Il Catalano e il Sardo: due modi di valorizzare la propria lingua
de Enrico Chessa
Il catalano e’ una lingua viva. Lo ha detto il professor Joan Sola’ –insigne linguista- in una recente conferenza. I dati dell’Istituto di Sociolinguistica Catalana lo confermano: e’ la lingua abituale per piu’ del 50% della popolazione, la trasmissione da genitori a figli aumenta di quasi 11 punti di percentuale, si ascoltano piu’ ore di radio e si vede piu’ televisione in catalano, gli immigrati la adottano per le loro comunicazioni quotidiane, ecc. Il suo stato di salute e’ quindi, in generale, molto buono. Eppure, il Governo Catalano ha appena stanziato, soltanto per una campagna pubblicitaria volta a sensibilizzarne l’uso, piu’ di tre milioni di euro. Ovvero: quasi quanto l’intero ammontare che la Regione Autonoma della Sardegna ha destinato alla lingua sarda nella finanziaria di quest’anno.
E’ vero, le casse della Regione piangono mentre quelle della Generalitat sono, forse, stracolme. E questo e’ un aspetto non trascurabile. Ma la differenza sostanziale fra loro e noi, a prescindere dai conti pubblici, e’ un’altra: per i catalani la lingua e’ sempre stata un tema prioritario. Per noi no. Non credo, quindi, sia un problema di questa o quella amministrazione, ma il riflesso politico di un atteggiamento generalizzato della societa’ sarda. L’emancipazione nazionale e’ un obiettivo condiviso in modo molto trasversale all’interno della comunita’ catalana (dai piu’ radicali sostenitori di Esquerra Republicana de Catalunya sino a toccare frange del Partido Popular ). In Sardegna, e’ un “affare” di pochi. E l’emancipazione nazionale catalana passa necessariamente attraverso il potenziamento della lingua. La quale diventa sia un segno chiaro di differenziazione con l’esterno sia un elemento di forte coesione interna. La lingua si trasforma cosi’ –la’ dove ancora non c’e’ totale indipendenza politica- in una nitida linea di confine. A partire da qui tutta una serie di rivendicazioni socio-politico-economiche.
Il Popolo Sardo, invece, giace ancora adagiato su un assurdo e ingannevole concetto di Autonomismo Regionale, che da decenni ci tiene sotto anestesia per farci sopportare meglio il dolore della sudditanza. Quell’autonomismo che prima ci fa credere che possiamo legiferare sulla tutela del nostro territorio e poi ci fa cadere addosso la minaccia dello Stato che impugna il decreto salvacoste; quell’autonomismo che prima ci illude di poter vivere in una terra denuclearizzata per poi dimostrare tutta la sua fragilita’ difronte alla sentenza della Corte Costituzionale; quell’autonomismo, in buona sostanza, che spesso –troppo spesso- e’ costretto a far decidere terzi su questioni che riguardano il nostro popolo. E allora il Popolo Sardo si trova, oggi piu’ che mai, davanti ad un bivio: o adeguarsi all’idea di un regionalismo periferico che interagisca con un centro invadente; o intraprendere un percorso di autodeterminazione nazionale, il quale non puo’ prescindere dalla lingua, ne’ da una Politica Linguistica organica, decisa e coraggiosa.