26/02/2005 Rassigna de s'imprenta - L'Unione Sarda
La Babele delle lingue è una ricchezza, non un guaio
di Giulio Angioni
Mentre si contendono il campo la proposta di una Limba Sarda Unificada, avanzata da una commissione voluta qualche anno fa dalla Regione Sardegna, e un'altra denominata Limba Sarda de Mesania, mi pare che emergano più chiari i problemi e le difficoltà di queste o di altre imprese dette di unificazione e di ufficializzazione del sardo. Appare tra l'altro sempre più chiaro che questo tipo di proposta viene fatto con il retropensiero che il plurilinguismo esistente oggi in Sardegna sia un inconveniente, che viene risentito come frammentazione negativa, e quindi si corre ai ripari come se fosse necessario (e urgente per "salvare il sardo") porre rimedio alla pluralità linguistica esistente, e si lavora a una "unificazione" che sia insieme "ufficializzazione" del sardo. Eppure l'idea che il plurilinguismo non sia il male da sanare, ma al contrario un bene da proteggere sta cominciando a imporsi, soprattutto nella forma della protesta e della rivendicazione del buon diritto alla sopravvivenza e alla valorizzazione di ogni varietà linguistica esistente oggi in Sardegna. L'idea che le varietà linguistiche della Sardegna, come di qualunque altro luogo, non costituiscano un guaio ma una risorsa, che la glottodiversità è tanto buona quanto la biodiversità, si sta facendo strada attraverso il riconoscimento risentito che una qualche forma, esistente o creata ad hoc, si imponga a detrimento della propria parlata materna e locale. Pare cioè che si stia delineando sempre meglio, in positivo, una visione delle cose linguistiche sarde che tiene conto del fatto che l'attuale situazione linguistica della Sardegna, nel suo ampio e vario plurilinguismo, è una risorsa e una ricchezza, da salvaguardare e da mettere a profitto, come è anche negli intenti della leggere regionale 26/97, che proclama la pari dignità di tutte le varietà linguistiche usate oggi in Sardegna in qualunque ambito d'uso. Pari dignità sia rispetto all'italiano e sia dell'una varietà rispetto alle altre. In altri termini, si sta facendo chiara la constatazione che il repertorio linguistico della Sardegna, tutto quale esso è, dal carlofortino al maddalenino passando per l'italiano, il campidanese, il logudorese, il gallurese, l'algherese e il tabarchino (o comunque tale repertorio sia individuato e distinto al suo interno e verso l'esterno), non solo è una realtà con cui bisogna fare i conti quando si fa politica linguistica, ma è un patrimonio del popolo sardo, da salvaguardare tanto quanto il resto delle cose materiali e immateriali che si definiscono e si sentono come patrimonio. La pluralità linguistica, finalmente, viene constatata, riconosciuta e valutata in positivo, e non più come un mero ingombro e una complicazione da eliminare, come è del resto abitudine italiana secolare, in nome dell'unità contro il particolarismo, abitudine di risorgimental-monarchica memoria. Vecchia e miope abitudine, che fa dell'Italia forse l'unico paese europeo dove si definiscono straniere lingue come il tedesco (madrelingua di centinaia di migliaia di cittadini della repubblica italiana), il francese (madrelingua di diverse decine di migliaia di italiani) e così via per lo sloveno, l'albanese, il catalano e altre lingue. Anche qui da noi incominciamo a capire che è una cattiva abitudine quella di considerare la pluralità linguistica non solo da ignorare, ma anche da eliminare come ingombro. Nel nostro piccolo noi sardi si rischia di fare lo stesso errore di visione e di prospettiva, dandoci tanto da fare per "unificare", invece di tenere conto anche in positivo della pluralità. Stiamo capendo insomma che si tratta di una ricchezza, un patrimonio da salvaguardare e da valorizzare, anche come risorsa economica, per esempio sul piano turistico, dato che c'è anche un turismo colto attento al patrimonio linguistico delle genti e dei luoghi visitati e non solo ai piatti tipici e ai monumenti megalitici della preistoria così adatti ad accenderci fantasie identitarie. Si capisce sempre meglio anche da noi, per esempio, che si può e si deve valorizzare il patrimonio linguistico della Sardegna anche attraverso l'istruzione scolastica ufficiale, i mezzi di comunicazione di massa, la creatività artistica, mentre si registra la novità positiva di una buona prosa letteraria in varie e diverse parlate della nostra isola e dintorni. Una didattica basata sul principio pedagogico secondo cui le esperienze, a cominciare da quelle linguistiche, debbono prendere l'avvio dal vicino e conosciuto per arrivare, col tempo, allo sconosciuto, o al poco conosciuto, e al lontano, può e deve prima di tutto informare sulla propria parlata locale. Un modo (sebbene non dogmaticamente il solo) di educazione linguistica: familiarizzando i bambini e i ragazzi con le varietà del patrimonio plurilinguistico della Sardegna e facendole apprezzare come risorsa comune, si avvia un'educazione linguistica finalmente democratica e comunque ampia e moderna. Si partirebbe dall'interesse per la parlata locale per giungere a forme crescenti di conoscenza delle altre particolarità locali formanti il complessivo patrimonio linguistico e culturale di tutti i sardi, anche nel passato, come primo e importante passo verso una formazione linguistica complessiva, dal selargino all'inglese. Soprattutto nel caso dei molti sardi ormai di madrelingua italiana è formativa e arricchente una qualche conoscenza delle altre varietà linguistiche dell'isola, a cominciare da quella del luogo. È indubbio poi che artisti, scrittori, gente di teatro, di cinema, dei massmedia e così via, possono essere anche da noi artefici della valorizzazione del patrimonio linguistico, in un uso accorto e rinnovato, ma non solo strumentale all'accesso ai fondi, di tutte le varietà linguistiche dell'isola. Si è notato pure che la Regione ha un suo nuovo ruolo istituzionale importante nella valorizzazione del patrimonio linguistico della Sardegna, dati i compiti nuovi che ha in materia di programmi scolastici, e che quindi può proporre l'inserimento dello studio del nostro patrimonio plurilinguistico tra le materie delle scuole di ogni ordine e grado: ma, in questa prospettiva, senza privilegiare nessuna parlata come maggiore o unica o unificata, evitando l'ulteriore dialettizzazione delle altre già esistenti. Unificare e ufficializzare, dunque, non appare più la sola cosa da fare e nemmeno la migliore e la più possibile. Nella prospettiva della pluralità linguistica come patrimonio acquista una dimensione più realistica anche la questione di un uso ufficiale amministrativo del "sardo" da parte del governo regionale e delle amministrazioni locali, uso che non può proporsi al vecchio modo centralistico e normativo, ma rispettando e valorizzando invece proprio la pluralità in quanto risorsa, e senza trascurare che l'italiano svolge già questo ruolo (anche legale) di lingua ufficiale in Sardegna, mentre diventa sempre più necessaria la conoscenza dell'inglese. Senza di che, lo stiamo vedendo, si rischia comunque il fallimento già in fase progettuale, non foss'altro anche solo per il fastidio della gente più o meno interessata alla propria parlata, fino al rifiuto esplicito e risentito di ogni proposta fatta finora. Rifiuto sacrosanto e utile a far comprendere che proprio qui sta il punto: che si tratta cioè non tanto e non solo di rispettare tutte le varietà linguistiche dell'isola, ma di considerarle un patrimonio da valorizzare, anche una ricchezza da mettere a profitto, e che quindi non si può rifare oggi a Nuoro o a Samugheo ciò che da tempo si rifiuta a Roma e a Bruxelles, come pure a Firenze in quanto sede dell'Accademia della Crusca. Forse solo in questa prospettiva si smetterà il vizio di parlarne sempre e di non parlarlo mai o sempre meno, il proprio sardo, o di usarlo solo per fare un bel gesto dimostrativo, di orgoglio identitario. Giulio Angioni