione privilegiata nella scala sociale».
Rispetto alle altre grammatiche ottocentesche dell'abate Vincenzo Porru e del canonico Giovanni Spano, in che rapporto si pone il lavoro linguistico dello scolopio?
«La trattazione dell'Angius presenta punti di contatto, ma anche differenze significative. Elemento comune è il riconoscimento della filiazione del sardo dal latino e l'esaltazione della sua particolare fedeltà alla lingua madre, secondo una tradizione risalente, nel Settecento, a Matteo Madao e, nel secolo precedente, al sacerdote orgolese Gian Matteo Garipa. Divergono invece l'ideologia linguistica, la tipologia dei materiali considerati, il modello di lingua proposto per un uso colto del sardo, nonché il target cui mirano i tre grammaticografi. Per il canonico Spano la "vera lingua dei Sardi" era il logudorese e ad esso doveva riferirsi l'attività di "ripulitura", di codificazione grammaticale e di arricchimento lessicale. Vincenzo Porru, studioso del dialetto sardo meridionale, rifuggì le condanne di tipo puristico e considerò gli apporti esterni come inevitabili elementi di innovazione. Egli abbracciò la visione del cambiamento linguistico più adatta ad assicurare dignità al campidanese. Invece l'Angius fu sostenitore di un ideale linguistico fortemente arcaizzante e contrario a qualsiasi innovazione. La sua condanna coinvolse tanto il cagliaritano, quanto il poco conservativo uso del logudorese del suo tempo».
Quale variante propose l'Angius?
«Pur sottolineando positivamente l'arcaicità delle moderne parlate dell'area nuorese, sostenne l'opportunità di codificare come varietà di riferimento il sardo scritto dell'epoca medievale, dove le differenze tra logudorese e campidanese si riducevano sensibilmente». 
Da attento conoscitore dell'isola qual era, il religioso ne colse anche la multiforme realtà linguistica? 
«L'impostazione arcaizzante che diede della sua opera di codificazione grammaticale e di normalizzazione linguistica gli impedì di rendere conto della varietà delle parlate vive esistenti nell'isola, che certamente non ignorava».
La definizione dei due principali dialetti sardi in meridionale o partejossese e settentrionale o partesuese suona come una semplificazione eccessiva?
«In parte Angius riprende una tradizione precedente, che si riscontra anche nel Porru e nello Spano e ancor prima nel Madao. La semplificazione, però, è favorita dal fatto che l'attenzione è rivolta al periodo medievale. Vi è da aggiungere che accanto al dialetto meridionale e a quello settentrionale, Angius postula l'esistenza di un "dialetto medio", pertinente ai documenti dell'antico giudicato d'Arborea»
. Anche lo scolopio cagliaritano, in sintonia con il linguista ozierese Matteo Madao, propugnava un ripulimento della lingua sarda? 
«Angius era un purista, come il Madao, e al pari di questi un "ripulitore". Tuttavia, mentre il Madao fece oggetto di codificazione il logudorese letterario, Angius, ripeto, si appuntò al sardo medievale». Certamente considerava il sardo come una lingua letteraria. Esempio per tutti, l'inno dei Savoia Conservet Deus su Re. «Non c'è dubbio. Però il sardo "ripulito" di cui si è detto. D'altronde la lingua di Conservet Deus su Re, l'inno che nelle intenzioni dell'Angius voleva essere una celebrazione dell'identità culturale sarda, è quanto di più lontano si possa pensare dal sardo parlato nella realtà quotidiana». 
In che modo il religioso si è riferito ai falsi d'Arborea nella sua grammatica? 
«Angius cita e utilizza a più riprese i falsi d'Arborea: una lettera d'un vescovo al suo popolo, cronaca tarrese, grida del giudice Saltaro di Gallura, e altri. Sulla base di questi materiali, oltre che della Carta de Logu, ipotizza l'esistenza di un dialetto "medio o arborese". Evidentemente la dimostrazione è priva di valore. Ma l'idea era tutt'altro che malvagia, come dimostra il fatto che essa è stata ripresa in tempi recenti dai linguisti Antonio Sanna e Maurizio Virdis». 
La grammatica dell'Angius può essere considerata scientificamente valida? Nell'introduzione, auspicando che il suo lavoro sia "cosa utile", l'autore si rivolge prima di tutto ai linguisti. «È un'opera che ha valore storico, che riguarda la storia degli studi sulla lingua sarda. Dobbiamo prenderla in considerazione se vogliamo capire come si sono sviluppate le idee sul sardo».
Esistono degli aspetti innovativi nella sua ricerca linguistica? 
«Pur con i limiti già accennati, il lavoro si segnala come il primo tentativo di descrivere le caratteristiche e i documenti del sardo medievale. Ha inoltre il merito di richiamare l'attenzione sui dialetti centrali, che Madao e Spano immolarono sull'altare del Logudoro illustre, e di mostrare un'apprezzabile sensibilità per l'analisi dei processi di derivazione nominale». 
La riscoperta della lingua sarda proposta dall'Angius era ancora intrisa dell'ideale patriottico e del sentimento d'identità ereditati dal rifiorimento culturale di fine Settecento?
«Non c'è dubbio, anche se nel suo caso, come pure di altri intellettuali sardi suoi contemporanei, è corretto parlare di doppia identità o di identità oscillante tra il polo sardo e quello italiano. Nel senso che il sentimento di appartenenza a una patria sarda non ebbe mai coloriture anti-italiane». 

Walter Falgio

25/02/2005

A segus